testo integrale con note e bibliografia
1. Il problema (superato) della compatibilità tra assunzione di lavoratori con disabilità e periodo di prova.
La questione della compatibilità tra patto di prova e assunzione di una persona con disabilità costituisce un tema “classico” del diritto del lavoro. Su di essa si sono molto esercitate in passato sia la dottrina che la giurisprudenza e sembra che, con il tempo, siano stati raggiunti dei risultati - inizialmente non scontati ma oggi condivisi – molto importanti, sui quali però, proprio perché si tratta di conquiste consolidate, non vale la pena di soffermarsi troppo. Sembra invece interessante occuparsi di tale tematica in una prospettiva un po’ più “moderna”, che tiene conto cioè dei progressi compiuti negli ultimi anni in tema di disabilità e lavoro e che, come si vedrà, mette in connessione prova e accomodamenti ragionevoli.
Ciò premesso, è comunque necessario, prima di entrare nel cuore di tale nuova prospettiva, spendere qualche parola sui risultati di cui si è detto, posto che essi costituiscono la premessa del ragionamento che si intende fare.
È ormai pacifico che il patto di prova può essere legittimamente inserito nel contratto di lavoro con gli appartenenti alle c.d. categorie protette e, più in generale ed a maggior ragione, con le persone con disabilità (da intendersi nell’accezione bio-psicosociale ormai universalmente accettata e recepita anche dal d.lgs. 3 maggio 2024, n. 62 ), ma non è stato sempre così . Il dubbio era sorto inizialmente con specifico riferimento all’ambito del collocamento obbligatorio in quanto si temeva che il datore di lavoro, tenuto ad assumere la persona con disabilità (o, quanto meno, la giusta quota di iscritti alle apposite liste) potesse di fatto sfuggire a tale obbligo esercitando il potere di recesso connaturato a questa particolare fase del rapporto di lavoro.
In un secondo momento tuttavia la giurisprudenza ha chiarito, da un lato, che non vi è incompatibilità fra l’istituto regolato dall’art. 2096 c.c. e l’assunzione di una persona con ridotta capacità lavorativa e, dall’altro, che il recesso durante la prova è soggetto in questa ipotesi al sindacato del giudice quanto alle ragioni che lo sorreggono. In alcuni casi si è anche sostenuto che il datore di lavoro deve motivare la sua decisione, affinché si possa verificare se il licenziamento non sia in qualche misura condizionato dalla disabilità del dipendente, ma si tratti veramente di un sincero “mancato gradimento”, relativo cioè ad aspetti della professionalità che è legittimo pretendere dal lavoratore, nonostante la condizione di disabilità . Più spesso però la giurisprudenza pone a carico del lavoratore, a prescindere da una esplicita motivazione del recesso (ritenuta non necessaria), l’onere della prova di un motivo illecito o di una discriminazione .
Ad un certo punto è stata la legge stessa ad ammettere l’inserimento del patto nel contratto o, meglio, a darlo per scontato. Ed infatti il comma 2 dell’art. 11 della l. 23 marzo 1999, n. 68, trattando delle convenzioni (comprese quelle di integrazione lavorativa) tra datori obbligati e Centri per l’impiego, stabilisce che tra le modalità che possono essere convenute ci può essere anche «lo svolgimento di periodi di prova più ampi di quelli previsti dal contratto collettivo , purché l’esito negativo della prova, qualora sia riferibile alla menomazione da cui è affetto il soggetto, non costituisca motivo di risoluzione del rapporto di lavoro».
Si può aggiungere che la questione di compatibilità qui trattata si è posta, in ogni caso, solo nel settore privato, in quanto nel settore pubblico è consolidata (anche se criticabile ) l’interpretazione per cui la prova costituisce una fase necessaria del rapporto di lavoro, che prescinde dall’inserimento nel contratto di una specifica clausola e la cui durata è stabilita dai contratti collettivi. Alla prova dovrà essere quindi obbligatoriamente sottoposto anche il lavoratore con disabilità.
