testo integrale con note e bibliografia
Sent. Corte costituzionale n.143 del 2024
1. Introduzione
Il diritto antidiscriminatorio, sempre più al centro del dibattito giuslavoristico, ha subito nel corso del tempo rilevanti modifiche in termini di forme, oggetto e ambito, estendendosi a questioni relative al sesso, all'età, alla nazionalità, alla religione, alle convinzioni personali e ad altri fattori .
Negli ultimi anni, è persino emerso un nuovo capitolo della discussione, sollevando interrogativi di grande rilevanza giuridica ed etica: la cosiddetta discriminazione su base genetica .
Sennonché, esiste un ambito che non ha ancora ricevuto l'attenzione e il riconoscimento che meriterebbe, ossia quello delle discriminazioni subite dalle persone transessuali, o – per coloro che preferiscono evitare categorie ed etichette sociali – dalle persone che non si identificano con il sesso biologico loro assegnato alla nascita. Sul punto, è opportuno sottolineare che la problematica non riguarda esclusivamente coloro che hanno intrapreso un processo di transizione medica, ma anche coloro che, pur non avendo intrapreso tale percorso, vivono una marcata dissonanza tra la propria identità di genere e il proprio sesso biologico.
Inoltre, è bene precisare che le persone appartenenti alla comunità trans tendono a preferire l'uso del termine "transgender" piuttosto che quello di "transessuale", in quanto quest’ultimo enfatizzerebbe principalmente l'aspetto biologico e fisico del sesso. Al contrario, il termine "transgender" rispecchia in modo più adeguato l’esperienza psicologica, affettiva e sociale legata all'identità di genere, che va ben oltre la mera componente anatomica. Tale distinzione, seppur sottile, è importante per una maggiore accuratezza nel descrivere la realtà di tali soggetti, riconoscendo la centralità del vissuto e dell’autodeterminazione rispetto alla dimensione puramente biologica .
Come ben noto, le persone transgender sono particolarmente vulnerabili a discriminazioni di vario tipo , tra cui hate speech, bullismo, nonché ulteriori forme di violenza fisica e psicologica .
Sebbene l'Unione Europea abbia, tramite timidi atti di soft law , sollecitato gli Stati membri ad affrontare le difficoltà di queste persone, interventi concreti sono ancora limitati e spesso invisibili.
Sul piano nazionale, la legislazione italiana, pur evolvendosi, non ha ancora prodotto risultati significativi in termini di reale inclusività e protezione. Le attuali politiche appaiono infatti incapaci di rispondere adeguatamente ai bisogni di un gruppo che vive quotidianamente discriminazione e marginalizzazione, soprattutto in ambito lavorativo.
Oltre al conflitto esterno, derivante da stereotipi e pregiudizi, le persone transgender si trovano poi a dover affrontare un conflitto interno – scientificamente definito come “disforia di genere” – caratterizzato da un significativo e persistente malessere psicologico, scaturito dalla discordanza tra il sesso biologico e l'identità di genere percepita.
Nel contesto lavorativo, tale condizione si vede inevitabilmente accentuata dalla rigidità di norme e prassi, che non tengono conto delle specifiche esigenze delle persone transgender, come l’obbligo di indossare divise predefinite in base al sesso, l'accesso a bagni separati e/o il corretto uso dei pronomi.
Tutto ciò premesso, il presente saggio si propone di offrire una riflessione approfondita sulla possibile applicazione degli accomodamenti ragionevoli in tali situazioni, argomentando a favore della loro implementazione obbligatoria e fornendo esempi concreti.
A parere di chi scrive, l'accomodamento, già utilizzato per contrastare forme di discriminazione legate alla disabilità, rappresenterebbe infatti uno strumento per rispondere in modo adeguato ed effettivo alle esigenze delle persone che soffrono di disforia di genere.
