testo integrale con note e bibliografia
1. – Considerazioni preliminari.
Alla luce dei recenti orientamenti della Corte di Cassazione, in particolare, Cass. 31 marzo 2023, n. 9095 e Cass. 21 dicembre 2023, n. 35747, appare consolidarsi l’indirizzo sulla nullità del licenziamento del lavoratore disabile (o portatore di handicap), per discriminazione indiretta, in ragione del superamento del periodo di comporto causato dal mancato scomputo delle assenze collegate alle proprie patologie.
Il tema d’indagine riguarda le seguenti principali direttrici:
a) l’ampliamento della nozione di “handicap”, di derivazione comunitaria, come mutuata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, anche per patologie - a carattere duraturo e tali da ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nell’adempimento della propria prestazione - che non rientrano in quelle tabellari o “validate” dagli organi competenti che riconoscono i casi di invalidità ex L n. 68/99 o di disabilità ex L. n. 104/92;
b) la nullità delle clausole dei contratti collettivi, per discriminazione indiretta a norma del D.lgs. n. 216/2003 (e della direttiva 2000/78/CE), allorchè esse non prevedano lo scomputo delle malattie dovute a disabilita o handicap;
c) l’obbligo di accomodamenti ragionevoli che il datore deve adottare al fine della salvaguardia del posto di lavoro del disabile:
d) la ripartizione degli oneri probatori, anche con riferimento alla circostanza che, secondo la Suprema Corte, la discriminazione opera oggettivamente.
2. – Le fonti normative.
La fattispecie del licenziamento discriminatorio del disabile trova i propri principi fondanti in normative di origine internazionale ed eurounitaria e, comunque, anche nella legislazione nazionale che si ispira a tali fonti primarie.
In particolare, deve segnalarsi la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (c.d. Carta di Nizza) che, all’art. 26 (intitolato “Inserimento delle persone con disabilità”), prevede: “l’Unione riconosce e rispetta il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l'inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità”.
In merito, assume poi particolare rilievo anche la Convenzione delle Nazioni Unite (art. 27) sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dalla L. n. 18/2009, secondo cui gli Stati Parti riconoscono il diritto al lavoro delle persone con disabilità al fine di favorire la loro inclusione e accessibilità al pari degli altri prestatori. In particolare, la Convenzione, agli art. 5, par. 3 e all’art. 1 co. 2, pone un obbligo per gli Stati Parti a prendere tutti i provvedimenti appropriati per assicurare che siano forniti “soluzioni ragionevoli” a garantire la tutela dei diritti dei disabili che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo.
* Lo scritto costituisce la rielaborazione della relazione tenuta al Convegno organizzato da Associazione Nazionale Forense di Roma il 13 Marzo 2024
Altra fonte primaria è rappresentata anche dalla Direttiva UE 2000/78 del 27 novembre 2000, volta alla lotta alle discriminazioni fondate anche sulla condizione di handicap che, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro e facendo leva sul principio della parità di trattamento (art. 1), ha stabilito il divieto di discriminazioni dirette o indirette in danno anche dei disabili (art. 2), ai quali deve essere garantito “di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione”, mediante la previsione di “soluzioni ragionevoli”, anche con un onere finanziario proporzionato a carico del datore di lavoro (art. 5).
In ambito nazionale, la normativa a tutela dei disabili trova particolare cogenza, con riferimento ai limiti al potere di recesso del datore di lavoro in caso di sopravvenuta inidoneità alla mansione, nelle seguenti discipline: nella L. n. 68/1999; nelle disposizioni del D.Lgs. n. 81/2008 (in particolare, l’art. 42) e, con riferimento alla disciplina sul licenziamento individuale, in entrambe le due riforme del 2012 (L. n. 92/2012) e del 2015 (D.Lgs. n. 23/2015).
