testo integrale con note e bibliografia
Premessa.
Tra i fattori di discriminazione, la disabilità presenta alcune caratteristiche che generano questioni teoriche e pratiche specifiche. Senza alcuna pretesa di completezza, queste pagine sono dedicate ad esse.
La prima particolarità è costituita dal fatto che la disabilità, a differenza di altri fattori di discriminazione che riguardano in modo sostanzialmente eguale grandi gruppi, come il genere, la razza, la religione, si presenta diversamente per ogni individuo.
La disabilità cambia da persona a persona in relazione all’aspetto fisico e/o psichico coinvolto e al contesto in cui se ne valutano gli effetti; il suo impatto sulla vita dell’interessato ha infinite sfaccettature di gravità.
Per tale ragione, un primo problema specifico è dato dall’accertamento dell’esistenza stessa di tale fattore di discriminazione, che per altri è, di fatto, inesistente (si pensi alle caratteristiche dell’individuo che solitamente risultano già dai documenti, come genere ed età) o, comunque, più semplice (in tutti i fattori che attengono alla sfera emotiva e/o intellettuale, come la religione, l’orientamento sessuale, le convinzioni personali).
Il problema ha due risvolti: stabilire che cosa sia disabilità rilevante per il diritto antidiscriminatorio e come accertarne l’esistenza nel caso concreto.
Un’ulteriore peculiarità che la disabilità condivide con i fattori che attengono alla sfera emotiva e/o intellettuale è quello del non essere sempre riconoscibile a prima vista, il che crea problemi di accertamento circa l’effettiva configurabilità di una discriminazione indiretta.
Un altro aspetto che caratterizza questo fattore di discriminazione è una significativa rilevanza oggettiva a livello lavorativo.
Pur non potendosi escludere ancora oggi l’esistenza di attività particolarmente pesanti per le quali il corpo femminile non è adeguato, tendenzialmente il fatto in sé di essere donna non incide sulla capacità di lavoro; l’essere madre e padre incide soltanto per le esigenze di cura che porta con sè; l’essere di un’altra razza o nazionalità o l’orientamento sessuale non hanno davvero motivo di rilevanza. Per questi fattori di discriminazione, dunque, la possibilità di una discriminazione indiretta è molto contenuta e, spesso, inesistente e, di fatto, l’esigenza di tutela si manifesta essenzialmente rispetto ad una discriminazione diretta.
La disabilità, al contrario, può spesso rendere oggettivamente difficile e, a volte, impossibile lo svolgimento di un’attività lavorativa o di una o più fasi della stessa. Ciò dipende, ovviamente, dal tipo di disabilità e dal suo rapporto con la natura delle mansioni e il contesto in cui vanno svolte.
A causa di tale aspetto, rispetto a tale fattore la discriminazione indiretta presenta un rischio statistico decisamente maggiore: gli ambienti ed i tempi di lavoro e tutte le regole che governano il rapporto di lavoro, infatti, vengono messi a punto in base alle potenzialità ed alle esigenze di una persona priva di disabilità.
Per questo motivo, benché a volte possano rivelarsi necessari anche in relazione ad altri fattori di discriminazione (si pensi agli adattamenti dell’orario lavorativo per un genitore di figli minori), è soprattutto in relazione alla disabilità che esiste la possibilità di escludere la discriminazione attraverso adattamenti della realtà che disinneschino le conseguenze negative dell’interazione tra disabilità e lavoro.
E infatti, a livello normativo, gli accomodamenti ragionevoli sono espressamente previsti in termini generali ed astratti solo per la disabilità, mentre per gli altri fattori di discriminazione, al di là di specifiche previsioni differenziate (si pensi alle regole a tutela di maternità e paternità), l’unico riferimento normativo generale è costituito dal principio di buona fede e correttezza che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra.
Un ulteriore aspetto che distingue la disabilità dagli altri fattori di discriminazione è il fatto di impegnare massicciamente la solidarietà familiare. L’aiuto al familiare disabile può incidere molto seriamente sulla vita delle persone, generando così il fenomeno della cd. discriminazione per associazione.
Ciò è particolarmente rilevante sotto il profilo lavorativo, in quanto crea situazioni di potenziale discriminazione indiretta per il lavoratore cd. caregiver, che richiedono anch’esse adattamenti finalizzati a consentirgli di assolvere adeguatamente ai suoi compiti di cura.
Il quadro normativo.
Il divieto di discriminazione per disabilità è un concetto relativamente nuovo.
Il diritto antidiscriminatorio europeo, infatti, si era inizialmente concentrato sul fattore di discriminazione costituito dal genere , e ha preso in considerazione la disabilità (all’epoca il termine usato era “handicap”) solo nel 2000, nell’ambito della direttiva 2000/78 che si occupa di discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali .
La tutela odierna contro la discriminazione sulla base della disabilità si fonda su un complesso di fonti di vario contesto efficacemente descritto da Cass 6497/2021 come “un quadro complesso, frutto di successive stratificazioni normative, sovente non coordinate tra loro, di livello interno e internazionale, che sollecitano, per quanto possibile, la funzione nomofilattica della giurisprudenza di legittimità, nella specie resa non agevole dalla concorrenza di fonti composite e multilivello”.
In questa sede è sufficiente ricordare in termini generali che, a livello sovranazionale, la Direttiva 2000/78 stabilisce un quadro generale diretto a garantire l’attuazione del “principio della parità di trattamento” inteso come assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata sui citati fattori discriminanti che, anche grazie agli interventi della Corte di Giustizia Europea, si applica ad ogni aspetto del lavoro, privato e pubblico, anche autonomo.
È in tale ambito che sono stati delineati i concetti generali di discriminazione diretta e indiretta ed i relativi confini e quello, specifico per la disabilità, di “soluzioni ragionevoli” .
La disabilità è considerata anche nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea del 18 dicembre 2000 (Carta di Nizza), che la menziona espressamente laddove sancisce il divieto generale di discriminazioni e contiene anche una disposizione specifica in tema di azioni positive in favore dei disabili .
Alla disabilità è dedicata, poi, la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, adottata il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva dall'Italia con la legge 18/2009 e approvata a nome della Comunità europea con la decisione 2010/48 del Consiglio del 26 novembre 2009 . Essa se ne occupa in termini generali, ma detta anche regole specifiche in merito all’ambito lavorativo ed alla discriminazione ed ha introdotto un concetto innovativo di disabilità che ha influenzato fortemente l’evoluzione successiva della normativa e della giurisprudenza europee e nazionali .
La relazione tra tali fonti sovranazionali in materia di disabilità è ben chiarita dalla CGUE, ormai granitica nell’affermare che la Direttiva 2000/78 concretizza il principio generale di non discriminazione sancito dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che le disposizioni di quest’ultima e della Convenzione ONU possono essere invocate al fine di interpretare quelle della direttiva 2000/78 e che, per quanto possibile, quest’ultima deve essere oggetto di interpretazione conforme ad esse .
In piena sintonia, la giurisprudenza nazionale richiama e fa proprie le predette affermazioni della CGUE e sottolinea anche che “tali assunti– è quasi ovvio dirlo – trovano pieno riscontro nei principi primi della Costituzione, sotto il profilo della tutela dei diritti inviolabili e degli obblighi di solidarietà (art. 2 Cost.)” .
In ambito nazionale l’attenzione alla discriminazione è presente da oltre 50 anni , ma essa è stata rivolta in modo generale alla disabilità solo con il D.lvo 216/2003 di "Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro", più volte modificato anche su impulso europeo , che riprende l’ambito di applicazione ed i concetti di discriminazione diretta e indiretta negli stessi termini di cui alla direttiva . Nel 2022 il divieto di discriminazione per disabilità è stato rafforzato dall’introduzione nella legge n. 104/1992 dell’art. 2 bis, che lo specifica a tutela dei benefici previsti dalla legge stessa .
Il concetto di disabilità nel diritto antidiscriminatorio.
La Direttiva 2000/78 non definisce il concetto di handicap, ma non fa neanche rinvio al diritto degli stati membri per la sua definizione. A fronte di ciò, facendo applicazione della regola consolidata per cui “i termini di una disposizione di diritto comunitario che non contenga alcun espresso richiamo al diritto degli Stati membri per quanto riguarda la determinazione del suo senso e della sua portata devono di norma essere oggetto nell'intera Comunità di un'interpretazione autonoma e uniforme da effettuarsi tenendo conto del contesto della disposizione e della finalità perseguita dalla normativa di cui trattasi” , la CGUE ha sempre affermato che la nozione di handicap di cui alla Direttiva 2000/78 deve essere oggetto di un'interpretazione autonoma e uniforme.
Grazie alla Convenzione ONU, il concetto di disabilità ha subìto una importante evoluzione che ha riguardato anche il concetto di handicap di cui alla direttiva 2000/78 e l’intero diritto antidiscriminatorio.
Fino a quel momento, la CGUE aveva inteso l’handicap come il “limite che deriva, in particolare, da minorazioni fìsiche, mentali o psichiche e che ostacola la partecipazione della persona considerata alla vita professionale” , così seguendo il cd. modello biomedico o medico diagnostico incentrato sul solo deficit psichico o fisico dell’individuo, senza riguardo agli effetti della sua interazione con l’ambiente circostante.
La convenzione ONU ha adottato una concezione diversa, mettendo in evidenza nel preambolo che la disabilità è “un concetto in evoluzione” ed è “il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali e ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società sui base di uguaglianza con gli altri” e stabilendo quindi, all’art. 1, che “per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri”.
A seguito della ratifica della Convenzione da parte dell’Unione europea, dando corpo a quell’interpretazione della direttiva conforme alla Convenzione a cui si è già accennato, la CGUE ha abbracciato anch’essa il cd. modello bio-psicosociale e, da allora, definisce l’handicap di cui alla direttiva 2000/78 come la “limitazione della capacità, risultante, in particolare, da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori” e la giurisprudenza italiana ha aderito pienamente a tale nuova concezione .
Si è trattato di una vera rivoluzione .
