testo integrale con note e bibliografia

1. Il tema del comporto per il lavoratore disabile coinvolge l’esame di diverse fonti normative, che è opportuno ricordare in modo sintetico.
Anzitutto, rileva l’art. 2110 Cod. civ. che, nel sancire il diritto del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro in caso di assenza per malattia (art. 2110 Cod. civ.), demanda a fonti integrative il compito di determinare quale sia il periodo massimo di assenza (cd. periodo di comporto) che il datore di lavoro è obbligato a tollerare (oltreché il compito di determinare quale sia il trattamento economico spettante durante il periodo di assenza) .
Si può, quindi, osservare, come primo dato di partenza, che la disciplina nazionale da cui deriva il diritto dei lavoratori di non essere licenziati durante il periodo di comporto per malattia non prende affatto in considerazione la condizione di disabilità, né quest’ultima coincide con la nozione di malattia .
Dal che, si potrebbe persino sollevare il dubbio che l’art. 2110 Cod. civ. configuri esso stesso una disposizione che comporta una forma di “discriminazione indiretta” nella misura in cui, non prendendo in considerazione la situazione del lavoratore disabile rispetto al rischio di essere licenziato per il superamento del periodo di comporto, rappresenta una disposizione solo apparentemente neutra, ma in realtà tale da mettere il lavoratore disabile in una posizione di particolare svantaggio rispetto al lavoratore che disabile non è.
V’è da rilevare, poi, che una specifica considerazione della condizione di disabilità non è rinvenibile nemmeno nella disciplina del comporto prevista dalla contrattazione collettiva, principale fonte integrativa dell’art. 2110 Cod. civ.. Ed infatti, il contenzioso che si è sviluppato in merito al licenziamento del lavoratore disabile per il superamento del periodo di comporto trae origine proprio dall’applicazione delle clausole dei contratti collettivi le quali, solitamente, stabiliscono la durata di tale periodo in modo uniforme, senza operare distinzioni in base alla natura della patologia e senza tenere conto di eventuali condizioni soggettive che possano rendere il lavoratore maggiormente esposto al rischio di ammalarsi. Soltanto in alcuni casi la disciplina sindacale prevede condizioni di miglior favore per il lavoratore affetto da malattie di particolare gravità, ma queste non sono specificamente considerate nella loro possibile connessione con una condizione di disabilità .
Sul tema in esame, rileva, poi, l’art. 32 Cost., che, riconoscendo il diritto alla “salute”, sollecita il legislatore a predisporre una specifica protezione per il lavoratore malato, e, ancor più specifica, per il lavoratore disabile. Può essere menzionata, al riguardo, la recente ordinanza del 5 settembre 2024, n. 23874, con cui le Sezioni Unite, hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 della legge n. 604 del 1966, nella parte in cui prevede che il termine per l’impugnazione del licenziamento possa decorrere anche nel caso in cui il lavoratore si trovi in una condizione di incapacità naturale di intendere e di volere. Le Sezioni Unite, infatti, hanno ritenuto come tale disposizione, oltre a contrastare con altri precetti costituzionali, violi sia l’art. 32 Cost., sia gli artt. 127 e 11 Cost., comportando, nel caso di incapacità derivante da disabilità, una forma di discriminazione indiretta.
E qui si arriva al terzo, fondamentale, ordine di fonti, che si pone al cuore del tema in esame, costituito dalle fonti internazionali (Convenzione ONU del 13 dicembre 2006 sui diritti delle persone con disabilità, ratificata con legge 3 marzo 2009, n. 18) e comunitarie (direttiva 2000/78/CE del 27 novembre 2000, recepita dal d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216) .