La legislazione in materia contempla, tra i fattori di rischio, anche la condizione di handicap fisico, suscettibile di tutela giurisdizionale con specifico riferimento all’area della “occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento” (art. 3, comma 1, lett. b, D.Lgs. n. 216/03).
L’articolo 2 del D.Lgs. n. 216/2003, infine, individua una discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento, apparentemente neutro, possono mettere le persone portatrici di handicap in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.
3. – La nozione eurounitaria di handicap.
La Corte di Giustizia è stata investita più volte della questione se possa costituire o meno una discriminazione indiretta il licenziamento per superamento del periodo di comporto in ragione di assenze per gravi patologie. In merito, la giurisprudenza eurounitaria, chiamata a pronunciarsi sulle differenze esistenti, ai fini delle tutele, tra malattia e disabilità, ha affermato che la nozione di handicap, di cui alla Direttiva 2000/78, deve essere interpretata nel senso che essa include: “una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con altri lavoratori e tale limitazione sia di lunga durata”.
In tal senso, si vedano ex multis: C. giust., 11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/2011 e C-337/2011, p. 47; C. giust. 18 gennaio 2018, Ruiz Conejero, C-270/16; Corte giust. 18 dicembre 2014, FOA (Fag og Arbejde), C-354/2013, punto 53, secondo cui anche l’obesità rientra nella nozione allargata di handicap, ai sensi della Direttiva 2000/78, allorché sia di ostacolo alla partecipazione del lavoratore alla vita professionale.
4. – Protezione rafforzata in ragione del fattore rischio (handicap): autonomia della nozione di handicap a prescindere dal riconoscimento della disabilità da parte del diritto interno.
A conferma di tale obbligo di “protezione rafforzata” del portatore di handicap, proprio in ragione del fattore rischio a cui quest’ultimo è soggetto, si segnala anche Corte giust., 11 aprile 2013, HK, Dammark, C-335/11 e C-337/11, punto 91, secondo cui “non si deve (…) ignorare il rischio cui sono soggette le persone disabili, le quali, in generale, incontrano maggiori difficoltà rispetto ai lavoratori non disabili a reinserirsi nel mercato del lavoro e hanno esigenze specifiche connesse alla tutela richiesta alla loro condizione” (principio questo più volte richiamato dalla giurisprudenza nazionale di merito e di legittimità).
La Corte di Giustizia da ultimo, con sentenza del 18.01.2024, nella causa C-631/22, richiamando altre proprie decisioni (cfr. sentenza del 21.10.2021, Komisia za zashtita ot diskriminatsia, C-824/19, EU:C:2021:862, punto 59), ha ribadito il principio per cui la Direttiva 2000/78 deve essere interpretata in conformità con le disposizioni della Convenzione ONU, al cui art. 2, viene previsto che per “discriminazione fondata sulla disabilità”, si intende “qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo”. Nel tempo, la giurisprudenza ha riconosciuto che la nozione di disabilità e/o handicap può essere “scollegato” dal riconoscimento, da parte degli organi competenti, dell’invalidità ex L. n. 68/99 o dei benefici della L. n. 104/92.
Il concetto di una nozione “allargata” di handicap ha trovato il proprio fondamento giuridico in ragione dei principi espressi dalla giurisprudenza eurounitaria in tema proprio di una “condizione patologica”, causata appunto da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, che “possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con altri lavoratori e tale limitazione sia di lunga durata”, principio questo che è stato richiamato più volte nelle statuizioni della giurisprudenza nazionale (di merito e di cassazione).
In realtà, non esiste nel nostro ordinamento una definizione di disabilità univoca tra i vari settori dell’ordinamento e, in ambito giuslavoristico, la condizione di disabilità dipende solo dall’accertamento della menomazione fisica del lavoratore (cfr. sul punto: Cass. 23338/2018; Trib. Milano,12 giugno 2019).
4.1. – Il riconoscimento della condizione di handicap negli orientamenti della Suprema Corte a prescindere dal riconoscimento dell’invalidità (L. n. 68/99) e della disabilita’ (L. n. 104/92).