Si è preso atto che il contesto reale (sia esso quello naturale, con i suoi adattamenti alle esigenze umane, o quello artificiale, appositamente creato in funzione delle stesse) è impostato per persone prive di disabilità e contiene ostacoli per chi ne sia invece portatore e che, dunque, la disabilità è in buona parte l’effetto di barriere non rimosse dall’ambiente naturale o realizzate costruendo quello artificiale, e si è passati da una concezione della disabilità cd. statica, secondo cui essa riguarda soltanto la persona che ne è portatrice, essendo solo il frutto della sua menomazione, ad una cd. dinamica, incentrata sul rapporto tra la persona e il suo ambiente di riferimento.
In tempi più recenti, la nuova concezione di disabilità è stata adottata anche dal legislatore italiano che, nella legge 227/2021 con cui ha delegato al governo la revisione e il riordino delle disposizioni vigenti in materia di disabilità , ha espressamente previsto l’adozione di una definizione di disabilità coerente con l'articolo 1, secondo paragrafo, della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità.
Il D.lvo 62/2024 che vi ha dato attuazione, in effetti, ha definito la condizione di disabilità come una “duratura compromissione fisica, mentale, intellettiva, del neurosviluppo o sensoriale che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione nei diversi contesti di vita su base di uguaglianza con gli altri” ed ha modificato in modo conforme l’art. 3 della legge 104/1992 .
Il problema dell’accertamento in concreto.
Costituisce punto fermo nella giurisprudenza della CGUE l’affermazione secondo cui il fatto che “la persona interessata sia riconosciuta come persona disabile, ai sensi del diritto nazionale, non comporta a priori che essa sia affetta da un handicap ai sensi della direttiva 2000/78” e che, dunque, spetta al giudice nazionale verificare se la malattia della persona asseritamente vittima di discriminazione rientri effettivamente nella nozione di handicap .
Nessun automatismo, dunque: una persona che è disabile per il diritto interno può non risultare tale ai fini del diritto antidiscriminatorio e viceversa.
Tale accertamento costituisce spesso un passaggio complesso della valutazione circa la configurabilità di una discriminazione vietata.
Come si è accennato, infatti, il fatto che la disabilità si presenti diversamente per ogni individuo in relazione all’aspetto fisico e/o psichico coinvolto e al contesto in cui se ne valutano gli effetti ne impone uno specifico accertamento individuale.
Il problema si pone, in particolare, quando la limitazione della capacità deriva da una malattia, cioè da un’alterazione dell’ordinario stato psico-fisico della persona, dovendosi allora comprendere se, oltre a quest’ultima, sia configurabile anche una vera e propria disabilità .
A livello teorico, le indicazioni fornite dalla giurisprudenza eurounitaria e nazionale sono chiare.
La disabilità, infatti, include la “condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata” .
Ad essere determinante, dunque, non è la prospettiva relativa alla curabilità della malattia, bensì quella temporale inerente alla limitazione di capacità che ne deriva.
Le indicazioni della CGUE sono puntuali anche sotto quest’ultimo profilo: basandosi sugli elementi obiettivi a sua disposizione, “in particolare sui documenti e sui certificati concernenti lo stato di tale persona, redatti sulla base di conoscenze e dati medici e scientifici attuali”, il giudice deve ricercare gli indizi che consentano di considerare duratura una limitazione della capacità quali sono, in particolare, “la circostanza che, all’epoca del fatto asseritamente discriminatorio, l’incapacità dell’interessato non presentava una prospettiva ben delimitata di superamento nel breve periodo o il fatto che tale incapacità poteva protrarsi in modo rilevante prima della guarigione di tale persona” . Esse sono state tutte riprese dalla giurisprudenza italiana .
La centralità della menomazione fisica, mentale, intellettiva nella nozione di disabilità colloca l’accertamento in un contesto esterno alle specifiche competenze dell’imprenditore e del giudice che, in molti casi, devono ricorrere, rispettivamente, all’aiuto del medico competente e di un CTU che valutino la configurabilità dei predetti caratteri della disabilità nella situazione concreta.
Sotto questo profilo sarà necessario riflettere sui possibili effetti della introduzione da parte del D.lvo 62/2024 di un “procedimento unitario volto al riconoscimento della condizione di disabilità” e di un successivo “procedimento di valutazione multidimensionale” basato su un modello bio-psico-sociale e finalizzato alla redazione di un progetto di vita diretto a realizzare gli obiettivi della persona con disabilità .
La già richiamata affermazione della CGUE secondo cui la configurabilità di una disabilità per il diritto nazionale non è automaticamente tale ai fini della direttiva 2000/78, infatti, deve ora fare i conti con la circostanza che la nozione di disabilità adottata dal d.lvo 62/24 che forma oggetto di tale procedimento unitario di valutazione è quella stessa della convenzione ONU, su cui è ormai incentrata anche la Direttiva 2000/78.
Pur lasciando al giudice la facoltà di discostarsene in un senso o nell’altro, dunque, il margine di una tale possibilità si prospetta, in concreto, molto ridotto.
La discriminazione indiretta per disabilità.
La discriminazione diretta non presenta reali peculiarità rispetto al regime generale accennato nel cap. 1 che richiedano di essere qui menzionate.
Il discorso è ben diverso per la discriminazione indiretta.
Ogni aspetto della realtà e della vita sociale, infatti, viene impostato o adattato dall’uomo avendo in mente la persona dotata di tutte le abilità ordinarie. Ciò accade regolarmente anche nel contesto lavorativo oggetto delle presenti riflessioni, in cui ogni profilo del lavoro è organizzato in funzione del migliore risultato produttivo da parte di chi non ha disabilità.
Quando la disabilità cozza con una o più di queste caratteristiche del contesto in cui si vive e/o opera, la situazione può mettere la persona con disabilità in una posizione di particolare svantaggio rispetto agli altri lavoratori, risultando così idonea a realizzare una discriminazione indiretta della persona che ne è portatrice che rende necessaria la ricerca di quegli adattamenti che possano disinnescarla che vengono denominati accomodamenti ragionevoli.
Come si è accennato, ciò è molto più raro su altri fronti.
Non si vede, infatti, quale possibile rilevanza abbiano razza, religione, orientamento sessuale del lavoratore ai fini del risultato produttivo e, dunque, nell’impostazione dell’ambiente e dell’organizzazione del lavoro. Rispetto a tali fattori, la discriminazione indiretta e l’esigenza di accomodamenti ragionevoli sono decisamente residuali .
Ambiente di lavoro e organizzazione lavorativa, d’altronde, sono influenzati molto raramente dal genere o dall’età del personale o dalle convinzioni personali: sono ormai rare mansioni tipicamente femminili o maschili o che possano essere svolte solo da personale di una certa fascia di età, mentre le convinzioni personali possono essere rilevanti soltanto nelle organizzazioni di tendenza. In tale ambito, il rischio di discriminazione indiretta e l’esigenza di accomodamenti ragionevoli riguardano essenzialmente orario e luogo di lavoro di chi ha figli di cui prendersi cura, pur potendosi ipotizzare la necessità di qualche ausilio per lo svolgimento da parte delle donne di mansioni che richiedono particolare forza fisica.
La nozione ed i requisiti degli accomodamenti ragionevoli.
Il fatto che, pur a fronte di una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri che pongono il lavoratore con disabilità in una posizione di particolare svantaggio, la discriminazione possa essere esclusa dall’adozione di accomodamenti ragionevoli attribuisce a tale istituto un ruolo evidentemente centrale nel discorso antidiscriminatorio.
Il concetto di accomodamento ragionevole esordisce nella Direttiva 2000/78 che, all’art. 5 intitolato “soluzioni ragionevoli per i disabili” , prevede che «per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l'onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili». Il considerando 20 ne specifica il concetto in termini di “misure appropriate, ossia misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell'handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento”.
La convenzione ONU, all’art. 2, utilizza il concetto di “accomodamento ragionevole” laddove afferma che la discriminazione fondata sulla disabilità “include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole” , quindi lo definisce riconducendo ad esso “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali.
Nel dare attuazione alla Direttiva 2000/78, il D.lvo 216/2003 ha inizialmente trascurato questo aspetto e, per questo, l’Italia è stata condannata dalla CGUE ; nell’art. 3 è stato quindi introdotto il comma 3 bis, che stabilisce "Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all'attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie, e strumentali disponibili a legislazione vigente".
A ben vedere, nel nostro ordinamento l’accomodamento ragionevole ha già un fondamento normativo nella stessa Costituzione: esso, infatti, non è altro che una declinazione di quel “rimuovere gli ostacoli” che impediscono “il pieno sviluppo della persona umana” con cui l’art. 3 si prefigge di raggiungere l’obiettivo dell’uguaglianza sostanziale.
Il concetto era già in qualche modo presente al legislatore italiano che, di fatto, aveva previsto delle forme di accomodamento ragionevole all’art. 10 legge 68/1999 e ne ha ancora previste successivamente sia all'art. 42 del D.lvo 81/2008 , sia all’art. 1 del D.lvo 151/2015 .
Benché non specificamente qualificati come tali, d’altronde, nella sostanza sono accomodamenti ragionevoli tutte le misure di prevenzione rafforzata e personalizzata che il datore di lavoro deve adottare rispetto al lavoratore disabile in ottemperanza all’obbligo di tutela della salute di cui all’art. 2087 c.c. .
L’accomodamento ragionevole, da ultimo, ha acquistato un ruolo centrale nel D.lvo 62/2024 che lo introduce e regola in relazione ad ogni aspetto della vita della persona disabile, inserendolo nella legge 104/1992 con una previsione applicabile ad ogni ambito, compreso quello lavorativo .
L’istituto degli accomodamenti ragionevoli pone varie questioni sia a chi, operando in prima linea nella realtà lavorativa, deve darvi attuazione per evitare l’insorgere della discriminazione, sia al giudice chiamato a valutare a posteriori la sussistenza di quest’ultima ed apprestare la relativa tutela: individuare se esistono e quali sono e decidere se sono esigibili, in quanto risultano ragionevoli e non comportano un onere sproporzionato. Al giudice spetta anche il compito di valutare se gli accomodamenti ragionevoli che non sono stati adottati, nonostante rispettassero tali condizioni, fossero anche esigibili dal punto di vista soggettivo, indagando il profilo della conoscenza o conoscibilità della disabilità da parte del datore di lavoro.
Sono tutte questioni da affrontare di volta in volta, nel caso concreto, in relazione alle caratteristiche specifiche della disabilità e del contesto in cui essa va considerata.