Ad ogni modo, come si è visto da questo breve excursus, c’è stata in ogni caso una certa resistenza a riconoscere la predetta compatibilità e ciò forse a causa di una sorta di pregiudizio incombente sullo strumento della prova, della cui disciplina si è valorizzato maggiormente il profilo relativo alla libertà di recesso. Una volta appurato tuttavia il fatto che la giurisprudenza ha - giustamente - ridimensionato l’effettiva libertà di licenziamento del datore, ancorandola alla funzione della prova , ciò che vale in special modo se il lavoratore è una persona con disabilità, può essere interessante concentrarsi su di un’altra parte della disciplina di cui all’art. 2096 c.c. e cioè sul secondo comma, il quale stabilisce che le parti hanno il dovere reciproco di fare e consentire l’esperimento che costituisce l’oggetto del patto di prova.
Il riconoscimento del giusto “peso” a questa (spesso negletta) previsione può portare infatti a riscoprire la centralità del periodo di prova e, in specie, la sua idoneità ad essere impiegato come strumento in grado di evitare quelle chiusure ingiustificate e aprioristiche che le aziende talora dimostrano nei confronti delle persone con disabilità, arrivando al punto di rifiutarne l’assunzione nel caso esse in cui appaiano non possedere tutti i requisiti psico-fisici richiesti in relazione al posto da ricoprire.
E l’approdo ultimo cui questo ragionamento conduce potrebbe essere, come si vedrà, l’idea che il periodo di prova, nel caso di lavoratori con disabilità, costituisca il contesto ideale per sperimentare i ragionevoli accomodamenti o, addirittura, possa essere considerato esso stesso un ragionevole accomodamento.
2. Ragionevoli accomodamenti e fase genetica del rapporto di lavoro.
È necessario tuttavia procedere con ordine, ripartendo dalla constatazione per cui spesso le aziende rifiutano di assumere i prestatori con disabilità avviati dai Centri per l’impiego o, comunque, coloro che non posseggano una incondizionata idoneità alle mansioni, sostenendo di non poterli adeguatamente collocare nella propria organizzazione a causa della ridotta capacità lavorativa. Si tratta però sovente, come si accennava, di chiusure ingiustificate, soprattutto alla luce dei più recenti sviluppi della normativa e della giurisprudenza in materia, che hanno fatto entrare nella partita un nuovo giocatore: i già nominati ragionevoli accomodamenti.
La giurisprudenza sul punto ci offre alcuni esempi, sia pure diversamente affrontati e risolti.
In una vicenda decisa dal Tribunale di Roma con sentenza n. 7259 del 12 luglio 2023 un lavoratore aveva visto rifiutare la sua assunzione come operatore ecologico da parte di una società partecipata, in quanto ritenuto parzialmente inidoneo alla mansione specifica dal medico competente in occasione di una visita preassuntiva . Il giudizio medico era stato impugnato dal lavoratore, ma era stato successivamente confermato dalla ASL. Il lavoratore non assunto sosteneva di essere stato dichiarato non inidoneo alle mansioni, ma idoneo con limitazioni, mentre la società riteneva di poter legittimamente richiedere che il candidato fosse pienamente idoneo al lavoro da svolgere. Il Tribunale ha dato ragione all’azienda, partendo dalla premessa per cui in sede di assunzione il datore di lavoro è libero di fissare i requisiti richiesti ai futuri dipendenti e può quindi scegliere di concludere il contratto solo con coloro che sono totalmente idonei al ruolo da ricoprire, per poi aggiungere che «i doveri di mantenimento in servizio propri del datore di lavoro nel caso di sopravvenuta inidoneità del dipendente non possono estendersi alla fase precontrattuale, ove alcun rapporto di lavoro ancora si è instaurato, potendo in tale momento l’imprenditore adeguare le proprie decisioni alle migliori scelte di organizzazione imprenditoriale, libertà garantita e tutelata dall’art. 41 Cost., le quali possono richiedere, per l’efficientamento massimo dell’attività, di instaurare rapporti con personale del tutto idoneo alle specifiche mansioni per cui viene assunto». In sostanza, i limiti importanti che operano quando si tratta di licenziare un lavoratore che è divenuto non idoneo al lavoro non valgono invece se il rapporto non si è ancora costituito . Il Tribunale ha escluso anche che fosse stata operata una discriminazione a danno del prestatore.