La Suprema Corte, con riguardo al tema della disabilità derivata da una situazione di infermità di lunga durata - tale da non consentire al dipendente di effettuare l’attività lavorativa in condizioni di uguaglianza con gli altri prestatori - ha affermato “l’assoluta autonomia del concetto di handicap, quale fattore di discriminazione, rispetto all'accertamento della condizione di handicap grave di cui alla legge 104 del 1992” (cfr. Cass. 27 settembre 2018, n. 23338).
Tale fattispecie, a parere della Suprema Corte, anche ai fini della tutela del licenziamento, rientra nel campo di applicazione della Direttiva Comunitaria n. 78/2000/CE del 27 novembre 2000.
La Corte di Cassazione ha approfondito i principi in materia di tutela del disabile e di parità di trattamento anche con riferimento alla tematica del licenziamento per sopravvenuta inidoneità psico-fisica del lavoratore, richiamando sul punto, in maniera completa e dettagliata, i riferimenti normativi comunitari ed internazionali che caratterizzano la fattispecie (cfr. Cass. 19 marzo 2018, n. 6798 e Cass. 22 ottobre 2018, n. 26675; Cass. 12 gennaio 2017, n. 618).
Secondo un indirizzo ormai consolidato della Cassazione, nell’ipotesi di licenziamento per sopravvenuta inidoneità psicofisica, ricorrono entrambi i requisiti richiesti dalla Direttiva 78/2000/CE del 27 novembre 2000 e, in particolare: sia l’attinenza della controversia alle condizioni di lavoro, tra cui rientra anche l’ipotesi del licenziamento (art. 3 della direttiva), sia il fattore soggettivo dell’handicap, protetto dall’articolo 1 della Direttiva. In merito, si vedano, ex multis: Cass. 26 ottobre 2018, n. 27243; Cass. 5 aprile 2018, n. 8419; Cass. 21 marzo 2018, n. 7065; Cass. 14 febbraio 2018, n. 3616, che corroborano tutte il principio secondo cui il recesso non è giustificabile per effetto della sola ineseguibilità della prestazione.
4.2. – La giurisprudenza di merito e il riconoscimento dell’handicap secondo la definizione eurounitaria: il dato comune relativo alla gravità delle patologie comportanti disabilità.
Il filo conduttore posto alla base del ragionamento della giurisprudenza oggetto di trattazione, affronta principalmente la seguente questione: se integri o meno, per un soggetto disabile affetto da una permanente grave patologia, una discriminazione indiretta la previsione di un medesimo periodo di comporto stabilito per un soggetto non afflitto da handicap.
In poche parole, se tale situazione, per così dire paritaria, determini una violazione dei corollari del principio di parità di trattamento, in base al quale, per evitare discriminazioni indirette, situazioni diverse meritano un trattamento differenziato.
Le sentenze che si sono occupate delle problematiche oggetto di approfondimento, si riferiscono tutte a vicende in cui il lavoratore era portatore di handicap (anche in un’accezione allargata) o di affetto da invalidità o, comunque, colpito da gravi patologie.