Lo sottolinea la giurisprudenza, laddove afferma che l’accomodamento ragionevole “postula per sua natura un’interazione fra una persona individuata, con le sue limitazioni funzionali, e lo specifico ambiente di lavoro che la circonda, interazione che, per la sua variabilità, non ammette generalizzazioni” e che il legislatore, consapevole dell'impossibilità di una tipizzazione delle condotte prescrivibili, “ha deliberatamente scelto di trasporre nell'ordinamento interno la formula delle fonti sovranazionali, in dichiarata attuazione della direttiva n. 78/2000/CE, affidandosi ad una nozione a contenuto variabile - categoria dogmatica estesa, nell'ambito della quale possono variamente collocarsi clausole generali, norme elastiche, concetti giuridici indeterminati, finanche i principi - che ha come caratteristica strutturale proprio l'indeterminatezza” . È stato così “conferito all'interprete il compito di individuare lo specifico contenuto dell'obbligo, guidato dalle circostanze del caso concreto”, lasciando ovviamente al giudice di legittimità il suo compito di “fornire criteri di giudizio anche nei casi in cui il contenuto indeterminato della norma è destinato a misurarsi con la variabilità del reale, onde comunque orientare l'attività degli interpreti”, siano essi l’”operatore che deve conformare la propria condotta al parametro normativo” oppure “il giudice che è chiamato a dirimere la contesa eventualmente insorta”.
Il considerando 20 della Direttiva 2000/78, come si è visto, offre una traccia a chi debba valutare se esistono accomodamenti ragionevoli e quali, facendo riferimento ad alcuni ambiti specifici quali la sistemazione dei locali, l’adattamento delle attrezzature, dei ritmi di lavoro, della ripartizione dei compiti, la fornitura di mezzi di formazione o l’inquadramento, ma la CGUE ha chiarito che si tratta di un elenco non tassativo di provvedimenti appropriati, tra i quali rientrano tutti quelli di ordine fisico, organizzativo e/o formativo che conducono all'eliminazione delle barriere di diversa natura che ostacolano la piena ed effettiva partecipazione dei disabili alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori .
Un ausilio importante è fornito anche dal documento intitolato “Soluzioni ragionevoli sul lavoro – orientamenti e buone prassi” pubblicato nel 2024 dalla Direzione generale per l’Occupazione, gli Affari sociali e l’Inclusione della Commissione europea in attuazione della Strategia per i diritti delle persone con disabilità 2021-2030, che contiene linee guida sulla nozione di accomodamenti, sui loro obiettivi e sugli obblighi connessi, nonché sulle azioni pratiche che consentono di adempiervi .
È evidente il ruolo centrale rivestito in questo campo dal medico competente, che conosce la specifica situazione di ciascun lavoratore ed ha le conoscenze scientifiche necessarie a valutare, oltre all’esistenza ed alla gravità della disabilità, anche cosa serve a rimuovere o attenuare gli ostacoli derivanti dalla sua interazione con lo specifico ambiente di lavoro e lo svolgimento dell’attività lavorativa.
Non meno importante è il coinvolgimento del diretto interessato.
Imposto comunque dal buon senso, esso è divenuto un preciso obbligo normativo con il D.lvo 62/2024, che ha espressamente previsto la facoltà del lavoratore con disabilità di chiedere accomodamenti ragionevoli e formulare una proposta, la sua partecipazione al procedimento di individuazione e la preferenza per la proposta dell’interessato .
La normativa sottopone l’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli a due condizioni: la prima, positiva, è che siano appunto ragionevoli e la seconda, negativa, che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo. Si tratta, guardandoli da un’altra prospettiva, di due limiti alla possibilità di configurare una discriminazione indiretta pur a fronte della possibilità materiale di porre in essere comportamenti in grado di ridurre o eliminare lo svantaggio in cui si trova il lavoratore disabile.
Si tratta di requisiti distinti, che vanno valutati in modo autonomo .
Il concetto di ragionevolezza viene specificato dai vari testi normativi di riferimento con espressioni in parte diverse, ma comunque coerenti: la direttiva parla di provvedimenti “appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete” ed il considerando 20 di misure “appropriate, ossia misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell'handicap”; la Convenzione ONU (alla cui definizione rinvia il d.lvo 216/2003) fa riferimento a modifiche e adattamenti “necessari ed appropriati”; il nuovo art 5 bis della legge 104/1992 parla di misure e adattamenti “necessari, pertinenti, appropriati e adeguati rispetto all'entità della tutela da accordare e alle condizioni di contesto nel caso concreto”.
La giurisprudenza italiana di legittimità ha ricordato che il criterio della ragionevolezza, tradizionalmente utilizzato nei giudizi di legittimità costituzionale come controllo di razionalità della legge, è anche “forma di osservanza del "canone di correttezza e buona fede che presidia ogni rapporto obbligatorio contrattuale ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c." e risulta "immanente all'intero sistema giuridico, in quanto riconducibile al dovere di solidarietà fondato sull'art. 2 Cost.", sottolineando di aver sempre imposto la verifica di ragionevolezza in tutti i casi in cui si debba stabilire una comparazione dei diritti e delle aspettative in materia di lavoro.
La connotazione della ragionevolezza come espressione dei più ampi doveri di buona fede e correttezza nei rapporti contrattuali consente di fare capo alla giurisprudenza che identifica queste ultime come “fonte di integrazione del comportamento dovuto che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del neminem laedere”, con l’unico limite che “essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico”.
Si tratta, in pratica, di compiere una valutazione comparata di tutti gli interessi in gioco, al fine di ottenere un “bilanciato contemperamento degli interessi giuridicamente rilevanti delle parti coinvolte: l'interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente con il suo stato fisico e psichico, in una situazione di oggettiva ed incolpevole difficoltà; poi l'interesse del datore a garantirsi comunque una prestazione lavorativa utile per l'impresa”, tenendo conto dell'art. 23 Cost. e del considerando 17 della Direttiva 2000/78 , ed anche l’interesse degli altri lavoratori eventualmente coinvolti in maniera diretta o indiretta dalla modifica organizzativa.
All'esito di tale valutazione comparata, “potrà dirsi ragionevole ogni soluzione organizzativa praticabile che miri a salvaguardare il posto di lavoro del disabile in un'attività che sia utile per l'azienda e che imponga all'imprenditore, oltre che al personale eventualmente coinvolto, un sacrificio che non ecceda i limiti di una tollerabilità considerata accettabile secondo "la comune valutazione sociale” di tale formula”.
L’unica indicazione della Direttiva in merito al secondo limite è data dall’art. 5, laddove afferma che l’accomodamento non è sproporzionato “allorché l'onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili” .
Il considerando 21 offre qualche elemento in più, specificando che, “per determinare se le misure in questione diano luogo a oneri sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni”.
In concreto.
Le occasioni in cui possono rendersi necessari accomodamenti ragionevoli per annullare o, quantomeno, compensare lo svantaggio che deriva dall'interazione dell'organizzazione esistente con l'insorgere di una disabilità o il suo aggravamento ovvero l’impatto di una nuova organizzazione su disabilità già esistenti sono innumerevoli e riguardano ogni aspetto del rapporto lavorativo. Spesso, oltre alla finalità di realizzare una sostanziale parità di trattamento, gli interventi hanno anche e prima di tutto una funzione di tutela della salute e della sicurezza.
Ad essere discriminatoria può essere la mancata adozione in sé dell'accomodamento ragionevole, che lascia il lavoratore nella situazione di particolare svantaggio in cui è venuto a trovarsi a causa dell’insorgere o dell’aggravarsi della disabilità, sia stata o meno preceduta da una richiesta dell’interessato.
Essa può rimanere una mera omissione che viene in rilievo in un momento successivo, ad esempio come fondamento di una domanda risarcitoria , oppure può essere formalizzata in un vero e proprio rifiuto, come ad esempio il diniego di concedere ad un dipendente con gravi deficit visivi lo smart working presso l’abitazione con fornitura di idonea strumentazione e formazione oppure il rifiuto di trasferire in una sede più vicina un lavoratore al quale la disabilità rendeva particolarmente gravoso il lungo tragitto giornaliero in auto, motivato dall’assenza in detto luogo di mansioni compatibili con le sue limitazioni .
Vi è poi la discriminazione integrata da un comportamento del datore di lavoro - sia esso rivolto alla generalità dei lavoratori, oppure relativo al singolo interessato – che, esso stesso, colloca il lavoratore disabile in una situazione di particolare svantaggio, in quanto non viene accompagnato dall’adozione del necessario accomodamento ragionevole.
Essa è ravvisabile, ad esempio, nel mancato riconoscimento dell’indennità di presenza per i giorni di assenza imputabili a permesso ex legge n. 104/1992 o nell’attribuzione al centralinista non vedente con oggettiva limitazione della capacità di spostamento di buoni pasto di fatto non utilizzabili, perché non accettati né dalla mensa interna, né da alcun esercizio commerciale sito nelle immediate vicinanze dell'Ufficio o comunque raggiungibile da parte dell'interessato .
La discriminazione del portatore di disabilità è stata ipotizzata anche nell’ambito della mobilità territoriale dei docenti nel criterio apparentemente neutro della priorità della mobilità endoprovinciale rispetto a quella tra province stabilito dall’art. 13 del C.C.N.I. mobilità 2017/2018 che, di fatto, determina una sensibile riduzione dei posti disponibili in cui il docente disabile può valere il suo diritto di precedenza ai sensi dell’art. 21 della legge n. 104/1992 .
Ne sono esempi particolarmente problematici le vicende che riguardano la fase genetica del rapporto .
Benché affermi senza incertezze che gli accomodamenti ragionevoli riguardano “ogni fase del rapporto di lavoro, da quella genetica sino a quella della sua risoluzione” , infatti, la giurisprudenza non si è ancora consolidata in merito alla questione se l’obbligo sussista o no già prima dell’assunzione, quando cioè il rapporto non è ancora costituito.
Alcune decisioni hanno escluso la discriminazione a fronte del rifiuto di assumere una persona risultata idonea con limitazioni alla visita preassuntiva senza aver prima verificato se vi fossero accomodamenti ragionevoli da porre in essere , mentre altre l’hanno configurata .