In particolare, la direttiva 2000/78, dopo aver precisato che il principio della parità di trattamento, deve intendersi come “assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta”, individua come discriminazione indiretta le ipotesi in cui “una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone” . Precisa, infine, che fa eccezione a tale regola, con riguardo alle persone disabili, il caso in cui il datore di lavoro pubblico o privato sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare “misure adeguate” al fine di ovviare agli svantaggi provocati dalla disposizione, dal criterio o dalla prassi che, pur apparentemente neutri, determinano la discriminazione indiretta .
2. Pur in presenza di disposizioni di principio così chiare, la questione della legittimità della previsione di un periodo di comporto unico ed indifferenziato per tutti i lavoratori non è emersa nell’ordinamento nazionale sino a quando l’attenzione su di essa non è stata richiamata dalla Corte di Giustizia UE.
Secondo la giurisprudenza di quest’ultima, infatti, il lavoratore disabile, rispetto al lavoratore non disabile, “è esposto al rischio ulteriore di una malattia collegata al suo handicap”, dal quale consegue un rischio maggiore di doversi assentare dal lavoro e di essere licenziato per aver superato il periodo di comporto. La Corte di Giustizia ha, quindi, avvertito che la mancata considerazione di tale rischio “potrebbe mettere i lavoratori disabili in una posizione di particolare svantaggio, realizzando una discriminazione indiretta, ai sensi dell’art. 2, par. 2, lett. b), Dir. 2000/78/CE” .
Nonostante qualche pronuncia contraria in sede di merito , la giurisprudenza della Cassazione si è conformata ai principi impartiti dalla Corte di Giustizia, affermando, con univocità di indirizzo, che le clausole dei contratti collettivi con le quali si prevede un periodo di comporto unico e indifferenziato configurano una discriminazione indiretta, e sono nulle, perché, pur essendo “apparentemente neutre”, hanno l’effetto di porre le persone portatrici di un handicap “in una posizione di particolare svantaggio rispetto agli altri lavoratori” .
Ne consegue che il licenziamento intimato dal datore di lavoro al lavoratore disabile per il superamento del periodo di comporto stabilito da quelle clausole collettive è anch’esso discriminatorio perché il datore di lavoro avrebbe dovuto provvedere a realizzare quell’“accomodamento ragionevole” che le fonti sovranazionali e nazionali impongono al fine di neutralizzare la posizione di particolare svantaggio nella quale il disabile è posto da disposizioni, criteri o prassi apparentemente neutre .
In linea di principio, dunque, seppure sono numerose le questioni ancora aperte , può dirsi definitivamente riconosciuto il diritto del lavoratore disabile a che il datore di lavoro appresti un “ragionevole accomodamento” anche rispetto allo specifico rischio ulteriore di incorrere in malattie collegate alla condizione di disabilità (e quindi al maggior rischio di essere licenziato per il superamento del periodo di comporto).
3. E’ evidente, però, che la finalità della tutela del lavoratore disabile (perseguita dalle fonti normative di cui si è detto) non può essere soltanto quella assicurata ex post dal contenzioso giudiziario relativo all’impugnativa del licenziamento che il lavoratore abbia subito, in quanto l’effettiva realizzazione del principio della parità di trattamento presuppone, ed anzi esige, che il mondo del lavoro individui, in via preventiva, i ragionevoli accomodamenti necessari per garantire il superamento della posizione di svantaggio.
Sorge, quindi, una problematica di ardua soluzione, che è quella di ricercare quali siano le soluzioni concretamente ipotizzabili, atteso che il riferimento normativo agli accomodamenti ragionevoli è strutturalmente indeterminato. Né la prassi, né gli studi della dottrina offrono al riguardo utili indicazioni, poiché, prima che emergesse la questione del periodo di comporto, i ragionevoli accomodamenti sono stati ricercati ed individuati nell’ambito di misure di carattere organizzativo, quali, ad esempio, interventi di adattamento del posto di lavoro, l’acquisizione di strumenti tecnici di assistenza, la redistribuzione dei tempi di lavoro o l’adeguamento delle mansioni .