Si era in presenza di patologie, secondo i principi della Corte di Giustizia richiamati nelle precedenti pagine, a carattere duraturo tali da ostacolare la piena ed effettiva partecipazione del prestatore nell’adempimento della propria prestazione al pari degli altri lavoratori non affetti da tali limitazioni fisiche o psichiche
La giurisprudenza, negli ultimi anni, si è occupata di malattie tutte diverse tra loro, invalidanti, di lunga durata e che, proprio in ragione del fatto che costringevano il dipendente a prolungate assenze o, addirittura, a ricoveri ospedalieri, sempre collegati alla propria disabilità, rientravano nella nozione di “handicap” oggetto di tutela antidiscriminatoria secondo l’elaborazione della giurisprudenza eurounitaria (richiamata nelle pagine precedenti), trattandosi di assenze collegate eziologicamente a:
- una patologia cronica (Tribunale di Pisa, ordinanza 16 aprile 2015)
- un carcinoma all’utero (Tribunale Asti, ordinanza 23 luglio 2018),
- morbo di Parkinson (Tribunale Ivrea, ordinanza 7 luglio 2018),
- invalidità derivanti da infortunio (Tribunale Roma, sentenza 8 maggio 2018),
- malattie oncologiche (Tribunale Mantova, 22 settembre 2021 n. 126; Tribunale Milano, ordinanza 26 luglio 2022),
- una flebolinfodema all’arto inferiore destro (Tribunale Milano, ordinanza del 2 maggio 2022),
- un aneurisma (Corte appello Milano del 3 settembre 2021),
- una neoplasia cerebrale (Tribunale Bologna, 15 aprile 2014 e Tribunale Mantova, ordinanza n. 160 del 2018),
- sclerosi multipla (Corte appello Napoli, 17 gennaio 2023),
- sarcoidosi (Tribunale Lecco, 26 giugno 2022),
- diversi gradi di invalidità (Corte appello Roma, 25 giugno 2021; Tribunale Modena, 11 ottobre 2019),
- una sindrome depressiva determinata del senso d’inadeguatezza causato dall’immagine del proprio volto affetto da una grave dermatite seborroica (Corte appello Milano, 16 febbraio 2023);
- fibromialgia (Trib. Roma, ord. 18 dicembre 2023).
Recentemente, hanno riconosciuto la condizione di handicap secondo la definizione fornita dalla giurisprudenza eurounitaria, in ordine cronologico: il Trib. Ravenna, 27 luglio 2023; la Corte d’appello Roma, 27 novembre 2023; il Trib. Rovereto, 30 novembre 2023; il Trib. Roma, 18 dicembre 2023.
Secondo tali provvedimenti, le patologie sofferte dal lavoratore rientravano nella definizione di handicap, come elaborata dalla Corte di Giustizia, in quanto era di lunga durata e rappresentava una “minorazione fisica idonea a ostacolare la sua partecipazione in condizioni di parità alla vita professionale”, come dimostrato dalla documentazione medica allegata dai lavoratori (in particolare, sul punto, cfr. Trib. Rovereto, 30 novembre 2023).
Ai fini dell’accertamento di condotte discriminatorie sul luogo di lavoro, secondo tale indirizzo giurisprudenziale, non rileva che la disabilità non sia stata riconosciuta ai sensi della L. n. 104/1992, della L. n. 68/1999 o, comunque, non rientri nelle varie definizioni di inidoneità o inabilità dettate da discipline settoriali di diritto interno.
5. – Gli accomodamenti ragionevoli e la tutela rafforzata nei confronti del lavoratore disabile secondo la giurisprudenza di legittimità.
L’art. 3, comma 3 bis, del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, prevede che i datori di lavoro pubblici e privati, al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, sono obbligati ad adottare accomodamenti ragionevoli entro il limite di un onere finanziario proporzionato e non eccessivo.
L’articolo 5 della Direttiva 2000/78/CE stabilisce che per “garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli”. Tale Direttiva è stata più volte richiamata dal giudice europeo e, in particolare, nella sentenza 4 luglio 2013, C-312/2011, ove si legge che gli “Stati membri devono stabilire nella propria legislazione un obbligo per i datori di lavoro di adottare provvedimenti appropriati e cioè efficaci e pratici, ad esempio sistemando i locali, adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro o la ripartizione dei compiti in funzione delle esigenze delle situazioni concrete (…) senza imporre al datore di lavoro un onere sproporzionato”.
La Corte di Cassazione, con sentenza del 26 ottobre 2018, n. 27243, ha affermato che “il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possono ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato”.