Costituiscono ipotesi di particolare rilevanza, non solo per l'incidenza che hanno sul rapporto di lavoro, ma anche a livello statistico, e che hanno particolarmente impegnato e stanno ancora impegnando la giurisprudenza anche le vicende risolutive del rapporto che, per varie ragioni, trovano il loro presupposto nella mancata adozione di un accomodamento ragionevole.
Le vicende più frequenti sono quelle del licenziamento per inidoneità sopravvenuta e per superamento del periodo di comporto, a cui verranno dedicati i prossimi due paragrafi, ma meritano un cenno anche altre situazioni in cui il licenziamento costituisce in qualche modo la conseguenza della mancata adozione dell’accomodamento ragionevole.
Tra i vari effetti dell’inadempimento all’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli, in effetti, c'è anche quello di legittimare un'eccezione di inadempimento in capo al lavoratore disabile interessato, ovviamente ove sussistano le condizioni di cui all'articolo 1460 c.c. .
In tal caso, la giurisprudenza qualifica come discriminatorio il licenziamento disciplinare intimato in relazione al comportamento in cui l'eccezione di inadempimento si è concretizzata, facendo applicazione anche ad esso dei “principi di necessaria attivazione della procedura diretta all'individuazione di possibili accomodamenti ragionevoli in ragione dell'accertata e conosciuta condizione disabilità del dipendente” messi a punto per il licenziamento per idoneità fisica sopravvenuta .
Ciò è accaduto, ad esempio, a fronte del rifiuto del lavoratore disabile di prendere servizio in una sede che aggravava le sue condizioni di lavoro o del rifiuto di svolgere compiti aggiuntivi incompatibili con un impegno lavorativo già costantemente gravoso ed ostativi al recupero delle energie psicofisiche ed alla cura degli interessi familiari del medesimo .
Il nesso con l’inadempimento all’obbligo di adottare un accomodamento ragionevole, d’altronde, può giustificare la denuncia di discriminatorietà anche per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ove si collochi tra i presupposti di fatto del medesimo .
In particolare, il licenziamento per inidoneità sopravvenuta.
I principi del diritto antidiscriminatorio e, prima ancora, quelli di solidarietà e di buona fede e correttezza nell'ambito dei rapporti contrattuali impongono al datore di lavoro di ricercare soluzioni ragionevoli anche quando sussistono le condizioni per un licenziamento per inidoneità sopravvenuta alle mansioni .
La necessità che il datore di lavoro, prima di procedere al licenziamento, esplori la possibilità di conservare il suo posto di lavoro, in realtà è già prevista a livello normativo: dall’art. 10 comma 3 legge 68/1999 per i soggetti assunti come invalidi ai fini del collocamento obbligatorio , dall’4 comma 4 della stessa legge per i lavoratori che divengono inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia e, in generale, dall'art. 42 del d. lvo. 81/ 2008 .
La giurisprudenza italiana già molti anni fa si interrogava sulla configurabilità di un obbligo datoriale di repéchage, anche in mansioni inferiori, del dipendente inidoneo alla mansione e, a partire da S.U. n. 7755/1998, si è consolidata nel senso che” La sopravvenuta infermità permanente e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa, quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato (artt. 1 e 3 l. n. 604 del 1966 e 1463, 1464 cod. civ.), non è ravvisabile nella sola ineseguibilità dell'attività attualmente svolta dal prestatore, ma può essere esclusa dalla possibilità di altra attività riconducibile - alla stregua di un'interpretazione del contratto secondo buona fede - alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti (art. 2103 cod. civ.) o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purché essa attività sia utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore”.
Benché all’epoca la normativa eurounitaria e nazionale non contenesse ancora disposizioni in tema di discriminazione per disabilità, di fatto, tale orientamento conteneva già l’essenza del discorso relativo agli accomodamenti ragionevoli, laddove si affermava che“la sopravvenuta inidoneità ad una certa attività, dev'essere valutato, quanto alle sue conseguenze, in relazione agli obblighi di cooperazione dell'imprenditore- creditore, così tenuto non soltanto a predisporre gli strumenti materiali necessari all'esecuzione del lavoro ma anche ad utilizzare appieno le capacità lavorative del dipendente nei limiti dell'oggetto del contratto” e – valorizzando, da un lato, le peculiarità del contratto di lavoro e, dall’altro, la libertà di iniziativa economica dell'imprenditore, garantita dall'art. 41 della Costituzione - si precisava che “l'assegnazione del lavoratore, divenuto fisicamente inidoneo all'attuale attività, ad attività diverse e riconducibili alla stessa mansione, o ad altra mansione equivalente, o anche a mansione inferiore, può essere rifiutata legittimamente dall'imprenditore se comporti aggravi organizzativi e in particolare il trasferimento di singoli colleghi dell'invalido” .
In tempi più recenti, il discorso si è arricchito del profilo antidiscriminatorio.
Si è infatti preso atto che l'impossibilità di ricollocare il disabile, adibendolo a diverse mansioni comunque compatibili con il suo stato di salute, non esaurisce gli obblighi del datore di lavoro che intenda licenziare il dipendente inidoneo in quanto, ove ricorrano i presupposti di applicabilità dell'art. 3, co. 3 bis, d. lvo 216/2003, questi dovrà comunque ricercare possibili "accomodamenti ragionevoli" che consentano il mantenimento del posto di lavoro, in una ottica di ottimizzazione delle tutele giustificata dall'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale .
Ove il lavoratore deduca e provi anche l’esistenza di una disabilità secondo il diritto dell’Unione , dunque, per provare la sussistenza delle giustificazioni del recesso ai sensi dell'art. 5 l. n. 604/1966, il datore di lavoro deve dimostrare sia il sopravvenuto stato di inidoneità del lavoratore, sia la mancanza in azienda di posti disponibili in cui ricollocarlo (eventualmente anche con mansioni inferiori, purché compatibili con il suo stato di salute, come in caso di ordinario obbligo di repêchage), sia “l'impossibilità di adottare accomodamenti organizzativi ragionevoli, i quali, senza comportare oneri finanziari sproporzionati, siano idonei a contemperare, in nome dei principi di solidarietà sociale, buona fede e correttezza, l'interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente alla sua condizione psico-fisica con quello del datore a garantirsi una prestazione lavorativa utile all'impresa” .
In particolare, il datore di lavoro può assolvere al proprio onere probatorio deducendo il compimento di “atti o operazioni strumentali rispetto all'avveramento dell'accomodamento ragionevole, che assumano il rango di fatti secondari di tipo indiziario o presuntivo, i quali possano indurre nel giudicante il convincimento che il datore abbia compiuto uno sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata che scongiurasse il licenziamento, avuto riguardo a ogni circostanza rilevante nel caso concreto” e anche dimostrando che “eventuali soluzioni alternative, pur possibili, fossero prive di ragionevolezza, magari perché coinvolgenti altri interessi comparativamente preminenti, ovvero fossero sproporzionate o eccessive, a causa dei costi finanziari o di altro tipo ovvero per le dimensioni e le risorse dell'impresa” .
È stato anche chiarito che non spetta “al lavoratore, o tanto meno al giudice, individuare in giudizio quali potessero essere le possibili modifiche organizzative appropriate e ragionevoli idonee a salvaguardare il posto di lavoro, sovvertendo l'onere probatorio e richiedendo una collaborazione nella individuazione degli accomodamenti possibili non prevista neanche per il repéchage ordinario in mansioni inferiori” , richiamando le ragioni che hanno condotto negli ultimi anni a rimeditare l’orientamento più risalente, che pretendeva dal lavoratore l’allegazione dell'esistenza di altri posti nei quali egli potesse essere utilmente ricollocato e fare applicazione dei principi generali che regolano il riparto degli oneri di allegazione e prova nell’adempimento delle obbligazioni, così come stabiliti da Cass. SS. UU. n. 13533 del 2001.
Il coinvolgimento del diritto antidiscriminatorio ha introdotto anche una diversificazione delle tutele per i lavoratori a cui si applica l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori: se il lavoratore allega e prova la disabilità, infatti, il mancato assolvimento da parte del datore dei suoi oneri di allegazione e prova comporta la tutela reintegratoria piena prevista dal comma 1; se invece il lavoratore non allega o, comunque, non prova la disabilità, la tutela è quella reintegratoria attenuata di cui ai commi 4 e 7 .
La tutela non cambia, invece, nel regime di cui al D.lvo 23/2015 il quale, all’art. 2 comma 4, per le ipotesi in cui il giudice accerta il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore prevede la stessa tutela reintegratoria piena prevista dal comma 1 per il licenziamento discriminatorio.
In particolare, il licenziamento per superamento del comporto.
Come ha efficacemente osservato la Corte di Cassazione, l'istituto del comporto, essendo riconducibile a quel “punto di equilibrio fra l'interesse del lavoratore a disporre d'un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia o infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all'organizzazione aziendale” astrattamente predeterminato nell'art. 2110, comma 2, c.c. è esso stesso, nella sostanza, un accomodamento ragionevole .
Il profilo discriminatorio entra in gioco quando la malattia che determina le assenze è collegata ad una situazione di disabilità, nella sua accezione eurounitaria già esaminata.
In tal caso, il comporto non risulta più sufficiente a garantire il predetto equilibrio: la considerazione che il lavoratore disabile è maggiormente esposto al rischio di rimanere assente per malattia - sia questa espressione o conseguenza della sua disabilità - conduce infatti a ritenerlo meritevole di un trattamento differenziato e, dunque, a ritenere idonea ad integrare discriminazione indiretta l'applicazione di un unico periodo di comporto a tutti i lavoratori, disabili o no.
Il concetto appena riassunto è ormai un punto fermo nella giurisprudenza interna.
Esso trova il proprio antecedente europeo nella sentenza HK Danmark già citata e nella sentenza del 18 gennaio 2018 C 270/16, Ruiz Conejero in cui la CGUE, partendo appunto dalla considerazione della maggiore esposizione del lavoratore disabile al rischio di vedersi applicare norme che valorizzano le assenze per malattia, pur riconoscendo la finalità legittima delle stesse , ha ritenuto che tali norme sono idonee a svantaggiare il lavoratore disabile e, dunque, ad integrare discriminazione indiretta per disabilità, rimettendo al giudice interno di valutare la sussistenza delle altre due condizioni previste dall'articolo 2 lett. b) della direttiva 2000/78 e cioè se i mezzi impiegati per il conseguimento della finalità siano adeguati e non eccedano quanto necessario.