2. Osservazioni preliminari: il data gap che cela l'invisibilità delle disuguaglianze lavorative per le persone transgender
Prima di approfondire le dimensioni strettamente giuridiche della questione, risulta imprescindibile considerare lo stato attuale dei dati disponibili. Solo mediante un'analisi di tale natura, infatti, è possibile cogliere pienamente l'importanza della problematica.
Tuttavia, una delle principali difficoltà nella valutazione delle condizioni lavorative attuali delle persone transgender risiede proprio nella marcata carenza di informazioni e dati affidabili .
Più precisamente, in Italia, vi è una vistosa mancanza di statistiche specifiche e chiare sul numero di persone transgender disoccupate. È evidente che tale assenza di dati non è solo una lacuna statistica, ma è un potente riflesso della diffusa invisibilità e dell'abbandono sistemico di cui soffre tale comunità.
Tutto ciò perpetua un ciclo di esclusione ed emarginazione, rendendo molto più difficile lo sviluppo di interventi mirati o la valutazione dell'efficacia delle – poche e non obbligatorie – politiche esistenti.
Tra le informazioni disponibili, uno studio pubblicato nel novembre 2020 nell'ambito di un progetto collaborativo di ISTAT e UNAR sul diversity management offre alcuni spunti di riflessione.
Dettagliatamente, lo studio ha rivelato che solo cinque aziende su cento (su oltre mille intervistate, ciascuna con almeno cinquanta dipendenti) hanno attuato una o più misure volontarie volte a includere e valorizzare i lavoratori transgender e non binari. Tra questa esigua percentuale, il 3,3% prevede l'accesso a strutture adeguate al genere, come bagni e spogliatoi, con le aziende più grandi (oltre 500 dipendenti) che mostrano tassi di adozione più elevati. Allo stesso modo, il 2% delle aziende consente ai lavoratori transgender di esprimere visibilmente la propria identità di genere, con una percentuale maggiore nelle aziende più grandi.
La misura più adottata, presente nel 2,1% delle aziende, si limita a promuovere l'inclusione e a celebrare la diversità LGBTQI+ .
Come appare evidente, trattasi di dati allarmanti, i quali evidenziano l'urgente necessità di introdurre nella legislazione requisiti obbligatori per le imprese che garantiscano la parità di trattamento, tutelino la privacy e promuovano un ambiente realmente inclusivo per le minoranze descritte.
3. Considerazioni sull’identità non binaria e sul suo potenziale riconoscimento alla luce della sentenza n. 143/2024 della Corte costituzionale
È opportuno riflettere ulteriormente sulla dimensione soggettiva della nostra analisi, considerando specificatamente la situazione delle persone non binary che, al pari delle persone transgender, e sulla base delle argomentazioni che seguiranno , avrebbero certamente diritto agli accomodamenti ragionevoli.
Per la massima chiarezza e completezza, le persone non binarie (anche dette non binary, genderqueer oppure enby) percepiscono la loro identità di genere oltre i margini del tradizionale binarismo di genere uomo-donna, abbracciando una comprensione più fluida della loro identità.
Va riconosciuto che, negli ultimi tempi, grazie ai principali mezzi di comunicazione di massa, la visibilità di tale categoria è notevolmente aumentata.
In tale prospettiva, è sicuramente degna di nota, anche se non direttamente correlata ai rapporti di lavoro, la sentenza della Corte costituzionale italiana n. 143, pubblicata il 24 luglio 2024, che ha sottolineato la crescente sensibilità nei confronti di questa minoranza, in un Paese che non sempre ha dimostrato apertura verso le tematiche della diversità di genere.
Nel dettaglio, richiamando quanto affermato dal giudice a quo, l'impossibilità di riconoscere l'autopercezione non binaria di un individuo attraverso un procedimento di rettifica costituisce una violazione degli articoli 2, 32 e 117, primo comma, della Costituzione italiana, quest'ultimo in relazione all'articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo , stante il pregiudizio arrecato all'identità, alla salute e al rispetto della vita privata e familiare dell’individuo. D’altronde, «per il suo carattere assoluto e l’assenza di qualunque bilanciamento, il sacrificio del diritto individuale della persona con identità non binaria non potrebbe trovare giustificazione nell’interesse pubblico alla certezza dei rapporti giuridici, segnatamente all’esatta differenziazione tra i generi presupposta dall’attuale sistema di diritto familiare» .