Secondo poi Cass. 9 marzo 2021. n. 6497, l’obbligo di accomodamenti ragionevoli imposto ex lege al datore di lavoro deve essere inteso come condotta pro-attiva tesa all’eliminazione delle barriere di diversa natura che ostacolano la piena ed effettiva partecipazione dei disabili alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, salvo che ciò comporti costi eccessivi per l’Azienda.
A parere sempre di Cass. 9 marzo 2021, n. 6497, potrà dirsi ragionevole ogni soluzione organizzativa praticabile che miri a salvaguardare il posto di lavoro del disabile in un’attività che sia utile per l’azienda e che imponga all'imprenditore, oltre che al personale eventualmente coinvolto, un sacrificio che non ecceda i limiti di una tollerabilità considerata accettabile secondo “la comune valutazione sociale”.
Proseguendo nel ragionamento, Cass. 9 marzo 2021, n. 6497 richiama i principi espressi da Cass. SS.UU. n. 5688 del 1979, che, proprio a proposito dell’integrazione del comportamento dovuto dal datore di lavoro ex art. 1175 c.c., ha ritenuto che quest’ultimo deve “ritenersi vincolato non solo a non frapporre ostacoli alla realizzazione dell’interesse dell’altra parte, ma anche a fare tutto ed esattamente quanto la comune valutazione sociale consideri necessario”.
La Corte di Cassazione, infine, con ordinanza del 13 novembre 2023, n. 31471, ha sostenuto che il datore di lavoro sia obbligato ad adottare ogni accomodamento ragionevole per tutelare la prestazione lavorativa del lavoratore disabile, che non comporti eccessivi costi per l’azienda, e che possa consistere “anche nell’adibizione del lavoratore a diverse mansioni, pure inferiori, i quali vengono meno solo laddove comportino un sacrificio economico sproporzionato del datore di lavoro (richiamando in merito proprio Cass. n. 6497/2021).
I giudici di legittimità, con l’ordinanza del 13 novembre 2023, n. 31471, hanno dunque affermato il divieto di licenziare il lavoratore divenuto disabile, dovendo il datore di lavoro cercare soluzioni organizzative e accorgimenti ragionevoli idonei a consentire di svolgere il lavoro (in questo senso, i giudici di legittimità hanno richiamato i precedenti di Cass. n. 6798/2018 e di Cass. n. 27502/2019).
5.1. – Segue … Le “soluzioni ragionevoli” indicate dalla giurisprudenza di merito: lo scomputo delle assenze dovute all’handicap e la discriminazione indiretta.
La giurisprudenza di merito, in più occasioni, ha accolto l’orientamento della Cassazione relativo all’adozione di accomodamenti ragionevoli ai fini della salvaguardia del posto di lavoro del soggetto disabile (in termini, si vedano: Trib. Roma, 8 maggio 2018, est. Orrù, Trib. Ivrea, 6 luglio 2018, est. Buffoni, Trib. Asti, 23 luglio 2018, est. Antoci).
La giurisprudenza di merito ha ritenuto, quali “accomodamenti” più efficaci e di semplice soluzione, senza alcuna eccessiva onerosità per il datore, la sottrazione dal calcolo del comporto dei giorni di malattia ascrivibili all’handicap (in merito, ex multis, Trib. Milano, sent. n. 2875/2016; nello stesso senso, Trib. Milano, sentenza n. 487/2020, nonchè C. App. Roma, sentenza n. 2589/2020; in senso contrario, C. App. Torino, sentenza n. 604/2021 e C. App. Palermo, sentenza n. 111/2022).
Al riguardo, ormai da qualche anno, si registra un contrasto negli orientamenti della giurisprudenza di merito anche se, negli ultimi mesi, sembra consolidarsi maggiormente l’indirizzo che riconosce la discriminazione indiretta allorché i contratti collettivi non prevedano periodi di comporto differenziati per le assenze dei lavoratori disabili.
5.2. – Il contrasto esegetico nella giurisprudenza di merito sulla qualificazione della discriminazione indiretta in caso di assenze per malattia dovute a disabilità: i due filoni interpretativi.