La giurisprudenza italiana ha ripreso tale concetto applicandolo alle previsioni collettive nazionali sul comporto, laddove non presentano alcuna distinzione per i disabili.
In tale contesto è stato affrontato anche il tema del comportamento alternativo che possa escludere la discriminazione attraverso l’adozione di accomodamenti ragionevoli.
Sin dalla prima pronuncia è stato chiaro che configurare la discriminazione a fronte di un comporto indifferenziato “non significa che un limite massimo in termini di giorni di assenza per malattia del lavoratore disabile non possa o non debba essere fissato”, ma solo che la legittima finalità di contrasto all'”eccessiva morbilità dannosa per le imprese” che hanno tali previsioni “deve essere attuata con mezzi appropriati e necessari e quindi proporzionati” e bisogna tenere conto dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili. La necessaria considerazione dell’interesse protetto dei lavoratori disabili, in bilanciamento con la legittima finalità di politica occupazionale, richiede dunque l’individuazione di soluzioni ragionevoli .
La CGUE si è specificamente pronunciata in relazione a tale problematica italiana nella sentenza 11 settembre 2025, causa C-5/24 P.M.
La Corte ha ribadito la centralità, nell’ambito della verifica circa la sussistenza di una discriminazione, della considerazione che il lavoratore disabile “corre un rischio maggiore di accumulare giorni di assenza per malattia” ed ha affermato che, per tale motivo, la regola sottoposta alla sua attenzione “è idonea a svantaggiare i lavoratori disabili”, ma ha poi rimesso al giudice interno l’ultima parola sulla questione se l’applicazione uniforme della disciplina sul comporto, senza tener conto di un’eventuale disabilità, possa portare un particolare svantaggio al lavoratore disabile.
A tale riguardo ha sottolineato che “non discende né dall’espressione «particolare svantaggio», utilizzata all’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78, né da altre precisazioni contenute in tale articolo che il suddetto svantaggio sussisterebbe soltanto in presenza di un caso grave, manifesto e particolarmente rilevante di disuguaglianza. Tale nozione dev’essere intesa nel senso che sono precisamente le persone tutelate da tale direttiva, tra le quali figurano i lavoratori disabili, che si trovano svantaggiate a causa della disposizione, del criterio o della prassi di cui trattasi …L’esistenza di un siffatto particolare svantaggio potrebbe quindi essere dimostrata, segnatamente, se fosse provato che detta disposizione, detto criterio o detta prassi colpiscono negativamente in proporzione significativamente maggiore i lavoratori disabili rispetto a coloro che non lo sono. Spetta al giudice del rinvio valutare se ciò avvenga nel procedimento principale .
Alla luce del già citato considerando 17 della direttiva, la sentenza ha ritenuto legittima la finalità di politica sociale di porre fine ad un rapporto di lavoro divenuto non redditizio, attribuita alle previsioni sul comporto, ed anche che il mantenimento del posto di lavoro per un certo lasso di tempo rende il mezzo adeguato.
La Corte ha invece rimesso al giudice nazionale di valutare se la normativa in questione ecceda o meno quanto necessario per conseguire la finalità legittima, specificando che ciò deve avvenire collocandola “nel contesto in cui essa si inserisce”, prendendo in considerazione “il danno che può causare alle persone interessate” e verificando se l’ordinamento nazionale contiene “disposizioni specifiche dirette a tutelare e persone disabili e che siano idonee ad impedire e a compensare gli svantaggi derivanti dalla disabilità, compresa l’eventuale insorgenza di malattie legate alla disabilità”.
A tale riguardo la Corte ha fatto cenno al profilo della durata del comporto , che era stato evidenziato dal giudice del rinvio e, come esposto nelle conclusioni dell’Avvocato generale del 3 aprile 2025, è stato ripreso dal governo italiano come segno che il comporto è già strutturato per tutelare il lavoratore anche contro assenze dovute a una disabilità, e non solo a semplice malattia comune, “atteso che è rarissimo che una malattia, in assenza di disabilità, e al di fuori delle malattie oncologiche non a caso trattate diversamente, perduri per un periodo così lungo”, e che, dunque, “la normativa italiana, per semplicità, sarebbe modellata su un termine più ampio, in base al criterio, logico prima che giuridico, che «il più contiene il meno»” .
A differenza che nei casi precedenti, essendole stata sottoposta la questione, la CGUE ha anche specificamente affermato che il fatto che le norme sul comporto non prevedono l’obbligo del datore di adottare soluzioni ragionevoli prima di procedere al licenziamento del lavoratore disabile che abbia raggiunto il limite di giorni di assenza per malattia previsto dalla norma contrattuale è tale da pregiudicare l’effetto utile dell’articolo 5 della direttiva e l’obiettivo di inserimento professionale delle persone con disabilità di cui all’articolo 26 della Carta di Nizza.
Sentite la voce dell’Europa, ora spetta alla giurisprudenza italiana di riprendere il discorso, ponendo in essere le valutazioni rimessele dalla CGUE sull’effettiva idoneità dello svantaggio che deriva al disabile dall’applicazione di un comporto indistinto ad integrare una discriminazione indiretta, e sull’esistenza o meno di un contesto normativo che, disinnescando tale svantaggio, possa far ritenere che, anche nei confronti dei disabili, il comporto comunque non eccede quando necessario a realizzare la sua legittima finalità.
Le prime riflessioni a caldo in merito al primo profilo non possono che partire dal fatto che la CGUE, pur affermando in linea generale che il comporto indifferenziato è idoneo a svantaggiare i lavoratori disabili, ha lasciato l’ultima parola al giudice interno. Ciò rende necessario un ripensamento del procedimento decisionale finora seguito: non sembra più possibile ritenere sufficiente ad integrare discriminazione il fatto in sé che la contrattazione collettiva prevede un unico comporto indifferenziato, dovendosi valutare anche se quest’ultimo, in concreto, genera un particolare svantaggio per il lavoratore disabile.
Il primo interrogativo che ne deriva riguarda l’ambito in cui deve avvenire tale valutazione: essa deve comunque riguardare il complesso indistinto dei lavoratori disabili o bisogna spostare l’attenzione alla singola situazione?
Il riferimento della sentenza P.M. alla prova che la disposizione, il criterio o la prassi in discussione “colpiscono negativamente in proporzione significativamente maggiore i lavoratori disabili rispetto a coloro che non lo sono”, a prima vista, sembra favorire la prima soluzione.
È soltanto guardando alla concreta relazione esistente tra assenze e disabilità, tuttavia, che è possibile perseguire effettivamente il contemperamento dei contrapposti interessi in gioco sottolineato dalla Corte, laddove ha ritenuto legittima la finalità delle previsioni sul comporto e adeguato il mezzo con cui viene perseguita. Lo svantaggio che deriva al dipendente disabile da un comporto indifferenziato, in effetti, è dovuto al fatto che esso venga “consumato” da assenze legate alla disabilità ed è direttamente proporzionale alla quantità di esse. È dunque necessario trovare una soluzione che prenda in considerazione anche l’ipotesi in cui tutte o molte delle assenze del lavoratore disabile non siano dovute alla disabilità .
Solo entrando nel merito delle assenze, pertanto, è possibile verificare l’effettiva esistenza di uno svantaggio e valutare se esso può considerarsi “particolare”.
L’affermazione della sentenza P.M., in realtà, non è incompatibile con tale opzione: essa, infatti, si limita a valorizzare l’idoneità del dato statistico che deriva dall’alleggerimento dell’onere della prova sancito dalla direttiva 2000/78 per il giudizio discriminatorio.
A parere di chi scrive, dunque, vi sono buone ragioni per ritenere che, a fronte dell’impugnazione come discriminatorio del licenziamento per superamento del periodo di comporto di un lavoratore portatore di disabilità, il giudice possa e debba indagare la configurabilità in concreto di una violazione della parità di trattamento con specifico riguardo al caso sottopostogli, andando a cercare, in particolare, il rapporto tra durata del comporto applicato al lavoratore e numero di assenze legate alla disabilità.
Nell’ambito di tale valutazione, le regole del giudizio antidiscriminatorio attribuiscono uno spazio privilegiato al dato statistico relativo alla frequenza con cui il licenziamento venga intimato ai lavoratori disabili e agli altri in termini di idoneità a far presumere la discriminazione. Anche in tal caso, tuttavia, deve essere possibile al datore di lavoro offrire la prova che, nel caso specifico, andando ad esaminare gli aspetti concreti della vicenda, il particolare svantaggio non esiste e, dunque, non c’è discriminazione.
Le riflessioni che precedono appaiono rilevanti anche in relazione ad un altro problema che affligge operatori e magistratura del lavoro ovvero l’individuazione dell’accomodamento ragionevole che possa escludere la discriminazione derivante dall’adozione di un comporto indifferenziato per disabili.
Il problema è serio e ancora lontano dalla soluzione.
Le indicazioni finora fornite dalla giurisprudenza di legittimità sono poche, anche perché l’adeguatezza degli accorgimenti adottati o delle vicende che il datore di lavoro propone come tali è questione di merito.
Ciò che può ritenersi chiarito, allo stato, è che non è idonea ad escludere il rischio di una ingiustificata disparità di trattamento dei lavoratori portatori di handicap la previsione del CCNL che esclude dal periodo di comporto una serie di assenze caratterizzate da particolare gravità e giustificazione, come quelle dovute a ricoveri o determinate patologie o terapie salvavita, in quanto “anche la patologia non grave, ma in nesso causale diretto ed immediato con la disabilità, implica per il lavoratore disabile la particolare protezione riconosciuta dalla normativa internazionale, euro-unitaria e statale” e pertanto, per sfuggire al rischio di trattamenti discriminatori, la contrattazione collettiva dovrebbe “prendere in specifica considerazione la posizione di svantaggio del disabile”, individuando “una differenziata soglia di tollerabilità per i lavoratori disabili rispetto a quella prevista per coloro che tali non sono” .
Analogamente è stata ritenuta inadeguata la previsione collettiva di un ulteriore periodo di aspettativa non retribuita o il diritto ad un congedo annuale di trenta giorni per cure non computabile nel periodo di comporto, indistintamente applicabili a lavoratori normodotati e disabili .