Le cose sono andate in modo diverso nella vicenda decisa dalla Corte d’Appello di Trieste con sentenza del 3 marzo 2023, n. 153 . Una lavoratrice era stata collocata utilmente nella graduatoria di un bando di mobilità presso una ASL come operatrice sanitaria, ma poi non aveva ottenuto il trasferimento a causa dell’assenza della piena idoneità fisica alla mansione . Anche in questo caso la Corte d’Appello ha premesso al suo ragionamento l’affermazione per cui il datore può richiedere (nel caso di specie attraverso il bando di mobilità), l’idoneità rispetto a tutte e non solo ad alcune delle mansioni del profilo professionale. Da ciò consegue che non è discriminatorio il bando che richieda la piena idoneità fisica al posto da coprire e quindi l’assenza di limitazioni psico-fisiche alle funzioni e al profilo di appartenenza. Secondo la Corte però, alla luce di quanto previsto in tema di accomodamenti ragionevoli, il datore avrebbe dovuto verificare la possibilità per la lavoratrice di vedersi assegnato il posto, malgrado la limitazione di cui era portatrice, mediante l’adozione di tali soluzioni. L’obbligo di predisporre gli accomodamenti sarebbe venuto meno infatti solo se il datore avesse dimostrato che la loro introduzione comportava un onere sproporzionato. Tale prova non era stata data e quindi la condotta dell’azienda sanitaria era da ritenersi discriminatoria in base al fattore della disabilità. L’ASL è stata quindi condannata a disporre il trasferimento della lavoratrice.
Considerata la casistica che è all’origine di questa giurisprudenza, viene spontaneo chiedersi perché non si valorizza l’impiego del patto di prova in queste situazioni. Come si è visto all’inizio, è ormai pacifica l’astratta compatibilità tra prova e rapporto di lavoro con una persona con ridotta capacità lavorativa, né sembra dubbio il fatto che, quando si ha a che fare con un lavoratore con disabilità, i ragionevoli accomodamenti, se sono necessari per rendere la prestazione eseguibile, devono essere adottati sin dal momento dell’assunzione, cioè nella fase genetica del rapporto, purché essi non comportino per il datore un onere sproporzionato .
In questo senso si è espressa di recente Cass., sez. lav., 26 febbraio 2024, n. 5048 , affermando che l’adozione dei ragionevoli accomodamenti «è prevista in ogni fase del rapporto di lavoro, anche in quella genetica e, quindi, anche per gli assunti come invalidi ai fini del collocamento obbligatorio». Si tratta di una decisione che, nell’affrontare la nota questione relativa all’applicabilità dell’art. 2932 c.c. al rapporto di lavoro con il prestatore disabile (nel caso di specie si trattava di lavoro pubblico privatizzato), precisa che il giudice, nel riconoscere al lavoratore la tutela costitutiva di cui all’art. 63 del TUPI , deve valutare se siano o meno praticabili tali soluzioni, nel rispetto dei principi stabiliti dalla direttiva 2000/78/CE, per rendere concretamente compatibile l’ambiente lavorativo con le limitazioni funzionali del lavoratore de quo.
In questo senso è anche Cass., sez. lav., 9 marzo 2021, n. 6497, per la quale «l’adozione di tali misure organizzative è prevista in ogni fase del rapporto di lavoro, da quella genetica sino a quella della sua risoluzione, non essendo specificamente destinate a prevenire un licenziamento» .