Senonché, nessuna misura di carattere organizzativo è in grado di ristabilire condizioni di parità tra il lavoratore disabile e il lavoratore che tale non è rispetto al rischio di subire un licenziamento in conseguenza del superamento del periodo di comporto.

In coerenza con i principi da essa statuiti, la giurisprudenza ha allora affermato che la disciplina sindacale dovrebbe prevedere “una differenziata soglia di tollerabilità per i lavoratori disabili rispetto a quella prevista per coloro che tali non sono”, indicando “a titolo esemplificativo”, ipotesi alternative, quali “un allungamento del periodo di comporto ai sensi dell’art. 2110, comma 2, c.c.”, o “l’espunzione dal comporto di periodi di malattia connessi allo stato di disabilità” .

Sembrerebbe, dunque, che la giurisprudenza ritenga che, al fine di eliminare la posizione di svantaggio di cui discutiamo, la soluzione possa, o debba, essere individuata dalle stesse organizzazioni sindacali , le quali sono così, implicitamente, sollecitate a rivedere l’attuale disciplina di conservazione del posto di lavoro nel caso di malattia, basata sulla fissazione di periodi di comporto indifferenziati.
Senonché, la soluzione ipotizzata dalla giurisprudenza è, a mio avviso, anch’essa inadeguata, se non addirittura fallace, in quanto la disciplina di fonte intersindacale, essendo per funzione e vocazione orientata a prevedere regole uniformi, non può essere realmente lo strumento idoneo a tenere conto delle diverse condizioni di disabilità, le quali sono, per loro origine, multifattoriali e, quindi, esigono accomodamenti diversi.
Va ricordato, al riguardo, che la Convenzione dell’ONU individua le persone con disabilità in “coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive e sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di eguaglianza con gli altri” .
La disabilità è, quindi, una nozione bio-psico-sociale, dal contenuto “relativo” o “relazionale”, che ricomprende condizioni eterogenee sotto un duplice profilo, perché collegate sia alla natura della menomazione (che può essere fisica, mentale o psichica), sia alla interrelazione con ostacoli “di diversa natura” che, nei diversi contesti lavorativi, possono incidere sulla vita professionale .
Inoltre, proprio a ragione della loro eterogeneità, le condizioni di disabilità possono incidere in modo anche molto diverso sulla possibilità di comportare un aggravamento del rischio di malattia rispetto a quello che “incombe” sul lavoratore non disabile .
In questa situazione, le parti sociali, pur avendo cercato di dare seguito in diversi settori alle indicazioni della giurisprudenza , non potrebbero mai riuscire ad individuare, in modo esaustivo e appropriato, periodi di comporto “differenziati” per le diverse condizioni di disabilità, soggettive e ambientali, astrattamente e concretamente configurabili.
Ed anzi, come è stato osservato, la previsione uniforme di periodi di comporto più lunghi legati ad una indistinta e generale condizione di disabilità potrebbe risultare ingiustificata e dare luogo addirittura ad una iper-protezione del soggetto disabile , perché vi sono fattori di disabilità che non espongono il lavoratore ad un aggravamento del rischio di malattia .
Piuttosto, in linea teorica, per la contrattazione collettiva sarebbe agevole introdurre una regola che preveda la non computabilità nel periodo di comporto delle assenze per malattia determinate dalla condizione individuale di disabilità. Ma a tale ipotesi di soluzione, anch’essa suggerita – come detto – dalla Cassazione, osta l’attuale disciplina di legge che non consente al datore di lavoro di conoscere la natura della malattia e, a fortiori, di sapere se essa sia dipesa dalla disabilità.
4. In ultima analisi, dunque, sembra di poter dire che, allo stato, gli “accomodamenti ragionevoli”, diretti a neutralizzare la situazione di svantaggio del lavoratore disabile rispetto al rischio del licenziamento per il superamento del periodo di comporto, non possano che essere individuati con riferimento alla singola persona e al concreto contesto lavorativo.
L’esame delle fonti già richiamate, infatti, evidenzia che tali accomodamenti devono essere “mirati” in base alle peculiari caratteristiche della “menomazione” individuale e dell’organizzazione di lavoro in cui la persona è inserita, e non possono essere predefiniti in modo astratto con un indistinto riferimento ad una generica condizione di disabilità .

Già nella Convenzione ONU del 2006 è chiaro il riferimento al fatto che gli “accomodamenti ragionevoli” devono essere “appropriati” e che essi devono essere “adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”. Ancora più precisamente, il Comitato per i diritti delle persone disabili, nel commento dell’11 aprile 2014 alla Convenzione, ha sottolineato come “reasonable accommodation (is not related to groups but) is related to individuals”.

A sua volta, la direttiva 2000/78/CE, nell’utilizzare la locuzione di “soluzioni ragionevoli”, chiarisce che i provvedimenti appropriati devono essere individuati “in funzione delle esigenze delle situazioni concrete”, ponendo il solo limite che ciò non richieda da parte del datore di lavoro un onere sproporzionato .

Se, quindi, la sede più idonea per l’individuazione dell’accomodamento ragionevole “su misura” (o “tailor made”) è quella dello specifico contesto lavorativo ed è necessario avere riguardo alla concreta condizione del disabile, emerge che, come è stato giustamente evidenziato, un presupposto essenziale è che tra il lavoratore e il datore di lavoro si instauri una “interlocuzione e un confronto” personalizzato .

5. Si pone, però, a questo punto, un’ultima questione, oggetto di ampio contenzioso, che riguarda la fattispecie in cui il datore di lavoro giustifichi la mancata adozione di un “accomodamento ragionevole” deducendo che il lavoratore disabile non lo abbia informato della sua condizione .

Trattasi di situazione che si può spesso verificare in concreto in quanto la legge, a tutela dei dati personali sensibili del lavoratore, prevede che la certificazione giustificativa dell’assenza per malattia contenga la prognosi, ma non la diagnosi, della malattia stessa. Né il datore di lavoro può limitarsi a considerare disabili soltanto i lavoratori assunti in adempimento degli obblighi e delle procedure previste dal cd. “collocamento mirato”, in quanto la condizione di disabilità protetta dalla disciplina antidiscriminatoria è diversa e più ampia di quella che era alla base della legge 12 marzo 1999, n. 68 .

