testo integrale con note e bibliografia
1. Premessa: l’influenza del diritto antidiscriminatorio europeo sul sistema giuridico italiano
Il diritto antidiscriminatorio italiano è fortemente condizionato dalla normativa europea, che ne ha guidato in modo decisivo l’evoluzione.
L'Unione Europea ha inizialmente focalizzato la sua attenzione sulla lotta contro le discriminazioni di genere, con particolare attenzione alle disparità nei luoghi di lavoro . Tuttavia, a partire dal 2000, l'ambito di applicazione del diritto antidiscriminatorio si è ampliato, includendo ulteriori fattori di discriminazione, tra cui la razza e l'origine etnica , l'orientamento sessuale, la religione, l'età, e, per quanto rileva in questo ambito, la disabilità .
La normativa europea definisce i concetti chiave del diritto antidiscriminatorio, come quelli di discriminazione diretta e discriminazione indiretta, di molestia e molestia sessuale e di azioni positive. Essa prevede, inoltre, una serie di tutele per le vittime di discriminazione, tra cui la possibilità di ricorrere in giudizio, il diritto al risarcimento del danno e l’alleggerimento dell’onere probatorio. Concetti chiave e tutele sono stati poi ripresi dal legislatore italiano.
Nella parte che segue, esamineremo prima le principali normative internazionali e europee in materia di discriminazioni per disabilità, per poi soffermarci sulle disposizioni nazionali che ne recepiscono e attuano i principi.
2. La Convenzione ONU del 2006 sui diritti delle persone con disabilità
Tra le principali fonti internazionali in materia di discriminazione fondata sulla disabilità, un ruolo centrale è svolto dalla Convenzione ONU del 2006 sui diritti delle persone con disabilità.
La Convenzione segna un’evoluzione significativa delle nozioni di disabilità e di persona con disabilità: la disabilità non è più considerata esclusivamente una condizione personale, bensì il risultato dell’interazione tra una persona con minorazioni e le barriere comportamentali e ambientali che ne pregiudicano la piena ed effettiva partecipazione alla vita sociale .
In tale prospettiva, l’art. 1, par. 2, della Convenzione definisce le persone con disabilità come «coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri».
La “discriminazione fondata sulla disabilità” è invece definita dall’art. 2 come “qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo”.
La Convenzione introduce inoltre il concetto di “accomodamento ragionevole”, che sostituisce quello di “soluzione ragionevole” previsto dalla direttiva 2000/78/CE (di cui si dirà più avanti al par. 3). Per “accomodamenti ragionevoli” s’intendono «le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati, che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo, adottati ove necessario in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali». Il concetto di accomodamento ragionevole si applica a tutti gli ambiti della vita, e non solo al contesto lavorativo: riguarda infatti l'istruzione, la sanità, la giustizia, i trasporti, i servizi pubblici e molte altre sfere. Il rifiuto di fornire un accomodamento ragionevole è espressamente qualificato come una forma di discriminazione. Questo principio rafforza l’obbligo degli Stati e dei datori di lavoro di garantire soluzioni efficaci per l’inclusione delle persone con disabilità, andando oltre la mera parità formale e promuovendo un’effettiva eguaglianza sostanziale.
3. Le discriminazioni nei confronti delle persone con disabilità nelle fonti primarie e secondarie dell’Unione Europea
Il divieto di discriminazione fondata sulla disabilità è sancito in diverse disposizioni fondamentali dei trattati europei . In particolare, l'art. 3 del Trattato sull'Unione Europea (TUE) stabilisce che l'Unione europea combatte l'esclusione sociale e le discriminazioni, promuovendo la giustizia sociale, la parità di genere, la solidarietà intergenerazionale e la protezione dei diritti dei minori. L'art. 10 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (TFUE) prevede che, nell'attuazione delle sue politiche, l'Unione debba contrastare le discriminazioni fondate su sesso, razza, origine etnica, religione, orientamenti personali, disabilità, età e orientamento sessuale; l'art. 19 TFUE, infine, attribuisce al Consiglio il potere di adottare misure per combattere le discriminazioni basate su questi stessi fattori.
Per quanto riguarda la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, che ha acquisito valore giuridico vincolante con il Trattato di Lisbona del 2007 , l'art. 21 vieta qualsiasi forma di discriminazione basata “sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale” . L'art. 26 riconosce e tutela i diritti delle persone con disabilità, stabilendo che l'Unione deve garantire misure atte a promuoverne l’autonomia, l’inclusione sociale e professionale, nonchè la partecipazione attiva alla vita della comunità.