Concorda con questa impostazione anche la dottrina . Di recente si è anche sostenuto che la decorrenza dell’obbligo datoriale deve essere ulteriormente anticipata , affermandosi che dal combinato disposto della disciplina del collocamento con quella antidiscriminatoria deriva un «arretramento temporale» del momento in cui sorge il dovere di prevedere ed adottare le soluzioni qui in discussione, dovere che viene dunque ad esistere già nella fase di accesso al lavoro e cioè ancora prima dell’assunzione . Ne consegue che il datore di lavoro non può rifiutarsi di assumere il prestatore avviato dai Centri per l’impiego facendo semplicemente leva sulla non modificabilità della propria organizzazione, ma dovrà verificare quali soluzioni siano sensatamente adottabili per compensare il fatto che il lavoratore non possiede tutte le caratteristiche psico-fisiche che consentirebbero una sua assunzione – diciamo così – senza problemi.
Un ruolo importante a questo fine può essere svolto dagli stessi Centri per l’impiego, i quali invero devono tenere conto delle valutazioni espresse dal Comitato tecnico di cui all’art. 8 della l. n. 68/1999 per realizzare il “collocamento mirato”. Nel settore pubblico un importante aiuto può arrivare altresì dal responsabile dei processi di inserimento delle persone con disabilità, figura prevista dall’art. 39-ter TUPI , anche se si è criticato il fatto che la disciplina ivi prevista non preveda un coinvolgimento del disabile nell’individuazione dei ragionevoli accomodamenti .
3. Periodo di prova e accomodamenti ragionevoli.
Ma se quanto sin qui rilevato è corretto, ne deriva che gli accomodamenti di cui sopra sono obbligatori anche se si inserisce nel contratto un patto di prova. Lo ha ribadito di recente a chiare lettere Trib. Trieste, 8 gennaio 2025, n. 259 , che ha condannato un’azienda per non aver adottato le misure adeguate per supportare una lavoratrice, affetta da disabilità visiva, che era stata assunta con patto di prova nell’ambito del collocamento obbligatorio. Nel caso di specie non era stato nominato un tutor formale (ma solo figure di supporto occasionali) per affiancare la dipendente, né l’azienda le aveva fornito materiale formativo adeguato alla sua disabilità, come documenti digitalizzati invece che cartacei. La lavoratrice era stata quindi, secondo il Tribunale, discriminata a causa della sua disabilità .
Accertato dunque che i ragionevoli accomodamenti sono obbligatori anche nella fase iniziale del rapporto di lavoro ed anche se esso inizia con un periodo di prova, perché non provare a fare un passo avanti? Perché non tentare di sostenere che il periodo di prova rappresenta il contesto migliore nel quale sperimentare e verificare la praticabilità di quegli adattamenti che potrebbero essere funzionali a rendere la prestazione concretamente possibile al lavoratore con disabilità ed effettivamente utile al datore di lavoro? Questo sembra in effetti sostenibile anche nel settore privato, dove la prova è solo eventuale, in quanto conseguenza della (libera) scelta delle parti di introdurre nel contratto la clausola accessoria di cui all’art. 2096 c.c.
Spingendosi ancora più avanti si potrebbe provare a dire che il patto di prova costituisce esso stesso un ragionevole accomodamento.
Ed invero è noto che nell’ampio ventaglio di queste soluzioni la giurisprudenza, anche della Corte di Giustizia , ha annoverato non solo misure di carattere tecnico-strutturale (quali interventi sugli strumenti o sugli ambienti di lavoro) oppure di tipo organizzativo (riguardanti ad esempio le mansioni , l’orario di lavoro, il lavoro agile), ma anche l’interpretazione di alcuni istituti tipici del rapporto di lavoro, come, notoriamente, la disciplina del periodo di comporto .
Ma allora perché non riproporre un simile ragionamento per il periodo di prova, nel corso del quale le parti compiono, anzi devono compiere, l’esperimento reciproco?
