testo integrale con note e bibliografia
1. Il modello medico individuale: la disabilità come mancanza e il rischio della delega
L’Organizzazione Mondiale della Sanità, a partire dagli anni Settanta, ha elaborato una serie di classificazioni che hanno avuto il compito di costruire a livello internazionale un linguaggio comune e condiviso su termini quali quelli di malattia, menomazione, disabilità. Non si è trattato solo di un esercizio convenzionale: le parole e i costrutti individuati hanno di fatto partecipato alla definizione di rappresentazioni sociali e culturali ancora molto presenti.
Nel 1967 viene pubblicata la Classificazione Internazionale delle malattie con l’intento di rispondere ad esigenze eziologiche e di classificazione: il senso era quello di individuare le cause, le principali caratteristiche cliniche e le possibili indicazioni diagnostiche di sindromi e disturbi (identificato come Disease). Lo logica che sottende a questa classificazione è deterministica e procede attraverso una punteggiatura causa- effetto. Molto presto ci si rende però conto che nella definizione delle malattie, anche a fini diagnostici, vengono a mancare due elementi di primaria importanza: le conseguenze che i disturbi portano nelle persone e l’eventuale ruolo del contesto ambientale.
Nel 1980 con intento sperimentale l’OMS pubblica la Classificazione delle menomazioni, delle disabilità e degli handicap (ICDH) che presenta in sequenza e in maniera direttamente proporzionale queste tre parole: menomazione, disabilità e handicap .
La menomazione viene definita come “qualsiasi perdita o anomalia a carico delle strutture o delle funzioni psicologiche, fisiologiche o anatomiche (…); è caratterizzata da perdite o alterazioni a carico di arti, organi, tessuti o altre strutture dell’organismo, ovvero deficit di un apparato funzionale o di un meccanismo corporeo, inclusi i sistemi della funzione mentale”. È di fatto un’esteriorizzazione di uno stato patologico, congenito o acquisito, transitorio o permanente.
La disabilità è invece l’oggettivazione della menomazione ed è descritta come “ogni restrizione o perdita (risultante da una menomazione) di abilità di eseguire un’attività nella maniera considerata normale per un essere umano”. Riguarda anche una possibile reazione psicologica del soggetto ed è riferibile a capacità funzionali che si manifestano in azioni e comportamenti che riguardano la vita quotidiana.
L’handicap è presentato come “uno svantaggio derivato, per un dato individuo, risultante da una menomazione o una disabilità, che limita o prevenga l’adempimento di un ruolo che è normale (rispetto all’età, sesso e fattori sociali e culturali) per l’individuo”. È la socializzazione della menomazione e della disabilità che legittima una situazione di limitazione vissuta che comporta anche delle conseguenze culturali, sociali, economiche e ambientali: riguarda anche la capacità diminuita e ristretta di rispondere alle aspettative e alle norme proprie di un contesto.
A partire da questa cornice, che ha condizionato gran parte della normativa italiana degli Anni Settanta e Novanta, prende forma il modello medico che propone una lettura lineare: la disabilità viene vista come conseguenza necessaria di una condizione patologica organica, causa prima di situazioni di svantaggio. Cottini nel parlare di questo modello scrive: “La disabilità viene concepita come una mancanza funzionale, che dev’essere compensata in modo da garantire all’individuo una vita il più possibile vicina a quella tipica” . Dentro questo costrutto, gli unici interventi possibili sembrerebbero avere le caratteristiche più o meno nascoste di riabilitazione, adattamento, normalizzazione in chiave prettamente assistenziale e comunque nettamente centrata sul singolo e sulle sue possibili direzioni di sviluppo.
La pervasività ancora oggi di questa lettura è evidente in tanti costrutti culturali, pratiche educative e politiche definite inclusive: rimane ancora imperante in buona parte della medicina, nonostante le pacifiche rivoluzione degli approcci più ecologici e narrativi . Il tentativo di partire dai sintomi per identificare e sanare è molto frequente. Nello stesso anno che il nostro Paese ha scelto la vita dell’integrazione sociale con la legge del 5 febbraio 1992 n. 104, si definisce la norma per l’invalidità civile, che prevede, raggiunta una certa soglia, di ricevere un sostegno economico. Questa logica trova espressione in questo meccanismo. Canevaro a questo riguardo, con il desiderio di accogliere una prospettiva coevolutiva, scrive: “Proponiamo di rovesciare questa percentuale. Non: tu hai il 67% di invalidità e quindi hai bisogno di. Ma: tu hai il 23% di validità: cosa vuoi fare?” .