Ciò nonostante, la Corte costituzionale chiarisce altresì che la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha recentemente escluso che l'art. 8 della CEDU imponga un obbligo positivo agli Stati di riconoscere l'anagrafe non binaria, non esistendo un consenso europeo in materia .
Ad ogni buon conto, in vari settori della comunità nazionale si sta diffondendo una crescente consapevolezza di questa realtà minoritaria, come dimostra, tra l'altro, la pratica delle carriere alias, attraverso la quale diversi istituti di istruzione secondaria e superiore consentono agli studenti di assumere, a fini amministrativi interni, un'identità (anche non binaria) che si allinea con il genere percepito .
Secondo la Consulta, le considerazioni finora esposte, insieme alle influenze proveniente dal diritto comparato e dall’Unione europea , portano la condizione non binaria all'attenzione del legislatore, primo interprete della sensibilità sociale .
In altre parole, a causa delle profonde ripercussioni che tale cambiamento apporterebbe al sistema esistente, la Corte ha scelto di rimettersi al legislatore italiano.
Il binarismo di genere influenza, infatti, non solo il diritto di famiglia, ma anche altri campi, come, appunto, il diritto del lavoro (ad esempio, le azioni positive intraprese per sostenere le lavoratrici) e il diritto sportivo (si pensi alla classificazione delle categorie agonistiche, dove le distinzioni sono fatte sulla base della tradizionale dicotomia uomo-donna) .
In conclusione, risulta difficile dissentire dal ragionamento della Corte, che sottolinea la necessità di un intervento sul piano legislativo in materia.
4. È (giuridicamente) possibile riconoscere alle persone con disforia di genere il diritto agli accomodamenti ragionevoli?
Chiarito l'ambito soggettivo della nostra analisi e, conseguentemente, la platea dei nuovi potenziali beneficiari degli accomodamenti ragionevoli, possiamo procedere alla trattazione del nucleo della nostra discussione, cercando di dimostrare la fattibilità e – soprattutto – la legittimità della proposta.
Tuttavia, prima di proseguire in tal senso, è necessario soffermarsi sul concetto di "accomodamento ragionevole", fornendo una breve panoramica storica dell'istituto.
La nozione di accomodamento ragionevole, unitamente al divieto di discriminazione, rappresenta il fondamento della strategia antidiscriminatoria contemporanea, trovando la propria affermazione a partire dal livello sovranazionale .
In particolare, nell'ordinamento comunitario, la Direttiva 2000/78/CE ha istituito un quadro normativo generale per la lotta contro le discriminazioni, in relazione a molteplici fattori, tra cui la disabilità, con l'obiettivo di garantire la parità trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro .
Ai sensi dell’art. 5 della Direttiva, infatti, «per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l'onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili» .
In aggiunta, la Direttiva si preoccupa di delineare specifiche e concrete misure, le quali comprendono – ma non si limitano a – la modifica degli spazi e delle attrezzature, l'adeguamento dell'orario di lavoro, la redistribuzione delle mansioni e la fornitura di risorse per la formazione o l'integrazione professionale .
Va segnalato che la Commissione europea ha recentemente pubblicato le Linee guida e le buone prassi sulle sistemazioni ragionevoli sul lavoro , documento sviluppato come parte della Strategia dell'UE per i diritti delle persone con disabilità 2021-2030. Tali linee guida non solo offrono esempi ed indicazioni pratiche per assistere i datori di lavoro nell'adempimento del loro obbligo di promuovere l'inclusione delle persone con disabilità sul posto di lavoro , ma specificano anche cosa non vada inteso come accomodamento ragionevole, ovverosia: gli aggiustamenti minimi con scarso impatto; gli aggiustamenti che non rispondono all'esigenza espressa; le soluzioni temporanee; la segregazione o le pratiche di esclusione; l’uso di protesi e ortesi.