La posizione della CGUE è analoga: la sentenza P.M. ha infatti sancito l’inadeguatezza di altre previsioni collettive che possano prolungare la conservazione del posto di lavoro, ad esempio consentendo un’aspettativa non retribuita, dovuta al fatto che, essendo previste a favore di tutti i lavoratori e non dei soli disabili, non costituiscono un accomodamento ragionevole .
Su quali siano, in concreto, gli accomodamenti ragionevoli in questi casi, almeno allo stato, la Corte di Cassazione offre solo la precisazione che deve trattarsi di “misure da scegliere in relazione alla particolarità della fattispecie” e indicazioni a titolo esemplificativo, in cui menziona l’”allungamento del periodo di comporto ex art. 2110, comma 2, c.c.” e “l’espunzione dal comporto di periodi di malattia connessi allo stato di disabilità” .
Non vi sono, invece, indicazioni della CGUE: nella sentenza P.M., infatti, la questione relativa alla possibilità di considerare come soluzione ragionevole un periodo supplementare di aspettativa retribuita, che sia integralmente a carico del datore di lavoro e che si aggiunga agli altri periodi di conservazione del posto di lavoro è stata ritenuta irricevibile in quanto, non essendovi una richiesta del lavoratore o una proposta in tal senso, è risultata meramente ipotetica.
Molti interrogativi riguardano il possibile intervento della contrattazione collettiva, a cui l’ordinamento lascia la competenza in materia di comporto: meglio prevedere un comporto più lungo riservato ai dipendenti con disabilità oppure scegliere la via dell’esclusione delle assenze legate alla disabilità dal computo, già seguita per alcune particolari patologie? quale allungamento del periodo di comporto può essere ritenuto adeguato? esso va previsto indistintamente per tutti coloro che siano qualificabili come disabili ai sensi del diritto eurounitario o va diversificato in relazione alla tipologia e/o gravità della patologia? è opportuno o necessario, comunque, individuare un limite alla espunzione dei periodi di malattia connessi alla disabilità , onde evitare il rischio di una permanenza indefinita del rapporto di lavoro, in contrasto con il citato considerando 17 e con la finalità legittima del comporto riconosciuta anche dalla CGUE?
Un secondo gruppo di interrogativi riguarda il comportamento con cui il singolo datore di lavoro, nell’inerzia della contrattazione collettiva, possa assolvere al suo obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli: quali misure sono idonee? quanto deve attendere oltre il superamento del comporto previsto dal CCNL e come deve fare, al contempo, per evitare che si configuri una rinuncia a farlo valere? come potrebbe fare per escludere dal computo le assenze legate alla disabilità? in tal caso, quando potrebbe ritenersi libero di licenziare? rilevano vicende che, pur non mirate specificamente a differenziare il trattamento del disabile, abbiano di fatto ottenuto tale risultato , in che misura possono rilevare altri comportamenti che comunque, in qualche modo, aiutano il disabile a gestire la situazione ?
Le considerazioni sopra svolte a partire dalla recentissima pronuncia della CGUE sono ben lontane dal poter fornire tutte le risposte, ma offrono alcuni spunti di riflessione.
Dal punto di vista della contrattazione collettiva, innanzi tutto, appare chiaro che la previsione di un periodo di comporto diverso e maggiore riservato ai lavoratori disabili nel loro complesso non è lo strumento migliore per realizzare un effettivo contemperamento tra gli interessi del lavoratore disabile e del datore di lavoro. Una soluzione differenziata rispetto agli altri lavoratori, ma indifferenziata nell’ambito dei lavoratori disabili, essendo applicabile anche quando le assenze legate alla disabilità non vi sono o sono pochissime, impedirebbe di adeguare l’accomodamento ragionevole alla situazione concreta.
In tale contesto, la soluzione decisamente migliore è la previsione che escluda dal computo le assenze riconducibili alla disabilità, già applicata da molti CCNL in relazione a particolari patologie. Sebbene essa porti con sé vari problemi concreti, in particolare in ordine all’accertamento da parte del datore del nesso con la disabilità e, a monte, alla conoscibilità di quest’ultima e della diagnosi delle assenze , tale soluzione ha l’indubbio pregio di agganciare l’accomodamento a ciò che pone il lavoratore disabile in situazione di svantaggio ovvero l’assenza per malattia legata alla disabilità.
La vastità delle ipotesi in cui è ravvisabile una disabilità ed un nesso tra essa e l’assenza, tuttavia, comporta il rischio di vanificare, di fatto, il limite imposto alla conservazione del posto di lavoro in funzione dell’interesse datoriale a porre fine ad un rapporto di lavoro divenuto non redditizio e ciò rende indispensabile la previsione di un tetto al numero di giorni di assenza per disabilità di cui non si deve tenere conto. Sarebbe altrettanto opportuno che la contrattazione collettiva affrontasse anche il tema sia dei comportamenti con cui il datore di lavoro può acquisire la necessaria conoscenza della disabilità e della riconducibilità ad essa delle assenze, sia della necessaria collaborazione da parte del lavoratore.
Tali considerazioni appaiono idonee a guidare anche il singolo datore che, non essendovi previsioni collettive da applicare, debba trovare da solo un accomodamento ragionevole che gli eviti di porre in essere un licenziamento discriminatorio.
Esclusa la scelta di prolungare “al buio” il periodo di comporto, la soluzione migliore sembra quella di espungere dal computo delle assenze quelle legate alla disabilità. Anche in tal caso, vi sono il problema di stabilire fino a quando è tenuto a farlo e quelli pratici legati alle difficoltà di conoscenza della disabilità e della diagnosi delle assenze.
Il problema della conoscenza o conoscibilità della disabilità da parte del datore di lavoro.
La discriminazione indiretta opera in modo oggettivo e, dunque, è configurabile e fa scattare le tutele a prescindere dalla volontà del suo autore: questo punto fermo del diritto antidiscriminatorio dipende dalla considerazione che, a differenza di quella diretta, incentrata su una condotta e dunque necessariamente assistita da un intento discriminatorio, ciò che viene in rilievo nella discriminazione indiretta è l’effetto discriminatorio di un atto, patto o prassi di per sé legittimi “e, quindi, esula dal tema ogni problematica sul requisito della colpevolezza quale elemento costitutivo della responsabilità da comportamento discriminatorio” .
Ciò costituisce un indubbio vantaggio per la vittima della discriminazione, liberata dall’onere di provare l’elemento soggettivo, ma crea un serio problema ogni volta che la disabilità sia occulta, cioè non sia riscontrabile ictu oculi, né sia stata riferita dal lavoratore, ad esempio per chiedere i benefici della legge n. 104/1992.
Un datore di lavoro che non sappia della disabilità, infatti, non è in grado di porre in essere accomodamenti ragionevoli volti a disinnescare il rischio di discriminazione indiretta insito nell’applicazione al lavoratore disabile delle varie regole e procedure di lavoro pensate per la generalità dei lavoratori.
In tal caso non è ravvisabile un comportamento che il datore di lavoro avrebbe potuto e dovuto adottare per escludere la discriminazione e la cui omissione gli possa essere rimproverata e, dunque, ove l’irrilevanza della condizione psicologica dell’autore della discriminazione venga intesa come comprensiva anche della conoscenza stessa o, quantomeno, della conoscibilità della situazione di disabilità e della necessità di accomodamenti ragionevoli, si finisce per scivolare in ipotesi di responsabilità oggettiva.
Le poche indicazioni provenienti dall’Europa sembrano dare valore alla conoscenza della disabilità da parte del datore di lavoro.
Nelle conclusioni dell’Avvocato Generale davanti alla CGUE nella causa C-270/16 Ruiz Conejero, infatti, si afferma che il datore di lavoro è tenuto a prendere provvedimenti appropriati per prevedere soluzioni ragionevoli ai sensi dell’articolo 5 della direttiva qualora un lavoratore sia affetto da una disabilità “e il suo datore di lavoro sia o dovrebbe ragionevolmente essere a conoscenza di tale disabilità”.
La recentissima sentenza P.M. dell’11 settembre 2025 - a fronte della precisazione da parte dal giudice del rinvio che il datore di lavoro italiano, in linea di principio, non può essere a conoscenza del motivo dell’assenza prolungata del lavoratore e quindi dell’esistenza della sua disabilità, a meno che il lavoratore non lo abbia informato di propria iniziativa – onde censurare la mancata previsione di accomodamenti ragionevoli per il disabile che abbia superato il comporto, ha supposto “che il lavoratore di cui trattasi abbia preso l’iniziativa di informare il suo datore di lavoro dell’esistenza della sua disabilità” , così dando rilevanza alla conoscenza di quest’ultima.
Nell’ordinamento italiano, la questione è esplosa relativamente alla discriminazione indiretta dovuta all’applicazione al disabile delle regole sul comporto previste indistintamente per tutti i lavoratori e trova la sua causa nel fatto che, per note ragioni di tutela della riservatezza, i certificati di malattia consegnati al datore di lavoro non contengono la diagnosi e non sempre il medico che li compila si avvale della facoltà di flaggare il campo “stato patologico sotteso o connesso alla situazione di invalidità riconosciuta”, pur quando l’esistenza di quest’ultima gli consentirebbe di farlo .
Il problema, tuttavia, è teoricamente configurabile in ogni altro caso di discriminazione indiretta per disabilità esaminato nei capitoli che precedono .
Ovviamente, esso si pone solo quando, a fronte dell’eccezione del datore di lavoro di non aver avuto conoscenza della disabilità, analizzati con attenzione tutti gli elementi offerti dalle parti, il giudice giunga alla conclusione che questi effettivamente non sapeva, né poteva sapere.
Il fatto che il datore non sapesse ma, in base agli elementi in suo possesso, potesse rendersi conto della disabilità, è invece più che sufficiente per affermare che aveva anche la possibilità concreta di comportarsi correttamente ed evitare la discriminazione. L’obbligo normativo di rispettare la parità di trattamento e di tutelare la salute e la personalità morale del lavoratore impongono al datore di lavoro di prestare attenzione ai segnali disponibili ed attivarsi per sciogliere eventuali dubbi e, quindi, cercare di comprendere di quali accomodamenti ragionevoli vi sia necessità.