Dentro questo paradigma la nostra scuola ha concepito la figura dell’insegnante per l’attività di sostegno come assegnato ad uno specifico studente, il piano educativo individualizzato, gli assistenti all’autonomia e alla comunicazione che, nonostante gli sforzi di lettura allargata, sono spesso finiti per diventare marcatori di specialità, per addetti ai lavori o per portatori di interessi. La lettura individuale, che spesso ha accompagnato questi interventi, ha spesso facilitato pratiche di delega e di normalizzazione, ancora presenti in molti contesti scolastici, falsificando le buone intenzioni del legislatore di sottolineare costantemente la contitolarità e la corresponsabilità educativa.
2.Verso una prospettiva biopsicosociale: la disabilità come funzionamento possibile
Negli anni Novanta l’OMS avvia un processo di revisione dell’ICDH. Si evidenziano limiti molto chiari: il superamento della lettura lineare e unidirezionale, i meccanismi di causa-effetto tra menomazione, disabilità e handicap, l’applicabilità e l’universalità di alcuni principi ispiratori.
Sono stati anni importanti che hanno visto anche la crescita di un modello sociale della disabilità , sollecitato grazie ai movimenti delle persone con disabilità e principale motore culturale della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità .Questa matrice sposta il focus sui contesti, ritenuti prioritariamente ostacolanti e afferma che “la disabilità non è la caratteristica di un individuo ma piuttosto una complessa interazione di condizioni, molte delle quali, sono create dall’ambiente sociale” . Se i contesti sociali esercitano un ruolo nella definizione della salute e della disabilità, è necessario un intervento di responsabilizzazione collettiva, che ha a che vedere tanto con gli atteggiamenti e le culture che con azioni politiche, chiamate ad incrementare la reale partecipazione delle persone e l’esercizio autentico dei diritti.
Sotto la spinta di organizzazioni e movimenti nati per superare la segregazione sociale e promuovere l’integrazione delle persone con disabilità, dal 1996 al 1999 vennero stilate le bozze Alfa, Beta 1 e Beta 2 della nuova ICIDH. L’ultima versione dell’ICIDH-2, la Beta 2 draft version, fu pubblicata nel 1999 con il nome di Classificazione Internazionale delle Menomazioni, delle Attività e della Partecipazione che sostituisce i termini “disabilità” con “attività personali” e “handicap” con “partecipazione sociale”. I lavori di revisione e di applicazione vedono coinvolti 1800 tra esperti della salute, della sicurezza sociale, del lavoro e dell’educazione e 50 Paesi membri. La sperimentazione della ICIDH-2 Beta 2 draft version da parte di vari centri internazionali si concluse nel settembre del 2000.
È il 2001 quando la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF) viene approvata da 191 Paesi come sistema per descrivere e classificare il funzionamento, la salute e la disabilità, avviando un cambiamento relativo al modo di pensare l’altro, che potesse tenere insieme tanto la dimensione individuale della persona che quella sociale. Si inizia a pensare che ogni persona sia portatrice di una propria condizione di salute e di un proprio funzionamento, frutto di un’interazione dinamica tra funzioni e strutture corporee, attività, partecipazione e i fattori contestuali, che nella loro essenzialità, hanno la possibilità di esercitare ruoli differenti, di ostacolo o facilitazione.
L’ICF non classifica quindi le persone, né i disturbi e le menomazioni le cui definizioni sono affidate all’ICD-11 (undicesima revisone) e al DSM-V (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) ma le componenti della salute, in relazione agli ambiti esistenziali e di vita.
La salute, non più identificata come assenza di malattia, si presenta come un equilibrio dinamico funzionale, fisico e psichico integrato nel suo ambiente naturale e sociale. Non essendo uno stato ma una condizione, prevede continui ri-equilibrazioni e adattamenti, collocati sempre in un tempo e uno spazio culturale e storicizzato.
Il termine funzionamento sta ad indicare in particolare l’interazione positiva tra un individuo, con la sua condizione di salute e i fattori contestuali che costituiscono l’intero contesto di vita di un soggetto e includono fattori ambientali (ambiente fisico, relazioni, ruoli, valori, sistemi sociali e servizi) e fattori personali. Questi ultimi, non sono declinati e lasciati come pagina bianca affidata alla responsabilità di chi incontra l’altro, accogliendo il suo essere unico e irripetibile. Queste dimensioni sono presentate come il background personale della vita e dell’esistenza di un soggetto e comprendono il sesso, l’età, altre condizioni di salute, la forma fisica, lo stile di vita, le abitudini, l’educazione ricevuta, la capacità di adattamento, il background sociale, l’istruzione, la professione e l’esperienza passata e attuale (eventi della vita passata e eventi contemporanei), modelli di comportamento generali e stili caratteriali, che possono giocare un certo ruolo nella disabilità a qualsiasi livello.