Per quanto concerne l’ambito internazionale , il dettato dell’art. 5 della Direttiva 2000/78 è stato ripreso dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità del 2006, seppure in un senso più ampio e con una portata prescrittiva . La Convenzione ONU afferma infatti: «Gli Stati Parti devono vietare ogni forma di discriminazione fondata sulla disabilità e garantire alle persone con disabilità uguale ed effettiva protezione giuridica contro ogni discriminazione qualunque ne sia il fondamento. Al fine di promuovere l’uguaglianza ed eliminare le discriminazioni, gli Stati Parti adottano tutti i provvedimenti appropriati, per garantire che siano forniti accomodamenti ragionevoli» .
Ai sensi dell’art. 2 della Convenzione, l’espressione “accomodamento ragionevole” indica «le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali».
Certamente, la definizione fornita dalla Convenzione ha una portata più ampia rispetto a quella delineata nell'art. 5 della direttiva UE. A differenza di quest'ultima, limitata esclusivamente al contesto professionale, la definizione della Convenzione si estende, difatti, alla più ampia sfera delle relazioni e delle interazioni sociali delle persone con disabilità . In secondo luogo, la definizione fornita dall'ONU risulta particolarmente generica, tenuto conto della vasta gamma di barriere e condizioni individuali che le persone con disabilità possono affrontare .
Pertanto, non sorprende che la Convenzione – allo stesso modo della Direttiva – non fornisca neppure una definizione specifica di disabilità, ma la lasci deliberatamente aperta, riconoscendo – evidentemente – la pluralità di esperienze e la necessità di un approccio quanto più flessibile e inclusivo.
Quanto appena descritto rappresenta senz'altro un punto a nostro favore. La mancanza di definizioni rigide nell’ordinamento multilivello, infatti, consente di includere un ampio spettro di situazioni e condizioni, aprendo così la strada all’applicabilità delle tutele anche alle persone che soffrono di disforia di genere.
A breve torneremo sul punto.
Va peraltro sottolineato che, secondo la Corte di giustizia dell’UE, le disposizioni della Convenzione ONU possono essere invocate ai fini dell'interpretazione di quelle della direttiva 2000/78, con la conseguenza che quest'ultima deve essere interpretata, per quanto possibile, in modo coerente con tale convenzione .
Come già detto, dall'esame delle azioni sovranazionali, emerge che sia la Direttiva che la Convenzione hanno deliberatamente abbracciato un concetto abbastanza ampio di accomodamento, pensato per essere applicato e adattato alla complessità e alla diversità delle circostanze in cui si trovano le persone con disabilità.
A questo punto, è evidente che la questione che necessita di risposta riguarda la riconducibilità o meno della disforia di genere alla nozione di disabilità.
La questione non è di facile soluzione, in quanto uno degli aspetti più impegnativi emersi dall'entrata in vigore della Direttiva 2000/78/CE riguarda proprio l'identificazione e la precisa delimitazione del concetto di disabilità.
Tuttavia, ad oggi, alcune incertezze sembrano essere state in parte superate grazie agli interventi chiarificatori della Corte di giustizia dell'Unione europea.
In un primo momento, nella causa Chacón Navas, la Corte ha sottolineato la concezione tradizionale e bio-medica della disabilità, dove questo termine era inteso principalmente come una limitazione o menomazione fisica, distinguendola dalla malattia . Tale approccio si è però evoluto nel tempo, giungendo a una visione più ampia, inclusiva e conforme alla volontà del legislatore europeo e delle Nazioni Unite .
In un’altra pronuncia la Corte UE ha infatti statuito: «se una malattia, curabile o incurabile, comporta una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori e se tale limitazione è di lunga durata, una siffatta malattia può ricadere nella nozione di «handicap» ai sensi della direttiva 2000/78» .