Gli artt. 10 e 19 TFUE, relativamente alle discriminazioni per disabilità, trovano concreta attuazione nella direttiva 2000/78/CE che si propone di “stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento” (art. 1 dir. 2000/78/CE). A differenza della direttiva 2000/43/CE, adottata nello stesso anno e focalizzata esclusivamente sulla discriminazione razziale o per origine etnica , la direttiva 2000/78/CE affronta una gamma più ampia di fattori discriminatori, che vanno dalla religione all'orientamento sessuale, includendo sia disposizioni generali applicabili a tutti i fattori, sia norme specifiche relative a ciascuno.
L’ambito di applicazione della direttiva è limitato al settore lavoro, inteso tuttavia in un’accezione molto ampia che ricomprende “a) le condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo; b) l'accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali; l'occupazione e le condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione; c) l'affiliazione e l'attività in un'organizzazione di lavoratori o datori di lavoro, o in qualunque organizzazione i cui membri esercitino una particolare professione, nonché alle prestazioni erogate da tali organizzazioni” (art. 3 dir. 2000/78/CE) .
Come le altre direttive in materia di discriminazioni, la direttiva 2000/78 introduce una serie di definizioni fondamentali, tra cui quelle di discriminazione diretta e discriminazione indiretta.
La discriminazione diretta si verifica «quando…. una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga” (art. 2 dir. 2000/78/CE). Si tratta di una nozione oggettiva, poichè ciò che rileva è l’effetto discriminatorio, non l’intento. Inoltre, l’uso del condizionale (“... sarebbe trattata..”) consente di includere anche le discriminazioni potenziali o ipotetiche, ossia quelle in cui il termine di paragone (il c.d. tertium comparationis) non esiste ma potrebbe esistere.
La discriminazione indiretta si configura: «quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone» (art. 2 dir. 2000/78/CE). Qui la discriminazione si manifesta attraverso strumenti formalmente neutrali, che producono, tuttavia, effetti svantaggiosi per determinati gruppi .
La dottrina e la giurisprudenza hanno integrato le nozione normative, introducendo successivamente i concetti di “discriminazione multipla”, di “discriminazione intersezionale” e di “discriminazione per associazione”.
Si parla di discriminazione multipla quando un soggetto viene discriminato in ragione di più fattori di discriminazione (ad es. donna migrante, donna disabile); quando questi fattori si intrecciano al punto da risultare inseparabili, si configura una discriminazione “intersezionale”, che rappresenta una sotto-categoria della discriminazione multipla .
La discriminazione per associazione si verifica, invece, quando una persona è discriminata non perchè appartiene a un gruppo vulnerabile, ma perchè è associata a qualcuno che ne fa parte. Questa nozione è stata elaborata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, proprio con riferimento alle discriminazioni per disabilità: nel caso portato all’attenzione della Corte di Giustizia, la sig.ra Coleman veniva discriminata non perchè disabile ma in quanto madre di un bambino portatore di handicap .
La direttiva 2000/78/CE prevede eccezioni sia generali sia specifiche al divieto di discriminazione per disabilità. Le deroghe generali sono due: la prima ammette una discriminazione diretta quando “per la natura di un'attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell'attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato” (art. 4 dir. 2000/78/CE) ; la seconda consente la discriminazione indiretta se il criterio o la prassi sono oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi utilizzati sono appropriati e necessari .
Una deroga specifica per la disabilità è prevista laddove il datore di lavoro o qualsiasi persona o organizzazione a cui si applica la direttiva “sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi di cui all'articolo 5, per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione, tale criterio o tale prassi” (art. 2 dir. 2000/78/CE).
Coerentemente con le altre normative antidiscriminatorie, la direttiva 2000/78/CE prevede una serie di misure di contrasto alle discriminazioni: innanzitutto, un divieto generale di discriminazione in ambito lavorativo, che si estende dall'accesso al lavoro fino alla cessazione del rapporto e comprende anche la formazione e l'orientamento legati all'attività lavorativa nonché l’attività sindacale (art. 3, dir. 2000/78/CE). Inoltre, le vittime di discriminazione hanno il diritto di agire in giudizio per far valere i propri diritti (art. 9, dir. 2000/78/CE), e gli Stati membri sono tenuti a prevedere sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive in caso di violazione delle disposizioni nazionali di attuazione della direttiva (art. 17 dir. 2000/78/CE). Di particolare rilievo è la disposizione sull’alleggerimento dell’onere della prova: l’art. 10 prevede che, una volta che la vittima esponga fatti che possano ragionevolmente far presumere una discriminazione diretta o indiretta, sarà il datore di lavoro a dover provare che non vi sia stata violazione del principio di parità di trattamento.