I fattori contestuali sono definiti facilitatori se migliorano il funzionamento della persona e riducono la disabilità; sono barriere se inversamente limitano il funzionamento e favoriscono situazioni di limitazioni, restrizioni, svantaggio.
La prospettiva bio-psico-sociale proposta dall’ICF ha tentato di integrare il modello medico individuale e quello sociale per fornire una prospettiva coerente che potesse tenere conto delle dimensioni biologiche, individuali e sociali. Nell’ICF l’integrazione tra i due modelli è già ben visibile nella definizione di disabilità, intesa come «la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo e i fattori personali e i fattori ambientali che rappresentano le circostanze in cui vive l’individuo» . Ne deriva una riflessione aperta sulle possibili menomazioni di funzioni e strutture corporee, limitazioni di attività, restrizioni di partecipazione sociale, che necessitano una continua investigazione ed interrogazione dei fattori contestuali . La disabilità non si connette più alla malattia o al disturbo, ma di fatto diventa una possibile configurazione di funzionamento che può riguardare chiunque.
Le componenti della salute hanno dei qualificatori.
Le menomazioni di funzioni e strutture corporee possono essere identificate in base alla perdita o assenza, alla riduzione o aumento, alla deviazione, alla gravità.
I qualificatori di performance e capacità sono relativi ad attività e partecipazione sociale. La performance è dipendente dall’ambiente in quanto è intesa come quello che la persona fa realmente nel suo contesto, in presenza di ostacoli o facilitatori, adattamenti ambientali, ausili. La capacità può essere intesa come caratteristica intrinseca della persona, corrispondente a quello che il soggetto fa escludendo l’influenza di tutti i fattori ambientali. Mentre la misurazione del livello di performance di un soggetto implica la descrizione accurata dei domini di attività e partecipazione in un ambiente di vita (la casa, la scuola, comunità), la capacità, a dire dello strumento, può essere studiata unicamente in un ambiente standardizzato, in grado di neutralizzare gli effetti facilitanti o ostacolanti dell’ambiente. Questo costrutto ha lo scopo di identificare il più alto livello possibile di funzionamento che una persona può raggiungere in un dato momento, un’abilità dell’individuo adattata all’ambiente. L’ICF individua come ambienti standardizzati quelli usati per la valutazione nell’ambito di test di verifica e quelli che si suppone possano avere un impatto uniforme. Detto che questo concetto di capacità possa essere facilmente discutibile perché è difficile immaginare un contesto in senso lato neutrale, è molto interessante leggere le performance in relazione all’ambiente e ai fattori personali:
Canevaro nel 2013 scriveva: “Contesti e funzionamenti sono legati da una logica, che chiamiamo logica dell’ICF e che sembra rivoluzionare positivamente le nostre pratiche. Ma, per quanto autorevole sia l’Organizzazione Mondiale della Sanità o OMS, non è pensabile che la proclamazione di una buona logica trasformi magicamente una realtà che ne è molto lontana, e che forse ha una spinta che la porta ancor più ad allontanarsi da quella logica” .
È infatti innegabile che la prospettiva bio-psico-sociale rappresenti la vera sfida culturale che il mondo sanitario e quello educativo possano accogliere: l’ICF consente di riconoscere il funzionamento in termini positivi, regala una lente di ingrandimento sui contesti, sui fattori personali, sul loro essere autenticamente mediatori e sostegni o vere e proprie barriere, favorisce l’incontro tra più professionalità .
Esiste comunque il rischio che l’ICF possa tradire questa logica bio-psico-sociale se letto solo come strumento di classificazione e senza una profonda riflessione metodologica: la lista di codici, il livello eccessivo di analisi, la richiesta continua di quantificazione può facilmente favorire letture deterministiche e meccanicistiche, che perdano la dimensione relazionale e tornino prioritariamente a classificare piuttosto che a riconoscere. “Dunque l’ICF dà preziose indicazioni su cosa osservare (…), tuttavia le procedure di “messa in relazione” della grande quantità di informazioni ottenute non sono indicate (…). Ciò che però sembra importante sottolineare è come l’assenza (o la latenza) di una problematizzazione epistemologica circa il modello adottato – comunque proveniente dall’ambito sanitario – e soprattutto circa le procedure e gli strumenti proposti possa portare al rischio di essere agiti, in quanto operatori, da linguaggi e da metodologie altre, magari difficilmente comprensibili e quindi applicabili, magari d’altro canto così rassicuranti per la loro chiarezza da portare a trascurare condizioni che sono essenziali proprio per ottenere una conoscenza globale, situazionale e non cristallizzata dei soggetti” .