Successivamente, nella sentenza Nobél Plastiques Iberica, la Corte ha riaffermato il principio, orientandosi finalmente verso una concezione più dinamica, cosiddetta bio-psico-sociale della disabilità, e superando definitivamente l'approccio bio-medico . Così facendo, la comprensione della condizione medica di un individuo è stata arricchita dalla considerazione non solo dei fattori biologici, ma anche delle dimensioni psicologiche e sociali.
Questo cambiamento di paradigma ha avuto un impatto significativo sul sistema giuridico italiano, che, fino a poco tempo fa, si caratterizzava ancora per un sistema radicato nel modello biomedico.
A tal riguardo, l'art. 3, comma 1, del recentissimo D.lgs. n. 62/2024, nel modificare l'art. 3, comma 1, della L. n. 104/1992, definisce la persona con disabilità come «chi presenta durature compromissioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione nei diversi contesti di vita su base di uguaglianza con gli altri, accertate all'esito della valutazione di base» . In altri termini, secondo la norma, per poter usufruire delle tutele previste dalla disciplina in materia è necessario che vi sia una menomazione psicofisica, accompagnata dalla presenza di ostacoli, siano essi fisici, ambientali, sociali o culturali.
Ebbene, alla luce dei principi sovranazionali, recepiti dalla nuova nozione domestica di disabilità, la disforia di genere appare senz’altro condividerne gli elementi distintivi.
Del resto, come già ampiamente detto, la disforia di genere, che si manifesta come una combinazione di ansia, depressione, irritabilità e un persistente senso di disagio rispetto al proprio corpo, può comportare sintomatologie gravi e durature tali da limitare la partecipazione del soggetto alla vita sociale e professionale .
Per quanto concerne poi le «barriere di diversa natura» che rivestono rilevanza nello specifico contesto in esame, queste si manifestano proprio nel tradizionale binarismo uomo-donna e in tutte le sue implicazioni, che impongono una concezione rigida dell’identità di genere, negandone la fluidità e provocando, nei soggetti precedentemente indicati, condizioni di disforia di genere.
Da ultimo, meritano una considerazione anche le limitazioni oggettive imposte dalle normative sovranazionali.
Come già anticipato, l'art. 2 della Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità e la Direttiva 2000/78 (nello specifico, il considerando 21 e l’art. 5) definiscono gli accomodamenti ragionevoli come adeguamenti necessari e appropriati che non impongono un onere sproporzionato o indebito per il datore.
Orbene, le sistemazioni ragionevoli per i lavoratori transgender e non binari, come si vedrà meglio, non sembrano imporre oneri eccessivi, considerando che i possibili adattamenti richiesti sono facilmente gestibili e oggettivamente sostenibili. Di conseguenza, a parere dello scrivente, i suddetti limiti non sarebbero applicabili.
Per mero scrupolo, va comunque detto che, anche se si adottasse una visione maggiormente conservatrice – secondo la quale l'applicazione delle disposizioni sovranazionali e nazionali, unitamente al concetto stesso di disabilità, debba essere interpretata in maniera restrittiva – non si potrebbe comunque prescindere dall'ormai consolidata giurisprudenza nazionale, la quale afferma che l'attività lavorativa deve essere compatibile con la salvaguardia della salute del lavoratore .
Recentemente, infatti, una serie di sentenze della Corte di Cassazione ha rafforzato la tutela giudiziaria della salute psico-fisica dei lavoratori, specificando che la mera richiesta di accertamento del mobbing non è sufficiente a esaurire l'ambito di indagine del giudice. Quest’ultimo è quindi tenuto a valutare se il danno sia stato causato da un ambiente di lavoro disfunzionale, attribuibile al datore di lavoro anche a titolo di colpa .
Conseguentemente, il datore di lavoro deve prestare particolare attenzione alle esigenze specifiche delle persone transgender e non binarie, che possono subire un ambiente di lavoro ostile a causa della loro identità di genere, incorrendo così in una responsabilità ai sensi dell'articolo 2087 c.c. – norma di apertura e chiusura del sistema prevenzionistico che, pur non limitando gli obblighi datoriali a un numerus clausus , al tempo stesso, chiude e completa detto sistema , integrato con la legislazione speciale.