In materia, si è sviluppata una querelle giurisprudenziale che ha generato due filoni interpretativi.
Un primo indirizzo che, basandosi su un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2110 c.c., e sulla scorta di quanto precisato dalla giurisprudenza eurounitaria, ha osservato come la previsione di un periodo di comporto, la cui quantificazione prescinda tout court dalla “disabilità” del lavoratore, configuri un’ipotesi di “discriminazione indiretta”, a norma del D.Lgs. n. 216/2003 (e della direttiva 2000/78/CE).
A parere di questa giurisprudenza, si configura la fattispecie della discriminazione indiretta nel momento in cui vi sia un trattamento identico tra lavoratori abili e disabili che, invece, si assentano per malattie collegate alla loro gravi patologie.
Tra i provvedimenti più significativi di questo primo filone giurisprudenziale, pare opportuno segnalare, in ordine cronologico: il Tribunale di Pisa, ordinanza del 16 aprile 2015; il Tribunale di Milano e, in particolare, le decisioni del 28 ottobre 2016, n. 2875, del 6 aprile 2018 e del 12 giugno 2019; il Tribunale di Verona del 22 marzo 2021; la Corte d’appello Firenze del 26 ottobre 2021, il Tribunale di Milano del 22 maggio 2022 (in wikilabor.it); il Tribunale di Lecco del 26 giugno 2022; il Tribunale di Mantova del 22 settembre 2022; la Corte di appello di Milano del 9 dicembre 2022; il Tribunale di Parma del 9 gennaio 2023; la Corte d’appello di Napoli del 17 gennaio 2023; il Tribunale di Lecco del 23 gennaio 2023; la Corte d’appello di Milano del 16 febbraio 2023.
In estrema sintesi, a parere di tali arresti giurisprudenziali la previsione di un comporto uguale per tutti, superato il quale si configura la licenziabilità del dipendente, determinerebbe l’adozione di un criterio apparentemente neutro che, tuttavia, comporta effetti più sfavorevoli per i lavoratori disabili.
Con riferimento, invece, alle decisioni di indirizzo opposto, si segnalano: la Corte d’appello di Torino, 26 ottobre 2021; il Tribunale di Venezia del 7 dicembre 2021, n. 6273; la Corte d’appello di Palermo del 14 febbraio 2022, n. 111; il Tribunale di Vicenza del 27 aprile 2022, n. 181; il Tribunale di Bologna del 19 maggio 2022, n. 230; il Tribunale di Lodi, del 12 settembre 2022.
Questo diverso orientamento, ha ritenuto che la legislazione eurounitaria lasci un ampio margine di discrezionalità in ordine ai ragionevoli accomodamenti da adottare per tutelare il lavoratore affetto da handicap o disabilità. In particolare, è stato osservato che la mancata previsione da parte del contratto collettivo di periodi di comporto diversificati non determinerebbe alcuna discriminazione indiretta in quanto, in linea generale ed astratta, non sono rinvenibili nell’ordinamento italiano ragioni per trattare i lavoratori disabili diversamente dagli altri, con particolare riguardo alle conseguenze sulla stabilità del rapporto legate alla durata della malattia (cfr. Tribunale Lodi, sentenza del 12 settembre 2022). Sulla stessa falsariga il Tribunale di Venezia, ordinanza n. 6273 del 2021, secondo cui “ritenere che dalle assenze per malattia debbano essere espunte quelle determinate dallo stato di handicap ... determinerebbe, nella sostanza, una disapplicazione della norma per la maggior parte delle ipotesi”. Dovendosi poi evidenziare che, secondo questo orientamento giurisprudenziale, ai fini di scomputare le malattie dovute alla disabilità, fosse imposto al lavoratore l’obbligo di comunicare al datore le malattie “invalidanti” (cfr. Corte appello Torino, 26 ottobre 2021).