Se infatti è corretto quello che si è messo in evidenza poco sopra, e cioè che gli accomodamenti vanno (quanto meno) presi in considerazione anche prima (ed in vista) dell’assunzione, è tuttavia innegabile che l’individuazione di talune specifiche soluzioni può risultare assai difficile quando ancora non è avvenuto un vero e proprio inserimento della persona nel contesto organizzativo. E questo resta vero nonostante gli innegabili sforzi profusi dalla normativa, in particolare attraverso l’art. 1, comma 1, lett. d) del d.lgs. 14 settembre 2015, n. 151 e le Linee guida in materia di collocamento mirato delle persone con disabilità che vi hanno dato attuazione, con cui si è affidato agli uffici competenti il delicato compito (tra i numerosi altri) di analizzare le «caratteristiche dei posti di lavoro da assegnare alle persone con disabilità, anche con riferimento agli accomodamenti ragionevoli che il datore di lavoro è tenuto ad adottare». Le Linee guida prevedono, tra l’altro, che l’analisi dei posti di lavoro comprenda tutta una serie di attività, tra cui l’analisi dei fabbisogni professionali del datore di lavoro, delle fasi della lavorazione, dell’ambiente di lavoro, ciò che presuppone che gli uffici dispongano di adeguate informazioni sulle caratteristiche fisiche e organizzative del posto di lavoro. È stabilito anche che il Comitato tecnico, nel momento in cui “abbina” la persona e il posto di lavoro, utilizzi specifici strumenti, come la “Scheda funzionamento posto di lavoro” e la “Scheda profilo di funzionamento della persona con disabilità”. E la dottrina si è, giustamente, impegnata nella ricostruzione di un quadro normativo nel quale il collocamento mirato e l’adozione degli accomodamenti ragionevoli ruotano attorno ad un meccanismo di responsabilità condivise tra Centri per l’impiego e datori di lavoro .
Ciò non scalfisce tuttavia la convinzione per cui uno dei momenti cruciali di tutta la vicenda resta quello dell’incontro diretto tra candidato all’assunzione e datore di lavoro.
Va precisato a questo proposito che nel caso in cui si tratti di assunzioni obbligatorie presso la pubblica amministrazione le persone con disabilità vengono sottoposte, ai sensi del “regolamento concorsi” (il d.P.R 9 maggio 1994, n. 487 ), a prove selettive di idoneità alla mansione anteriori all’assunzione, disciplinate dall’art. 32 di tale decreto. Lo ha ribadito di recente Trib. Frosinone, sez. lav., 9 febbraio 2022, per il quale l’assunzione dei soggetti appartenenti alle categorie protette non può avvenire sulla base della sola verifica di compatibilità, rimessa alle Commissioni istituite presso la Direzione provinciale del lavoro, ma è necessariamente subordinata al previo controllo delle competenze minime professionali richieste per le mansioni da svolgere , perché il datore di lavoro, in ogni caso, non è obbligato a creare un’apposita posizione di lavoro per l’invalido. Di conseguenza è pienamente legittimo sottoporre i candidati “invalidi” avviati al lavoro a prove di idoneità allo svolgimento dei compiti propri del profilo che andranno a rivestire.
Se invece si tratta di assunzioni nel settore privato non è espressamente previsto che il datore possa o debba assoggettare il prestatore a specifici test, forse anche perché l’assunzione è nominativa, ma l’azienda sicuramente cerca di verificare nel colloquio preassuntivo se la persona avviata dagli uffici è, in ragione delle sue caratteristiche attitudinali, davvero utilmente collocabile nell’organizzazione.
È evidente però che in entrambi i casi (ma forse di più nel secondo, e cioè in ambito privato) non ci può essere in questa fase del “procedimento” che porta all’auspicata assunzione una vera verifica “sul campo” della compatibilità fra la capacità lavorativa residua (o particolare) della persona da collocare e lo specifico ambiente di lavoro cui essa è destinata, con conseguente rischio che il lavoratore venga aprioristicamente escluso da un posto di lavoro che invece, con l’adozione dei ragionevoli accomodamenti, potrebbe divenire a lui accessibile.
Perché non immaginare allora che, dopo una prima (tutto sommato ancora astratta) verifica di non assoluta inidoneità, il vero e proprio test delle competenze in relazione all’ambiente di lavoro, anziché essere fatto prima della stipulazione del contratto, venga compiuto dentro il rapporto e cioè proprio in una fase iniziale, ed in specie in quella fase – qual è il periodo di prova - in cui al datore di lavoro, da un lato, è concesso un più ampio margine di valutazione delle capacità del lavoratore e, dall’altro, è imposto di effettuare l’esperimento? In questo modo infatti l’accertamento de quo verrebbe compiuto non in modo asettico ma, al contrario, concretamente nel contesto lavorativo e organizzativo nel quale potrebbe essere immesso il lavoratore.