Ciò posto, l'adozione di misure aventi un funzionamento sostanzialmente identico a quello degli accomodamenti ragionevoli costituirebbe, indubbiamente, lo strumento più efficace per la prevenzione di possibili problematiche connesse alla disforia, contribuendo in modo significativo alla creazione di un ambiente di lavoro armonioso, sensibile e, soprattutto, sano per l’individuo.
4.1. Uno sguardo oltreoceano: verso l’estensione dell’ambito di applicazione dell’Americans with Disabilities Act
Il concetto giuridico di accomodamento o adattamento ragionevole in realtà non ha origine nella Comunità Europea, bensì negli Stati Uniti. La nozione è stata introdotta, infatti, con l'Equal Employment Opportunity Act del 1972, un emendamento al Civil Rights Act del 1964. Inizialmente, si trattava di sistemazioni specifiche che i datori di lavoro dovevano attuare per sostenere le pratiche religiose dei dipendenti. Nel 1973, il Rehabilitation Act ha esteso il concetto di accomodamento ragionevole anche al contesto della disabilità. Più tardi, l'Americans with Disabilities Act (di seguito “ADA”) del 1990 ha finalmente richiesto ai datori di lavoro di adottare specifici adattamenti per rimuovere le barriere ambientali e sociali affrontate dalle persone con disabilità sul posto di lavoro .
Uno degli aspetti più innovativi dell’ADA risiede nel suo cambiamento concettuale, che riconosce la disabilità non come un problema intrinseco all'individuo, ma come un problema sociale diffuso. In tale prospettiva, l'ADA considera le persone con disabilità come titolari di diritti, sottolineando che le loro sfide non derivano solo dalle menomazioni, ma dalle barriere erette dalla società che ostacolano la loro piena inclusione .
Nonostante ciò, l'ADA afferma esplicitamente che il termine “disabilità” non include le seguenti condizioni: «transvestism, transsexualism, [...], gender identity disorders not resulting from physical impairments, or other sexual behavior disorders» . Di conseguenza, tale enunciazione elimina di fatto l'obbligo per i datori di lavoro di garantire accomodamenti ragionevoli durante percorsi di transizione di genere e/o in situazioni di dissonanza tra il sesso biologico e l’identità di genere.
Storicamente, i giudici statunitensi hanno interpretato la previsione in maniera restrittiva, affermando che le condizioni connesse allo status di persona transgender rientrano nella categoria dei “disturbi dell'identità di genere”, e pertanto sono escluse dalle tutele previste dalla legge federale.
Va subito detto che, a parere dello scrivente, tale interpretazione appare in contrasto con la ratio ispiratrice della legge, che, come già evidenziato, mira a rimuovere gli ostacoli sociali che impediscono una piena inclusione – come, tra l’altro, la successiva Convenzione ONU (nel caso in esame, è già stato detto, l’ostacolo sarebbe il binarismo uomo-donna e le conseguenti convenzioni puramente sociali che si sono stabilite).
Negli ultimi anni, tuttavia, alcune corti statunitensi hanno adottato un'interpretazione più elastica della norma, ritenendo che una diagnosi di disforia di genere qualifichi le persone per le tutele legali previste dall'ADA.
In particolare, già nel 2017, la U.S. District Court for the Eastern District of Pennsylvania ha stabilito che alle persone transgender non debba essere categoricamente precluso il godimento delle tutele previste dalla citata normativa. Secondo la Corte distrettuale, infatti, «it is fairly possible to interpret the term gender identity disorders narrowly to refer to simply the condition of identifying with a different gender, not to exclude from ADA coverage disabling conditions that persons who identify with a different gender may have — such as Blatt’s gender dysphoria, which substantially limits her major life activities of interacting with others, reproducing, and social and occupational functioning» .