Secondo un primo orientamento emerso nella giurisprudenza, la conoscenza da parte del datore di lavoro della condizione di disabilità (e della sua connessione con l’assenza per malattia) non sarebbe rilevante, in quanto il divieto di discriminazione “opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore” . E’ stato, però, obiettato che “una cosa è esonerare il lavoratore dalla difficile prova della altrui volontà di discriminarlo, altro è imputare al datore di lavoro la responsabilità per l’illeceità di un atto derivante da un fatto che ignora” . In altri termini, ove non vi sia conoscenza, l’obbligazione relativa ai “ragionevoli accomodamenti” risulta giuridicamente inesigibile .

Più recentemente, prendendo atto di tale condivisibile obiezione, la stessa Cassazione, a tutela della posizione del lavoratore disabile, ha equiparato alla “conoscenza” la “conoscibilità” da parte del datore di lavoro della condizione di disabilità, ed ha conseguentemente affermato che “non può negarsi che possa assumere rilevanza la conoscenza o la conoscibilità di un fattore discriminatorio, ai fini dell'accertamento della sussistenza di una esimente per il datore di lavoro al fine di rendere praticabili gli accomodamenti ragionevoli” .

L’equiparazione della “conoscibilità” alla conoscenza merita, peraltro, qualche riflessione ulteriore. In alcune sentenze, infatti, si è ritenuto che la condizione di disabilità sia “conoscibile” dal datore di lavoro, perché questi l’avrebbe potuta desumere, utilizzando l’ordinaria diligenza, dalla lunghezza delle assenze del lavoratore che hanno determinato il superamento del periodo di comporto .

Ma si tratta di una argomentazione priva di senso logico, poiché il superamento del periodo di comporto implica sempre la lunga durata delle assenze, siano esse continuative o intermittenti. Di conseguenza, la conoscibilità della condizione di disabilità potrebbe essere presunta in tutti i casi in cui il periodo di comporto venga superato. E ciò avrebbe un notevole impatto sistematico sul piano dell’applicazione dell’art. 2110, Cod. civ., perché implicherebbe che il datore di lavoro verrebbe ad essere sempre obbligato, prima di esercitare il recesso ai sensi di tale disposizione, ad accertare se le assenze siano dipese da una condizione di disabilità mai comunicata e ad esso sconosciuta.

In definitiva, è difficile sfuggire alla sensazione che la giurisprudenza, pur mossa dalla comprensibile finalità di tutela del lavoratore disabile, non abbia raggiunto ancora un accettabile punto di equilibrio tra quella tutela e la posizione del datore di lavoro che, in buona fede, abbia esercitato il recesso ex art. 2110 Cod. civ., non essendo stato informato della condizione di disabilità e non avendo ragioni obiettive per presumere la sussistenza di tale condizione .

In particolare, emerge una sottovalutazione del principio fondamentale che è alla base dell’obbligo di adottare ragionevoli accomodamenti, vale a dire la necessità ineludibile del presupposto della “cooperazione” da parte del lavoratore disabile . E che si tratti di un presupposto necessario risulta tanto più evidente perché, come detto, al fine di individuare in modo “mirato” la misura di accomodamento al caso concreto, non è neppure sufficiente la mera conoscenza generica della “menomazione” di cui soffre il lavoratore, occorrendo anche conoscerne la natura.

Del resto, anche per restare ancorati ai fondamenti normativi della tutela antidiscriminatoria, dall’art. 2 della Convenzione ONU si evince che la discriminazione è rappresentata dal “rifiuto di accomodamento ragionevole”, ed è evidente che “può rifiutarsi solo ciò che risulta oggetto di una richiesta, di una istanza” . Altrettanto chiaramente, nel Commento generale n. 6, adottato nel 2018, il Comitato per i diritti delle persone con disabilità definisce "l'obbligo di fornire soluzioni ragionevoli un dovere reattivo individualizzato che viene attivato nel momento in cui viene fatta la richiesta di accomodamento". Onde, come già suggerisce il buon senso, non sembra concepibile che l’obbligo in questione possa sorgere ove non solo non vi sia “richiesta” di accomodamento, ma non vi sia nemmeno la oggettiva conoscibilità che sussista la condizione che in ipotesi avrebbe potuto legittimare la richiesta .

In questa direzione, sembra opportunamente muoversi il già citato d.lgs. n. 62 del 2024, il quale, nel dettare una riforma organica della disciplina della disabilità, stabilisce che "La persona con disabilità (...) ha facoltà di richiedere, con apposita istanza scritta, (tra gli altri) ai soggetti privati l'adozione di un accomodamento ragionevole, anche formulando una proposta" e partecipando "al procedimento dell'individuazione dell'accomodamento ragionevole" .
E’ da auspicare, quindi, che la giurisprudenza, anche ove non ritenga sufficiente dare ascolto alle osservazioni della dottrina, tenga almeno conto dell’intervento del legislatore che, almeno sulla questione in esame, sembra aver colto correttamente lo spirito e il senso delle indicazioni delle fonti internazionali ed europee.

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