È questa la strada intrapresa dalla giurisprudenza di legittimità nell’affrontare il problema nelle controversie relative al licenziamento del disabile per superamento del comporto .
A fronte delle ricorrenti difese aziendali basate sull’ignoranza della condizione di disabilità del lavoratore licenziato, la Corte ha chiarito che l’operare in modo oggettivo della discriminazione indiretta, “in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore, quale effetto della sua appartenenza alla categoria dei disabili”, esclude la rilevanza del solo “intento discriminatorio”, ma non la necessità di prendere in esame la conoscenza o la conoscibilità del fattore discriminatorio secondo l’ordinaria diligenza le quali, invece, “rilevano ai fini dell’accertamento della sussistenza di una esimente per il datore di lavoro rispetto all’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli”.
Prima di adottare un provvedimento di licenziamento per superamento del periodo di comporto, il datore di lavoro ha l’onere di acquisire informazioni circa l’eventualità che le assenze siano connesse ad uno stato di disabilità e valutare, quindi, gli elementi utili al fine di individuare eventuali accorgimenti ragionevoli onde evitare il recesso dal rapporto.
Ciò vale ovviamente per il datore che conosce la disabilità - perché ha assunto il lavoratore ai sensi della legge 68/1999 oppure perché questi ha chiesto i benefici della legge 104/1992 o in qualunque altro modo l’ha resa nota – ma anche per il datore che la ignora colpevolmente.
L’ignoranza della disabilità e della riconducibilità ad essa delle assenze, dunque, non costituiscono di per sé un’esimente, essendo necessario che siano anche incolpevole.
È stata ritenuta colpevole, ad esempio, “quando il datore di lavoro non aveva effettuato correttamente la sorveglianza sanitaria ex art. 41 del D.lgs. n. 81/2008 oppure perché le certificazioni mediche e/o la documentazione inviate erano sintomatiche di un particolare stato di salute costituente una situazione di handicap” senza che potesse rilevare che dipendente non avesse trasmesso il verbale di riconoscimento dello stato di portatore di handicap o non avesse segnalato che le patologie che avevano dato luogo alle sue assenze erano ad esso collegate .
Quanto al lavoratore interessato, sinora le sentenze di legittimità si sono limitate ad affermare che, all'onere datoriale di acquisire informazioni prima di procedere al licenziamento, “non può corrispondere un comportamento ostruzionistico del lavoratore” .
Riguardando casi in cui il datore di lavoro non aveva assolto ai suoi oneri, però, tali decisioni non ha ancora avuto l’occasione per approfondire il discorso e, in particolare, per ragionare sulle conseguenze di un tale comportamento ostruzionistico .
È stato ampiamente sviluppato, invece, il discorso relativo al fondamento normativo dell’onere di collaborazione del lavoratore e del datore di lavoro, rinvenuto per entrambi nell’art. 2 della Convenzione ONU, ove stabilisce che è una forma di discriminazione “il rifiuto di accomodamento ragionevole, visto che “può rifiutarsi solo ciò che risulta oggetto di una richiesta”, nel Commento generale n. 6, adottato nel 2018, dal Comitato per i diritti delle persone con disabilità (ONU), laddove definisce “l'obbligo di fornire soluzioni ragionevoli un dovere reattivo individualizzato che viene attivato nel momento in cui viene fatta la richiesta di accomodamento” ed anche nel nuovo art. 5 bis della legge 104/1992, laddove prevede un’apposita istanza scritta di adozione di un accomodamento ragionevole, eventualmente contenente una proposta, e la successiva partecipazione al procedimento .
L’interlocuzione ed il confronto tra le parti sono stati qualificati come una “fase ineludibile” della fattispecie complessa del licenziamento del lavoratore disabile per superamento del periodo di comporto, che si pone su di un piano logico quale presupposto per adottare gli accomodamenti ragionevoli ed ha lo scopo di “non sconfinare in forme di responsabilità oggettiva”, richiamandosi quanto già affermato nella fattispecie limitrofa del licenziamento per inidoneità sopravvenuta in merito al fatto che, per configurare l’adempimento dell’obbligo legislativamente imposto dall’art. 3 comma 3 bis del D.lvo 216/2003 è necessario che il datore di lavoro provi di aver compiuto “uno sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata, che scongiurasse il licenziamento, avuto riguardo a ogni circostanza rilevante nel caso concreto” .
La questione relativa al comportamento del lavoratore è di estremo rilievo e merita qualche riflessione .
Essa sussiste anche al di fuori del caso specifico relativo al comporto, tendenzialmente in ogni caso in cui si discuta di discriminazione indiretta per disabilità .
Per il datore di lavoro, infatti, la via più sicura per evitare il rischio di incorrere in una discriminazione indiretta è quella di rivolgersi al lavoratore interessato, chiedendogli le informazioni che non possiede già e che sono necessarie a comprendere, ove ciò non sia già chiaro, se è portatore di disabilità, se sussistono specifiche condizioni per cui il comportamento neutro che si accinge a porre in essere potrebbe comportare un particolare svantaggio idoneo ad integrare discriminazione e quali accomodamenti ragionevoli sono necessari.
Gli interrogativi sono inevitabili: che capita se il lavoratore non dà tali informazioni? è configurabile un onere di collaborazione del lavoratore? quali conseguenze derivano dal suo mancato assolvimento?
Il principale argomento speso per escludere un onere di collaborazione è costituito, in questo contesto, dall’esigenza di tutelare con la riservatezza il frequente timore del lavoratore in ordine alle conseguenze negative che potrebbero derivare dalla rivelazione della disabilità , siano esse legittime (come il disvalore sociale comunemente attribuito a certe patologie) o illegittime (come il rischio che la disabilità possa essere scientemente utilizzata contro i suoi interessi).
Il problema è reale e serio: il timore che palesare la propria patologia possa avere conseguenze negative è comprensibile. Non è tuttavia ravvisabile alcuna soluzione che possa assicurare al lavoratore entrambi i risultati utili ovvero garantirgli contestualmente la tutela della disabilità e una completa riservatezza.
A ben vedere, il problema sussiste anche – ed in misura statisticamente ben più ampia - in relazione ai vari accomodamenti ragionevoli codificati dal legislatore o dalla contrattazione collettiva a tutela della disabilità, come ad esempio i permessi previsti dalla legge 104/1992.
La concessione di tali benefici è subordinata alla proposizione di apposita domanda da parte del lavoratore che dunque, ove la disabilità fino a quel momento sia rimasta nascosta, deve necessariamente scegliere se sacrificare il beneficio o la propria riservatezza.
In tali casi, l’iniziativa del lavoratore è condizione indispensabile per parlare di discriminazione: che il datore di lavoro sappia o meno dell’esistenza delle condizioni per averne diritto, se il lavoratore non chiede il beneficio, la mancata concessione dello stesso non può costituire rifiuto di accomodamento ragionevole che integra discriminazione.
La conclusione non può che essere improntata allo stesso principio anche in tutti gli altri casi in cui, essendo sconosciuti al datore di lavoro la disabilità o lo svantaggio che deriva dalla sua interazione con l’ambiente di lavoro o la sua organizzazione, si renda necessaria l’adozione di accomodamenti ragionevoli. Per poter beneficiare di essi, infatti, il lavoratore deve necessariamente svelare la disabilità e fornire tutti gli elementi necessari ad individuare se e quale accomodamento ragionevole si possa adottare e, soltanto se il lavoratore lo fa, nel concorrere di tutte le altre condizioni già esaminate, la mancata adozione di quest’ultimo può costituire discriminazione indiretta.
Che cosa debba fare il lavoratore dipende dalle circostanze concrete. Se il datore di lavoro ha gli elementi per conoscere la disabilità o comunque sospettarne l’esistenza, la collaborazione di cui il lavoratore è onerato è essenzialmente quella di fornire le informazioni necessarie che vengano eventualmente richieste. Se però il datore nulla sa, né può sapere, la collaborazione non può che consistere, anche e prima di tutto, nel prendere l’iniziativa di informarlo.
A fronte della incolpevole ignoranza da parte del datore di lavoro degli elementi necessari a comprendere che la sua condotta pone il lavoratore disabile in una posizione di particolare svantaggio idonea a integrare discriminazione indiretta, si pone l’ulteriore interrogativo se, oltre ad incidere sul versante risarcitorio , essa possa addirittura escludere il carattere discriminatorio della sua condotta.
La giurisprudenza di legittimità si è finora pronunciata soltanto in casi in cui sussistevano la conoscenza o comunque la conoscibilità della disabilità, e non anche in casi in cui il datore fosse incolpevolmente ignaro di quest’ultima oppure il lavoratore avesse opposto alle sue richieste di informazioni un comportamento ostruzionistico e, dunque, non vi si rinvengono elementi significativi per l’individuazione delle conseguenze di una discriminazione indiretta posta in essere in quest’ultimo contesto.
La discriminazione per associazione per disabilità.
Il fatto di prendersi cura di una persona con disabilità può comportare limitazioni anche significative nella vita del cd. caregiver ed esigere conseguenti adattamenti sotto il profilo lavorativo, soprattutto sotto il profilo dell’orario e del luogo di lavoro. Si pensi, ad esempio, al figlio di un anziano genitore con disabilità che, non potendo contare sul supporto delle persone che lo assistono nei giorni feriali, non sia in condizioni di lavorare su turni comprensivi dei giorni festivi.
In questi casi l’organizzazione del lavoro e la disciplina del rapporto di lavoro, messe a punto avendo presenti lavoratori che non hanno tali necessità, può realizzare un effetto analogo a quello che la normativa antidiscriminatoria considera come discriminazione indiretta: la loro interferenza con le limitazioni che gli derivano dall’attività di cura, infatti, può mettere il caregiver in una posizione di particolare svantaggio rispetto agli altri lavoratori.
La situazione non è diversa da quella in cui si trova ogni genitore nel periodo in cui deve fisiologicamente prendersi cura dei figli minori, ma la tutela normativa è diversa.
Entrambe le figure, infatti, godono di specifici istituti che soddisfano alcune esigenze fondamentali derivanti dal ruolo di cura tramite il riconoscimento di permessi e congedi retribuiti e diritti relativi alla individuazione del posto di lavoro, ma soltanto il genitore gode anche di tutela antidiscriminatoria generale da parte della normativa eurounitaria e di una tutela piena da parte della normativa nazionale . La situazione del caregiver, invece, non è presa espressamente in considerazione dalla direttiva 2000/78 né, conseguentemente, nel d.vo 216/2003.