Analogamente, nel 2022, la U.S. Court of Appeals for the Fourth Circuit ha affermato che le persone transgender che soffrono di disforia di genere sono protette dall'ADA e dal Rehabilitation Act. In tale occasione, la Corte ha innanzitutto chiarito che l'ADA esclude dal proprio ambito di applicazione i disturbi dell'identità di genere, non la disforia di genere , posto che «while there may be a relationship between the “now-rejected” diagnosis of gender identity disorder and the current diagnosis of gender dysphoria (both involve conditions that manifest as a result of having a gender identity that is different than a person’s assigned birth sex), they are not the same. Equating the two is like equating the now-obsolete diagnosis of hysteria with the modern diagnosis of general anxiety disorder simply because they share a common diagnostic criterium» .
Inoltre, «the ADA does not exempt all “gender identity disorders”. Instead, it exempts only “gender identity disorders” not resulting from physical impairments [...] The fact that without medical treatment the Plaintiff experiences physical distress supports the claim that her condition results from a physical source or impairment» . Nello specifico, «the need for hormone therapy may well indicate that her gender dysphoria has some physical basis» .
In definitiva, le pronunce appena esaminate, perfettamente in linea con gli standard medici contemporanei, e rappresentative un importante passo verso la tutela dei diritti delle persone transgender e non binarie, possono fungere da preziosi riferimenti per il nostro sistema giuridico, che, purtroppo, rimane ancora eccessivamente ancorato a una concezione restrittiva della disabilità.
4.2. Alcuni esempi di accomodamenti ragionevoli queer-friendly
Una volta illustrate le argomentazioni a favore dell'ampliamento della sfera di applicazione delle tutele in esame, il passo successivo consiste nel formulare, in termini concreti, esempi di possibili accomodamenti ragionevoli per persone transgender, non binarie e – persino – agender.
In primo luogo, i datori di lavoro dovrebbero fornire ai propri dipendenti bagni gender-neutral, oltre a garantire l'accesso a spogliatoi in linea con la propria identità di genere .
Un'altra componente fondamentale del processo di accomodamento è il rispetto del nome e dei pronomi utilizzati dal dipendente, nonché il loro utilizzo coerente in tutti i contesti professionali; ciò potrebbe includere l'aggiornamento degli indirizzi posta elettronica, dei badge identificativi, e di altri materiali rilevanti con il nome scelto, al fine di rafforzare una cultura di rispetto e reale affermazione .
Ancora, i codici di abbigliamento dovrebbero consentire ai dipendenti di vestirsi in modo da riflettere la loro identità di genere, consentendo loro di sentirsi più autentici ed espressivi. Nel caso in cui l'azienda richieda uniformi specifiche, si dovrebbero preferire colori neutri, come il bianco, il nero o il grigio.
Neppure il ricorso al lavoro agile sarebbe da escludere , ben potendo rivelarsi particolarmente efficace durante il periodo di transizione associato al cambio di sesso. Tale modalità di lavoro flessibile, infatti, permetterebbe all'individuo di bilanciare il bisogno di privacy e, più in generale, il benessere emotivo.
Infine, il datore, nel caso in cui il dipendente presenti specifiche esigenze durante il periodo di convalescenza legate alla transizione, o anche solo qualora la natura delle mansioni espletate possa aggravare la disforia di genere, dovrebbe considerare la modifica, anche temporanea, delle stesse come una soluzione ragionevole, in conformità con l'articolo 2103 del c.c.
Come già detto, tutte queste possibili soluzioni non sembrano imporre al datore di lavoro alcun onere eccessivo e/o sproporzionato.
5. Ulteriori politiche e strumenti di supporto per l’inclusione lavorativa delle persone LGBTQI+
Per quanto riguarda il tema più generico delle politiche volte alla reale inclusione lavorativa dei soggetti LGBTQI+, va innanzitutto menzionata l'individuazione di un ruolo aziendale specifico per le politiche antidiscriminatorie, ovvero il cosiddetto Diversity Manager, forma di gestione incentrata sul riconoscimento e la valorizzazione dell'unicità individuale .