Se il mondo sanitario ha necessità di fare i conti con le classificazioni, le quantificazioni e le diagnosi, nonostante numerosi studi invitino anche il sapere medico ad accogliere una dimensione maggiormente narrativa , le professionalità educative potrebbero non averne bisogno perché in termini educativi classificare è sempre molto riduttivo. Accogliere cornici complesse, come quella bio-psico-sociale, implica una resistenza alla tendenza costante ad oggettivare e a portare tutto dentro un’unica misura ed un unico criterio di lettura. Da un punto di vista pedagogico, la sfida è di non nascondersi dentro mappe e procedure matematizzabili, ma tentare di sperimentare la dimensione soggettiva, che riconosce la singolarità e situazionalità di ogni storia, la necessità di progettazioni che ne tengano conto e al tempo stesso di aprirsi ad una negoziazione intersoggettiva.
La prospettiva bio-psico-sociale «permette di comprendere che l’ICF non serve come insieme di codici e di numeri ma quale strumento di rivisitazione delle logiche sottese ai processi di integrazione e di sviluppo di un’azione di promozione di cittadinanza attiva» .
La prospettiva bio-psico-sociale invita alla possibilità di uno sguardo umile e non arrogante, che non ha presunzione di sapere o definire, ma aperto allo strabismo e al ribaltamento, alla consapevolezza e alla dichiarazione delle proprie mappe conoscitive e alla contaminazione con altri punti di vista.
La scuola italiana si è fatta interrogare da questa proposta grazie ad alcuni elementi che possono essere rintracciati nel nuovo modello di PEI (Decreto Interministeriale n. 182/2020) che tiene conto dell’accertamento della condizione di disabilità in età evolutiva certificata dalla Legge 104/1992 e del Profilo di Funzionamento dell’alunno. Questo documento, a cura non solo del team scolastico ma del gruppo di lavoro operativo (GLO) composto anche da altri professionisti e dai genitori, sposta l’attenzione all’indicazione dei facilitatori e delle barriere, sintetizzando le diverse dimensioni nelle quali si sviluppa l’attività della persona, in relazione allo sviluppo degli apprendimenti: i) Dimensione della Socializzazione e dell’Interazione ii) Dimensione della Comunicazione e del Linguaggio iii) Dimensione dell’Autonomia e dell’Orientamento iv) Dimensione Cognitiva, Neuropsicologica e dell’Apprendimento; ricomprendendo tutti i diversi aspetti registrabili in ordine alle potenzialità del soggetto. Le “dimensioni” di funzionamento e quelle curriculari, presentate nelle sezioni successive, possono dunque diventare elementi fondamentali nella costruzione di un percorso di inclusione da parte dell’intera comunità scolastica e, contestualmente, elementi fondanti della progettazione educativo-didattica, per la realizzazione di un ambiente di apprendimento che consenta di soddisfare i bisogni educativi individuati. Per la scuola italiana questa prospettiva ha cambiato l’attenzione dalle condizioni del singolo studente alla capacità di allestire contesti sociali e apprenditivi capaci di rendere accessibili i saperi. La disabilità non diventa più l’accidente di qualcuno, ma il risultato di un intreccio che tiene conto tanto del singolo che degli ambienti, fisici, educativi e culturali, chiedendo a questi ultimi di farsi sostegno e non ostacolo, tanto negli apprendimenti che nella vita.
A segnare il cambio di marcia, in questa direzione anche il decreto legislativo n. 62 del 3 maggio 2024 in attuazione della legge n. 227 del 22 dicembre 2021, recante delega al Governo in materia di disabilità.
Si tratta di una riforma che accoglie questa nuova idea di disabilità, la valutazione di base, l’accomodamento ragionevole, la valutazione multidimensionale per l'elaborazione e attuazione del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato.
L’obiettivo di questo intervento è quello di assicurare alla persona il riconoscimento della propria condizione di disabilità, rimuovendo gli ostacoli e attivando i sostegni utili al pieno esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, delle libertà e dei diritti civili e sociali nei vari contesti di vita, liberamente scelti.