Il diritto antidiscriminatorio interno ha rivolto una prima attenzione ai caregiver nel 2022, con l’introduzione nella legge 104/1992 dell’art. 2 bis che, al comma 1, stabilisce che “È vietato discriminare o riservare un trattamento meno favorevole ai lavoratori che chiedono o usufruiscono dei benefici di cui all'articolo 33 della presente legge, agli articoli 33 e 42 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, all'articolo 18, comma 3-bis, della legge 22 maggio 2017, n. 81, e all'articolo 8 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, nonché di ogni altro beneficio concesso ai lavoratori medesimi in relazione alla condizione di disabilità propria o di coloro ai quali viene prestata assistenza e cura”, disponendo l’applicazione dell'articolo 28 del d.lvo 150/2011 ai giudizi civili avverso atti e comportamenti ritenuti discriminatori in base a detta previsione .
La delimitazione dell’ambito di applicazione del divieto a chi usufruisce di benefici legati alla disabilità delle persone di cui si prende cura restringe indubbiamente il campo rispetto alle previsioni generali eurounitarie e interne dettate in favore di coloro che sono direttamente portatori di disabilità.
Le situazioni che non sono specificamente riconducibili a tale norma, tuttavia, rientrano comunque nello spazio di tutela offerto dal diritto antidiscriminatorio generale grazie alla giurisprudenza della Corte di Giustizia.
Il percorso di riconduzione anche del caregiver nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78 è iniziato nel luglio 2008 con la pronuncia da parte della Grande Sezione della CGUE nella causa C 303/06 - Coleman di una sentenza che, ponendo le basi per la nascita del concetto di discriminazione per associazione , ai fini della configurabilità sia della discriminazione diretta, sia delle molestie ha equiparato alla condizione della persona disabile quella di chi le presta la parte essenziale delle cure di cui ha bisogno .
A fondamento di tale decisione, la CGUE ha valorizzato il fatto che il principio della parità di trattamento sancito dalla direttiva “si applica non in relazione ad una determinata categoria di persone, bensì sulla scorta dei motivi indicati al suo art. 1” e che la direttiva “ha come obiettivo, in materia di occupazione e lavoro, di combattere ogni forma di discriminazione basata sulla disabilità”, riservando ai disabili soltanto alcune “disposizioni riguardanti o misure di discriminazione positiva a favore della persona essa stessa disabile, o misure specifiche che sarebbero private di ogni contenuto o che potrebbero rivelarsi sproporzionate se non fossero limitate alle sole persone disabili”, come l’art. 5 e l’art. 7 n. 2.
Un importante passo avanti è poi avvenuto con la recentissima sentenza dell’11 settembre 2025 nella causa C-38/24 - G.L. , con cui la CGUE ha riconosciuto al caregiver anche la tutela contro la discriminazione indiretta.
La sentenza ha innanzi tutto affermato che “il principio di non discriminazione sancito all’articolo 21, paragrafo 1, della Carta, e concretizzato dalla direttiva 2000/78, riguarda anche la discriminazione indiretta «per associazione» fondata sulla disabilità” .
Lo ha fatto riprendendo ai punti 48-51 le affermazioni della sentenza Coleman e valorizzando il fatto che sia l’art. 2 comma 1 della direttiva, sia l’art. 21 della Carta di Nizza, vietano “qualsiasi discriminazione” e, analogamente, l’art. 2 e 5 della Convenzione ONU vietano “ogni forma di discriminazione”; che “la questione del riconoscimento di una discriminazione «per associazione» fondata sulla disabilità si pone allo stesso modo, indipendentemente dal fatto che tale discriminazione sia diretta o indiretta”; di aver già affermato essa stessa l’esistenza di un divieto di discriminazione indiretta “per associazione” in relazione a razza ed etnia sulla base della direttiva 2000/43 ; che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha già dichiarato che il trattamento discriminatorio subìto da una persona a causa della disabilità del figlio, con il quale essa ha stretti legami personali e al quale presta cure, costituisce una forma di discriminazione fondata sulla disabilità rientrante nell’ambito di applicazione dell’articolo 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, senza distinguere a seconda che tale discriminazione sia diretta o indiretta .
Precisando ed integrando quanto scritto nella sentenza Coleman in merito al fatto che l’art. 5 della Direttiva contiene previsioni riservate alle persone con disabilità alla luce della Carta di Nizza e della Convenzione ONU , in secondo luogo, la sentenza ha affermato che gli accomodamenti ragionevoli, come definiti dall’articolo 2 di quest’ultima, “non sono limitati alle esigenze dei disabili sul luogo di lavoro” e, pertanto, “devono, se del caso, essere conferiti anche al lavoratore che fornisce l’assistenza che consente a tale persona disabile di ricevere la parte essenziale delle cure che le sue condizioni richiedono” .
La giurisprudenza italiana sinora si è confrontata poco con questioni di asserita discriminazione del cd. caregiver.
Le richieste di tutela, infatti, sono state solitamente decise sulla scorta delle specifiche previsioni normative, in particolare l’art. 33 comma 5 della legge n. 104/1992, seppure richiamando la nozione di disabilità della Convenzione ONU come fatta propria dal diritto antidiscriminatorio eurounitario . Solo recentemente sono state emesse pronunce che hanno specificamente ad oggetto il tema della discriminazione .
Uno specifico ambito in cui l’emersione del concetto di discriminazione indiretta per associazione per ragioni di disabilità è destinata ad avere effetti importanti è quello delle procedure di mobilità nell’ambito del pubblico impiego in cui il ruolo di caregiver non venga affatto o, comunque, non venga adeguatamente valorizzato tra i criteri che determinano l’ordine delle graduatorie.
Ne costituisce significativa conferma il fatto che la Corte di Cassazione, ritenendo che la questione della applicabilità al caregiver delle tutele previste in favore del disabile dalla direttiva 2000/78 e della necessità da parte del datore di porre in essere gli accomodamenti ragionevoli sia rilevante ai fini della decisione sulla questione di nullità, per contrasto con l’art. 33 della legge 104/1992, delle disposizioni del C.C.N.I. Mobilità dell’8.4.2016 nella parte in cui attribuiscono ai cd. caregivers solo un punteggio aggiuntivo e non anche un diritto di precedenza rispetto agli altri lavoratori, con varie ordinanze interlocutorie ha rinviato a nuovo ruolo le cause in cui sussiste tale questione per attendere la decisione da parte della CGUE della causa C-38/24, già avvenuta e sopra analizzata, e della causa introdotta con la citata ordinanza n. 24336/2024.
Un ultimo aspetto: l’evoluzione della tutela antidiscriminatoria appena esaminata rende necessario individuare la definizione di caregiver utile ai fini dell’applicazione della Direttiva 2000/78 che manca in quest’ultima.
La Corte di Cassazione, ponendosi il problema se possa definirsi tale “qualunque soggetto, appartenente alla cerchia familiare o convivente di fatto, che si prenda cura in un ambito domestico, anche informalmente, in via gratuita, quantitativamente significativa, esclusiva, continuativa e di lunga durata di una persona che, in ragione della propria grave disabilità, non sia assolutamente autosufficiente nello svolgimento degli atti quotidiani della vita o se, invece, la definizione di caregiver in questione sia più ampia o più ristretta” nell’ordinanza 1788/24 già citata ha sottoposto la questione alla Corte di Giustizia, che però l’ha ritenuta irricevibile.
Allo stato, dunque, non si può che guardare agli elementi offerti dalle sentenze Coleman e G.L., oltre che al diritto interno ed alla relativa giurisprudenza nazionale.
In entrambe le pronunce, la CGUE si è occupata di genitori di disabili che pacificamente si prendevano cura in modo completo ed esclusivo del figlio e, dunque, non ha dovuto interessarsi della natura della relazione tra disabile e caregiver allo scopo di delineare i confini all’interno dei quali chi si occupa del disabile può essere considerato suo caregiver ai fini della direttiva, né effettuare valutazioni in merito alle caratteristiche qualitative e quantitative dell’attività prestata che consentono l’applicazione di quest’ultima.
Sono comunque spunti preziosi nella ricerca del concetto di caregiver rilevante per il diritto antidiscriminatorio le espressioni con cui il soggetto destinatario della tutela è stato individuato nel genitore che presta al figlio disabile “la parte essenziale delle cure di cui quest’ultimo ha bisogno” (Coleman) o che fornisce al medesimo “assistenza che consente a quest’ultimo di ricevere la parte essenziale delle cure che le sue condizioni richiedono” (G.L.).
Quanto al diritto interno, il D.lvo 62/24 non definisce direttamente il caregiver e, laddove lo inserisce tra i soggetti che possono partecipare all'unità di valutazione multidimensionale prevista dall’art. 24, rinvia all'articolo 1, comma 255, della legge 205/2017.
Quest’ultimo, a sua volta, definisce “caregiver familiare la persona che assiste e si prende cura del coniuge, dell'altra parte dell'unione civile tra persone dello stesso sesso o del convivente di fatto ai sensi della legge 20 maggio 2016, n. 76, di un familiare o di un affine entro il secondo grado, ovvero, nei soli casi indicati dall'articolo 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, di un familiare entro il terzo grado che, a causa di malattia, infermità o disabilità, anche croniche o degenerative, non sia autosufficiente e in grado di prendersi cura di se', sia riconosciuto invalido in quanto bisognoso di assistenza globale e continua di lunga durata ai sensi dell'articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, o sia titolare di indennità di accompagnamento ai sensi della legge 11 febbraio 1980, n. 18”.
La norma pone dunque una doppia definizione: una più ampia ai soli fini del riconoscimento del diritto ai permessi retribuiti di cui all’art 33 comma 3 della legge n. 104/1992 e, per effetto del rinvio a quest’ultima, dei diritti connessi al luogo di lavoro previsti dal comma 5; una più ristretta che, essendo sganciata dal riferimento a specifiche previsioni attributive di diritti, sembra avere carattere generale e dunque potrebbe essere utilizzata anche nel discorso antidiscriminatorio.