Un'altra area di intervento significativa è la creazione e/o l'implementazione di sportelli di orientamento al lavoro, di supporto e di consulenza legale. Invero, molti degli spazi esistenti, nati dalle associazioni LGBTQ+, potrebbero essere supportati dagli attori collettivi nel fornire servizi essenziali per le persone che cercano di entrare nel mercato del lavoro o che affrontano problemi sul posto di lavoro.
Da un punto di vista istituzionale, sarebbe altamente auspicabile istituire quadri analoghi alla cosiddetta Certificazione della parità di genere introdotta dalla legge n. 162 del 2021, prevedendo incentivi economici e fiscali per coloro che attuano strategie di inclusione.
In una prospettiva ancora più ambiziosa – e forse utopica –, sarebbe opportuno prendere in considerazione l'introduzione di un obbligo per gli enti pubblici e privati di pianificare e attuare programmi finalizzati all'inclusione delle persone LGBTQI+, ispirandosi al modello spagnolo .
Da ultimo, l'istituzione di canali whistleblowing rappresenta un’ulteriore pietra angolare. Tali canali offrono infatti ai dipendenti una piattaforma riservata e sicura per segnalare discriminazioni, molestie o comportamenti non etici sul luogo di lavoro, garantendo l'assenza di ritorsioni. Creando un meccanismo accessibile per esprimere le proprie preoccupazioni, le organizzazioni hanno inoltre la possibilità di adottare misure proattive per contrastare pratiche dannose e promuovere non solo una cultura inclusiva, ma anche di responsabilità e trasparenza.
6. Conclusioni (e un invito al cambiamento)
Quanto esposto indica la necessità di una serie di interventi legali, culturali e organizzativi a favore dei dipendenti che si riconoscono nell’ampio spettro dell’identità queer, termine ombrello coniato dall’attivismo LGBT per rappresentare la diversità di genere e orientamento.
Attualmente, l'assenza di obblighi legali vincolanti per i datori di lavoro di fornire accomodamenti ragionevoli relega le misure descritte nel regno delle pratiche volontaristiche.
Anche laddove gli interventi giudiziari hanno esteso siffatte tutele, come negli Stati Uniti, queste sentenze rimangono spesso casi isolati, evidenziando la pervasiva sottorappresentazione delle esigenze transgender e non binarie nel quadro giuridico.
Senz’altro, l'imposizione di adattamenti ragionevoli attraverso un'azione legislativa, in linea con gli standard internazionali come la Convenzione delle Nazioni Unite e la Direttiva 2000/78/CE, rappresenta un passo fondamentale per colmare questo divario. Tale approccio incarnerebbe infatti una più ampia comprensione bio-psico-sociale dell'inclusione sul posto di lavoro, superando le definizioni restrittive e garantendo a tutti gli individui un trattamento equo.
Tuttavia, sebbene l'associazione della disforia di genere con la disabilità (l’unica via al momento percorribile per estendere le tutele) possa essere complessa e irta di controversie, credo fermamente che tale condizione – e, più in generale, le esperienze delle persone LGBTQ+ – meritino un'attenzione e una comprensione significative, soprattutto considerando la crescente attenzione che anche i giudici italiani stanno ponendo nei confronti del benessere psicologico dei lavoratori .
In altre parole, in una prospettiva de iure condito, il dettato dell’art. 2087 c.c. già oggi impone al datore di lavoro di prevenire situazioni che possano pregiudicare la salute dei propri dipendenti, incluse le condizioni di disagio psico-sociale derivanti da un ambiente ostile e non adatto alle proprie esigenze.
Infine, ma certamente non di minore importanza, affrontare queste problematiche non solo è essenziale per promuovere l'inclusione sul posto di lavoro, ma ha anche implicazioni di vasta portata per lo sviluppo di una società più inclusiva che sostiene la diversità, la dignità e il rispetto per tutti.