3.Oltre la disabilità: la scuola della diversità e delle differenze
Negli ultimi anni anche nel contesto scolastico italiano si è iniziato a parlare di Bisogni Educativi Speciali in seguito alla Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 “Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica” e alla Circolare del 6 marzo 2013. In particolar modo nella Direttiva si legge:
L’area dello svantaggio scolastico è molto più ampia di quella riferibile esplicitamente alla presenza di deficit. In ogni classe ci sono alunni che presentano una richiesta di speciale attenzione per una varietà di ragioni: svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici di apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a culture diverse. Nel variegato panorama delle nostre scuole la complessità delle classi diviene sempre più evidente. Quest’area dello svantaggio scolastico, che ricomprende problematiche diverse, viene indicata come area dei Bisogni Educativi Speciali (in altri paesi europei: Special Educational Needs). Vi sono comprese tre grandi sotto-categorie: quella della disabilità; quella dei disturbi evolutivi specifici e quella dello svantaggio socio-economico, linguistico, culturale.
A queste indicazioni si è unita la nota 562 del 3 aprile 2019 che invita a considerare tra gli alunni BES anche quelli ad alto potenziale intellettivo, prevedendo la personalizzazione degli insegnamenti, la valorizzazione degli stili di apprendimento individuali, l’adozione di un piano didattico personalizzato (PDP), che non deve essere inteso come un mero adempimento burocratico, ma deve basarsi sul principio della “cura e della responsabilità educativa”
.
Nella norma un Bisogno Educativo Speciale è una difficoltà che si deve manifestare in età evolutiva e cioè entro i primi 18 anni di vita del soggetto. Questa difficoltà si manifesta negli ambiti di vita dell’educazione e/o dell’apprendimento scolastico/istruzione. Può coinvolgere, a vario livello, le relazioni educative, formali e/o informali, lo sviluppo di competenze e di comportamenti adattivi, gli apprendimenti scolastici e di vita quotidiana, lo sviluppo di attività personali e di partecipazione ai vari ruoli sociali. Secondo questo approccio ogni BES dovrebbe avere in sé le caratteristiche della temporalità e della reversibilità, per evitare eccessive stigmatizzazioni.
La norma sui Bisogni Educativi Speciali ha allargato lo sguardo sulle aree di difficoltà presenti a scuola, cercando di non mettere il tema della disabilità come unica variabile di possibili diversità dentro la scuola. In realtà già dall’inizio degli anni Duemila l’UNESCO invitava ad accogliere l’orizzonte dell’ “Education for all” , facendo proprio il riconoscimento della diversità di ciascuno e della necessità della promozione delle differenze, con e oltre situazione di disabilità e/o svantaggio.
Ci sono ancora molti fraintendimenti quando si parla di inclusione scolastica: esiste la convinzione che riguardi alcune categorie di persone, che implichi il raggiungimento di una pseudo ordinarietà, che sia il movimento di accoglimento di alcuni verso altri. La storia del nostro Paese da questo punto di vista ha tanto da insegnare: l’inserimento prima e l’integrazione poi hanno continuato ad avere un focus sulle persone ritenute in situazione di disabilità. Nel primo caso si è garantito l’accesso ai luoghi educativi e non ordinari senza badare molto alla qualità di quell’esperienza. Nel secondo caso la logica è stata quella di ragionare sulla costruzione di percorsi specifichi dentro i luoghi comuni, costruiti ad hoc per persone certificate.
La dimensione inclusiva dovrebbe ribaltare questa punteggiatura perché amplia la forbice dei destinatari: la diversità e le differenze sono di tutti e di ciascuno. Dall’altro cambia anche la prospettiva: il senso non è più l’intervento riparatorio sul singolo ma la possibilità far evolvere i contesti perché ciascuno possa essere riconosciuto e valorizzato. La differenziazione degli interventi non riguarda alcuni, ma un modo ordinario di procedere in educazione. In questa direzione emergono oggi interventi di didattica inclusiva quali la differenziazione, la didattica aperta e l’utilizzo dell’Universal Design for Learning .
Queste proposte assumono il dato della diversità e delle differenze di ciascuno in termini di stili, cognizioni, motivazioni, interessi, talenti, come punto di partenza per ribaltare la prospettiva. Non si tratta allora di avvicinare le progettazioni individualizzate a quelle ordinarie, ma rendere quelle curriculari capaci di parlare al plurale in termini di obiettivi, proposte, valutazione. La centralità di questi interventi ricorda di fatto come la raffinatezza di alcune proposte nasca proprio da quella specialità per tanto tempo è stata tenuta distante e lontana dai più. «Fare in modo che le conquiste operate per una persona in situazione problematica divengano qualità per tutti» è una delle prospettive che si aprono in questo orizzonte inclusivo che non ha più la necessità di demarcare perché sa cogliere le infinite possibilità di ciascuno, con e oltre eventuali situazioni di fragilità certificata.