5.3. – Segue… Le ulteriori “soluzioni ragionevoli” indicate dalla giurisprudenza di merito anche con riferimento all’onere non sproporzionato.
La giurisprudenza di merito ha indicato poi alcuni tipi di soluzioni ragionevoli, oltre a quelle dello scomputo delle assenze dovute all’handicap tra le quali ad esempio:
a) controllare, in maniera costante, l’idoneità alla mansione del lavoratore. Ad es. la Corte d’appello di Napoli del 17 gennaio 2023 ha affermato che l’azienda ha a disposizione una serie di misure e sostegni per poter sopportare tale carico ed evitare la discriminazione indiretta;
b) la riduzione dell’orario di lavoro (sulla riduzione dell’orario di lavoro, quale accomodamento ragionevole, oltre ad App. Napoli, 17 gennaio 2023 si veda anche Trib. Ivrea, 6 luglio 2018);
c) la sospensione del dipendente senza retribuzione, ai sensi dell’art. 10, L. n. 68/99, per tutto il tempo in cui persista la patologia incompatibile con il lavoro (Corte d’appello Genova, 9 giugno 2021);
d) oppure, la ridistribuzione dei compiti tra lavoratori in maniera da assegnare al prestatore mansioni compatibili con le proprie patologie (Trib. Pisa, 16 aprile 2015, nonché Trib. Roma, 8 maggio 2018);
e) ed ancora, la creazione di un nuovo posto di lavoro (Trib. Ivrea, 6 luglio 2018), con la considerazione, da ultimo, che tale adibizione non possa arrivare al punto di mortificare la dignità del lavoratore con mansioni notevolmente inferiori rispetto sia al proprio livello sia alla precedente professionalità; laddove, tuttavia, esistano in azienda posizioni compatibili che prevedano solo una diversa modulazione di orario o turni di lavoro (Trib. Lodi, 9 febbraio 2023).
Per comprendere, infine, quando tale onere finanziario non possa ritenersi sproporzionato, il Tribunale di Lodi, con sentenza del 9 febbraio 2023, ha affermato che esso “andrà valutato in rapporto alle dimensioni ed alle risorse finanziarie dell’impresa, mentre la ragionevolezza implicherà che: la modifica organizzativa non pregiudichi significativamente l’interesse di altri lavoratori eventualmente coinvolti, il tutto in un’ottica di rispetto dei principi di buona fede e correttezza nei rapporti contrattuali e di un adeguato bilanciamento dell’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente con il suo stato fisico e psichico, in una situazione di oggettiva ed incolpevole difficoltà e dell’interesse del datore di lavoro a garantirsi comunque una prestazione lavorativa utile per l’impresa”.
Da ultimo, il Tribunale di Ravenna, con sentenza del 27 luglio 2023, ha osservato che l’organizzazione datoriale non è intangibile, dovendo il datore di lavoro adottare tutti gli accomodamenti ragionevoli possibili (“soluzioni ragionevoli”) per consentire al lavoratore “disabile” (nel senso ampio del termine, secondo la definizione eurounitaria) di espletare la propria prestazione lavorativa in condizione di eguaglianza rispetto agli altri lavoratori. In termini, da ultimo, si veda anche Trib. Roma, ord. 18 dicembre 2023.
6. – L’orientamento della Corte di Cassazione: discriminazione indiretta, conoscibilità della disabilità e ripartizione dell’onere della prova.
Per completezza d’informazione, occorre segnalare che, in data 31 marzo 2023, è intervenuta la prima sentenza della Suprema Corte, la n. 9095, sulla fattispecie del lavoratore portatore di handicap, ai sensi dell’art. 3, co. 1, L. n. 104 del 1992, e licenziato per superamento del periodo di comporto. I giudici di legittimità hanno confermato la discriminazione indiretta operata dalla società nei confronti del prestatore consistita proprio nell’aver applicato la contrattazione collettiva (nella specie l’art. 42 del CCNL Federambiente) senza distinguere tra assenze per malattia ed assenze per patologie correlate alla disabilità
La cassazione ha confermato la nullità del recesso per superamento del comporto in ragione delle assenze dovute all’handicap, affermando che si fosse configurata una discriminazione indiretta nei confronti del prestatore in quanto “la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio apparentemente neutro del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio” (cfr. Corte giust., 11 aprile 2013, HK, Dammark, C-335/11 e C-337/11).