Infine, l’art. 5 introduce la tutela specifica delle cosiddette “soluzioni ragionevoli” per le persone con disabilità. Si tratta di misure personalizzate, adottate in base alle esigenze concrete, per consentire alle persone con disabilità di accedere all'occupazione, svolgere il proprio lavoro, progredire professionalmente o ricevere una formazione, a condizione che non comportino un onere finanziario sproporzionato per il datore di lavoro. Tale onere si considera non sproporzionato quando l’onere finanziario del datore di lavoro sia compensato in modo adeguato dallo Stato. Ai datori di lavoro è pertanto richiesto uno sforzo ulteriore rispetto al solo “non discriminare”, ovvero quello di mettere i lavoratori disabili nella condizione di svolgere la loro prestazione lavorativa.
Il 23 dicembre 2010 l'Unione Europea ha aderito ufficialmente alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità .
4. Il quadro nazionale. Le discriminazioni nei confronti dei disabili nella Costituzione e nello Statuto dei Lavoratori.
La Costituzione italiana non contiene una disposizione specifica che vieti espressamente le discriminazioni nei confronti delle persone con disabilità, a differenza di quanto avviene, ad esempio, per le discriminazioni di genere, esplicitamente considerate nell’art. 37 Cost.. Tuttavia, la tutela delle persone con disabilità si ricava da un insieme di principi costituzionali di più ampia portata.
L’art. 2 Cost. riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, tanto nella sua dimensione individuale quanto all’interno delle formazioni sociali in cui sviluppa la propria personalità. Questo principio impone alla Repubblica di assicurare il rispetto della dignità e dei diritti fondamentali di ogni individuo, comprese le persone con disabilità.
L’art. 3 Cost., al primo comma, sancisce il principio di uguaglianza formale, stabilendo che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Sebbene la disabilità non sia menzionata espressamente, rientra certamente tra le “condizioni personali e sociali” cui fa riferimento l’art. 3, garantendo così alle persone con disabilità una tutela contro le discriminazioni.
A questo si affianca il secondo comma dello stesso articolo, che introduce il principio di uguaglianza sostanziale, imponendo alla Repubblica il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale» che limitano di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini. Questo principio giustifica l’adozione di misure speciali a favore delle persone con disabilità, necessarie per garantire loro una reale inclusione nella società.
Infine, l’art. 32 Cost. tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività. Questo articolo assume un ruolo chiave nella protezione delle persone con disabilità, poiché impone allo Stato di garantire l’accesso alle cure e alle prestazioni sanitarie necessarie per preservare la loro salute e il loro benessere.
La prima norma dell’ordinamento italiano rilevante in materia di discriminazioni è certamente l’art. 15 dello Statuto dei Lavoratori, che mira principalmente a tutelare la dignità del lavoratore.
Il primo comma sancisce la nullità degli atti e patti aventi contenuto discriminatorio in ambito sindacale. Il secondo comma, nella sua formulazione originaria, estendeva tale tutela anche alle discriminazioni di natura politica e religiosa, equiparandole a quelle sindacali.
Nel corso del tempo, il legislatore è intervenuto per ampliare l’ambito applicativo della norma, includendo ulteriori fattori di discriminazione. Un primo intervento è avvenuto con la legge 9 dicembre 1977, n. 903, che ha introdotto il divieto di discriminazione basata sul sesso, sulla razza e sulla lingua. Successivamente, il d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216 — attuativo della direttiva 2000/78/CE — ha esteso tale divieto anche alle discriminazioni fondate su disabilità, età, orientamento sessuale e convinzioni personali.
In questo modo, la previsione di nullità è stata progressivamente estesa ad un numero sempre maggiore di condotte discriminatorie, contribuendo a rafforzare il principio della tutela della dignità sociale del lavoratore. E’ tuttavia importante sottolineare come l’art. 15 dello Statuto, pur mantenendo un ruolo simbolico e sistematico rilevante, non rappresenti oggi lo strumento più efficace nella lotta alle discriminazioni. L’attuazione del diritto antidiscriminatorio dell’Unione europea ha infatti introdotto misure più incisive e articolate .
5. Il recepimento in italia della direttiva 2000/78/ce e della Convenzione Onu del 2006
La direttiva 2000/78/CE è stata recepita nell’ordinamento italiano con il d.lgs. 28 agosto 2003, n. 216.