Questa soluzione sembra peraltro, da un diverso punto di vista, coerente con la sopra citata nozione bio-psicosociale di disabilità, in quanto anche sotto questo profilo permette di evidenziare il carattere relazionale della nozione, che si riflette sulla valutazione di idoneità al lavoro, dovendo anche questa tener conto della possibile praticabilità di strumenti che consentano di superare le barriere esterne che limitano la persona con disabilità nel rapporto di lavoro.
Ulteriore argomento a favore di questa proposta interpretativa può essere dedotto da quella lettura, di recente sostenuta in modo circostanziato , per cui l’individuazione delle misure in cui si sostanziano i ragionevoli accomodamenti dovrebbe avvenire con il “metodo partecipato” e cioè con il coinvolgimento diretto del beneficiario, in conformità sia al c.d. principio partecipativo, sia al connesso principio di autodeterminazione, cui è informata in primis la Convenzione ONU del 13 dicembre 2006 sui diritti delle persone con disabilità.
La dottrina che propone questa lettura in realtà nega che vi sia a carico del datore un vero e proprio dovere di raggiungere un previo accordo con il beneficiario sulla soluzione da adottare, ma forse proprio questa conclusione (e l’impasse alla quale essa conduce ) porta a valorizzare quel comma dell’art. 2096 c.c. che prevede che il datore e il lavoratore durante la prova hanno il dovere di consentire e di fare l’esperimento. E se è pacifico (tanto che sembra quasi inutile ribadirlo in questo contesto) che nel caso di un prestatore con disabilità tale verifica deve riguardare mansioni compatibili con le sue condizioni psico-fisiche, è altrettanto evidente che l’esperimento in questo caso comprende necessariamente i ragionevoli accomodamenti.
Si può riprendere in quest’ambito quel ragionamento che mette in relazione rifiuto di assunzione e recesso da un rapporto già costituito. Se è vero che le ragioni che possono essere poste a fondamento del licenziamento del disabile sono le medesime che devono sorreggere il rifiuto di assunzione di un lavoratore avviato, allora la valutazione circa la praticabilità di soluzioni adattative diventa un elemento di quell’esperimento che caratterizza (ed è doveroso durante) il periodo di prova. Il datore di lavoro, in altre parole, deve sperimentare non solo la teorica capacità lavorativa del dipendente appena assunto, ma anche la concreta capacità dimostrata sul campo, e ciò alla luce delle misure adottate o anche solo tentate.
Né si potrebbe obiettare che, essendo i vincoli al potere di recesso datoriale alleggeriti durante la prova, ciò renderebbe più facile per l’azienda “liberarsi” della persona con disabilità in quanto la giurisprudenza ha, come si è visto, da tempo chiarito che non vi deve essere un rapporto di causa-effetto tra condizione di disabilità e licenziamento, neppure durante la prova, ma tale rapporto di consequenzialità va piuttosto ricercato tra valutazione dell’esito dell’esperimento e recesso datoriale.
In conclusione, il ragionamento proposto conduce a sdoganare la fase della prova anche nel settore privato, emancipandola da quello stigma che la vede semplicisticamente confinata tra gli strumenti che consentono al datore di lavoro di recedere ad nutum dal rapporto, per acquisire un posto di un certo rilievo nel variegato panorama degli accomodamenti ragionevoli.
Si tratta forse di una provocazione, ma questa lettura potrebbe essere coerente con l’idea per la quale nella materia di cui si tratta, se non vi è una sincera collaborazione fra le parti del rapporto che si sta per costituire, non si riesce ad evitare che le aziende continuino a rifiutare aprioristicamente le assunzioni delle persone con disabilità e che queste vicende finiscano sulle scrivanie dei giudici.