La Suprema Corte, a supporto di tale assunto, ha osservato che nel momento in cui “la previsione del comporto breve viene applicata ai lavoratori disabili e non, senza prendere in considerazione la maggiore vulnerabilità relativa dei lavoratori disabili ai fini del superamento del periodo di tempo rilevante, la loro posizione di svantaggio rimane tutelata in maniera recessiva”.
Tale orientamento di legittimità è stato recentemente confermato dalla sentenza di Cassazione del 21 dicembre 2023, n. 35747, che ribadisce il principio (già espresso anche da Cass. n. 9095/23), per cui la discriminazione opera in modo oggettivo ed è irrilevante l’intento soggettivo dell’autore. Non è dunque decisivo l’assunto datoriale di non essere stato messo a conoscenza del motivo delle assenze del lavoratore, perché i certificati medici delle assenze inoltrati al datore di lavoro non indicavano la specifica malattia a causa dell’assenza.
La discriminazione - diversamente dal motivo illecito – osserva sempre la Suprema Corte, opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore, quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro. In tal senso, quale sentenza che rappresenta un vero e proprio “spartiacque”, rispetto alla qualificazione del licenziamento discriminatorio e alla ripartizione degli oneri probatori, si rimanda a quanto stabilito da Cass. 5 aprile 2016, n. 6575 (pubblicata rispettivamente in Labor, 2016, 269, con nota di GALARDI e in RIDL, 2016, II, 729, con nota di GOTTARDI nonché in RGL, 2016, II, 469, con nota di SCARPONI).
Con riferimento poi alla ripartizione degli oneri probatori nei giudizi antidiscriminatori, i giudici di legittimità, sempre nella sentenza n. 35747/2023, osservano che i criteri non sono quelli dei canoni ordinari di cui all’art. 2729 c.c., bensì quelli speciali di cui al d.lgs. n. 216 del 2003, art. 4. Si tratta, di un’attenuazione del regime probatorio in favore del ricorrente, prevedendo tale disciplina una “presunzione” di discriminazione indiretta per l’ipotesi in cui il “denunciante” abbia difficoltà a dimostrare l’esistenza degli atti discriminatori. A tale impostazione degli oneri probatori, osserva ancora la summenzionata cassazione, consegue che il lavoratore deve provare il fattore di rischio, e cioè il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio, ed il datore di lavoro le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta.
In conclusione, può affermarsi che le statuizioni delle sentenze della Suprema Corte n. 9095 del 31 marzo 2023 e n. 35747 del 21 dicembre 2023, confermano il consolidarsi di quel filone giurisprudenziale, invero maggioritario, che ritiene configurarsi una discriminazione indiretta allorché le assenze dovute alla disabilità o, all’handicap, vengano calcolate nel periodo di comporto. Tale impostazione esegetica, la cui cogenza trae maggiore forza in ragione sia delle fonti internazionali e eurounitarie in materia di discriminazione, sia delle sentenze della Corte di giustizia sin qui esaminata, determina una tutela, in un certo senso “rafforzata”, in favore del soggetto disabile per la salvaguardia del posto di lavoro. Obiettivo che deve essere perseguito anche mediante il ricorso agli “accomodamenti ragionevoli” di cui all’art. 3, co. 3 bis, del D. Lgs. n. 216 del 2003; obblighi questi di cui il datore di lavoro deve necessariamente tener conto prima di intimare il recesso, al fine di vagliare ogni soluzione possibile per la salvaguardia del posto di lavoro a patto che tale onere non sia sproporzionato.