Rispetto al testo della direttiva, l’ambito di applicazione della norma è stato ampliato, includendo anche l’accesso all’alloggio, i vantaggi sociali e fiscali, l’assistenza fornita dagli uffici di collocamento, l’iscrizione alle organizzazioni sindacali e l’eleggibilità negli organi di rappresentanza dei lavoratori (art. 1, comma 1, d.lgs. n. 216/2003, lett. d-bis, d-ter, d-quater, d-quinquies) .
Per quanto riguarda le definizioni di discriminazione diretta, discriminazione indiretta e molestia nonchè le corrispondenti tutele, la normativa italiana riproduce sostanzialmente il contenuto della direttiva europea.
In materia di tutela giurisdizionale, l’art. 4 del d.lgs. n. 216/2003 rinvia all’art. 28 del d.lgs. n. 150/2011, che disciplina le controversie in materia di discriminazione. In particolare, il quarto comma di questa ultima norma recepisce il principio di agevolazione dell’onere probatorio per le vittime di discriminazione, introdotto dalla direttiva 2000/78/CE: è sufficiente che la vittima fornisca elementi di fatto – anche basati su dati statistici – che facciano presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, perchè spetti al convenuto dimostrare l’inesistenza della discriminazione . Poiché il primo onere probatorio resta a carico del ricorrente, questo meccanismo non costituisce una vera e propria inversione dell’onere della prova, bensì una sua attenuazione .
L’art. 5 del d.lgs. n. 216/2003 prevede che la legittimazione ad agire in nome, per conto o a sostegno del soggetto vittima di discriminazione sia riconosciuta anche alle organizzazioni sindacali, alle associazioni e agli enti rappresentativi del diritto o dell’interesse leso. Tale legittimazione deve essere conferita mediante delega rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata, a pena di nullità.
La tutela giudiziaria delle vittime di discriminazioni è stata successivamente rafforzata dalla l. 1° marzo 2006, n. 67 (“Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni”), che all’art. 4, prevede che associazioni ed enti individuati con decreto ministeriale, sulla base della loro finalità statutaria e stabilità organizzativa, possano: agire in nome e per conto della persona discriminata, purché muniti di delega formale; intervenire nei giudizi per ottenere il risarcimento del danno subito dalle persone con disabilità; impugnare, davanti alla giurisdizione amministrativa, atti lesivi degli interessi delle persone con disabilità; agire direttamente nei casi di discriminazioni collettive.
L’Italia ha dato attuazione alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, adottata nel 2006, mediante la legge 3 marzo 2009, n. 18. L’adempimento aveva una doppia natura vincolante: da un lato, l’obbligo derivante dalla ratifica della Convenzione come parte contraente; dall’altro, l’adesione dell’Unione Europea alla stessa Convenzione, che impone agli Stati membri di adeguarsi .
La legge di attuazione della Convenzione istituisce inoltre l'Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità, con i seguenti compiti (art. 3): promuovere l’attuazione dell’Azione Triennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità; raccogliere e analizzare dati statistici sulla condizione delle persone con disabilità, al fine di orientare le politiche pubbliche; elaborare la relazione sullo stato di attuazione delle politiche in materia di disabilità; favorire la realizzazione di studi e ricerche per individuare aree prioritarie di intervento e migliorare l’efficacia delle azioni a tutela dei diritti delle persone con disabilità.
Nel 2013, la Corte di Giustizia ha sanzionato l’Italia per incompleta attuazione dell’art. 5 della direttiva 2000/78/CE, relativo all’adozione di soluzioni ragionevoli a favore delle persone con disabilità . Per questa ragione è stato introdotto un comma 3 bis all’art. 3 del d.lgs. 216 del 2003, che tiene conto anche della Convenzione ONU del 2006: «Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli.... per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori».
6. Conclusioni
Dall’analisi delle fonti internazionali, europee e nazionali emerge chiaramente che la parità di trattamento delle persone con disabilità non può essere garantita unicamente attraverso il divieto di discriminazione. A differenza di altre forme di disuguaglianza, per le quali l’uguaglianza formale può talvolta risultare sufficiente, in questo ambito è necessario adottare un approccio fondato sull’uguaglianza sostanziale, realizzabile mediante l’introduzione di accomodamenti ragionevoli.
Come affermato dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, il vero ostacolo non risiede nella disabilità in sé, bensì in un ambiente che non si adatta alle esigenze delle persone. Senza misure adeguate – quali, ad esempio, adattamenti negli orari di lavoro, ausili tecnologici, accessibilità fisica o modalità di valutazione differenziate – il divieto di discriminazione rischia di rimanere inefficace.
Senza un’applicazione concreta e diffusa del principio degli accomodamenti ragionevoli, il divieto di discriminazione rischia di ridursi ad un’affermazione puramente formale, incapace di garantire una reale inclusione.