testo integrale con note e bibliografia
Così come nel tempo si è evoluta la definizione di disabilità, anche le responsabilità delle organizzazioni nella gestione dei lavoratori con disabilità hanno subito una profonda trasformazione. Agli inizi del secolo scorso le organizzazioni consideravano la salute dei lavoratori come un investimento in capitale umano, un input per la produttività del lavoro (Grossman, 1972), e la disabilità un mero problema medico e un costo per l’organizzazione e per la società. Fino alla fine degli anni ’80 la disabilità era concepita in termini strettamente funzionalisti, come l’incapacità o la limitazione nello svolgere attività nei modi o nei tempi ritenuti normali per un essere umano (Barbotte, Guillemin e Chau, 2001). Questa concezione si concentrava sugli aspetti negativi della disabilità, interpretandola come una conseguenza diretta delle limitazioni fisiche o funzionali del corpo umano. Le organizzazioni, in linea con questa visione, tendevano a considerare la disabilità esclusivamente come un problema clinico da gestire per limitarne il più possibile i costi. Di conseguenza, le prime pratiche di disability management avevano lo scopo di rispondere, da un lato, alla pressione sociale e istituzionale per l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità croniche, fisiche o mentali; e dall’altro contenere i costi legati alla disabilità insorta nel corso della vita lavorativa favorendo un rapido rientro al lavoro e il ripristino della performance precedente all’evento invalidante. Negli anni ’90 si è progressivamente affermato il modello medico-sociale della disabilità, che ha superato le concezioni puramente funzionali e cliniche (Barnes, 2012; Oliver, 1996), attribuendo all’ambiente un ruolo centrale nella definizione della condizione di disabilità. L’affermazione del modello sociale della disabilità ha segnato una svolta epistemologica rispetto al modello medico, spostando l’attenzione dalle limitazioni fisiche e funzionali della persona ai vincoli imposti dall’organizzazione sociale. In questa prospettiva, la disabilità non è più concepita come una condizione intrinseca dell’individuo, bensì come un fenomeno socialmente costruito, plasmato dal livello di accessibilità garantito agli spazi, alle attività e alle opportunità (Barnes e Mercer, 2010). Ne consegue che la disabilità è il prodotto delle barriere materiali, culturali e istituzionali incorporate nelle strutture stesse della società, barriere che determinano l’esclusione delle persone con disabilità o la loro percezione come “inadeguate” al contesto lavorativo (Barnes, 2012; Goodley et al., 2014; Oliver, 1996). In risposta a questo modello, la società e le istituzioni hanno iniziato a richiedere alle organizzazioni di investire per migliorare l’accessibilità degli edifici, garantire maggiore flessibilità nell’organizzazione del lavoro e contribuire alla revisione di strutture giuridiche discriminatorie (Oliver, 1996; Porkertová, 2021; Shakespeare, 2004). L’obiettivo era quello di creare ambienti lavorativi in grado di consentire alle persone con disabilità di partecipare pienamente al mercato del lavoro in base alle proprie capacità (Oliver, 1996). Da questa evoluzione ha iniziato a maturare la consapevolezza che le organizzazioni abbiano la responsabilità di gestire la disabilità intervenendo sul proprio contesto organizzativo attraverso opportune pratiche di disability management (Gröschl, 2007). In questa prospettiva, la disabilità non è più considerata un mero problema medico, ma una questione sociale: l’adattamento dell’ambiente, più che dell’individuo, diventa così il principale mezzo di intervento nei contesti organizzativi (Davis, 2005). Sebbene l’approccio medico-sociale sia stato oggetto di numerose critiche e rielaborazioni da parte di varie prospettive teoriche (es. Owens, 2015), il suo messaggio centrale, ossia che la chiave per la partecipazione delle persone con qualsiasi forma di disabilità nel mondo del lavoro risiede nella capacità delle organizzazioni di modificare l’ambiente organizzativo attraverso la rimozione delle barriere fisiche e culturali che ne determinano la loro esclusione, è rimasto valido fino ad oggi.
Agli inizi degli anni Duemila, il modello “medico-sociale” è stato progressivamente superato dalla prospettiva sociale-relazionale (Watson, 2002), che rappresenta un ulteriore avanzamento epistemologico nell’interpretazione della disabilità. In questa visione, la disabilità non è riducibile né a una condizione clinica né a un mero prodotto delle barriere ambientali, ma si configura come il risultato dinamico delle relazioni tra la persona con disabilità e il contesto sociale e organizzativo in cui è inserita (Thomas, 2004). Questo modello ha mostrato e dimostrato come la disabilità non sia altro che il risultato di barriere relazionali che rafforzano gli effetti della disabilità, intesa come condizione fisica o mentale che può generare disagio (Cologon, 2016). L’adozione di un modello relazionale-sociale negli studi sulla disabilità ha consentito di andare oltre i modelli individualistici (disabile-ambiente), offrendo una rappresentazione più completa di come la disabilità venga costruita nei contesti organizzativi (Williams e Mavin, 2012). Nelle organizzazioni la prospettiva relazionale-sociale ha aiutato a comprendere come la condizione di disabilità avvenga attraverso le possibili combinazioni di tre tipi di effetti (Sang et al., 2022): effetti diretti e inevitabili propri della disabilità sul funzionamento corporeo nel mondo sociale; barriere al fare materiali e sociali che limitano l’accesso e le attività lavorative; barriere all’essere, ovvero parole o azioni umilianti che impattano negativamente sull’identità e sull’autostima (Cologon, 2016). Infatti, se fino all’avvento della prospettiva sociale-relazionale i dipendenti con disabilità sono stati sempre definiti in base a ciò che non possono fare, oggi nelle organizzazioni questi sono sempre più spinti a costruire un’identità positiva intorno a ciò che sono in grado di fare in termini di produttività e di partecipazione (Jammaers et al., 2016). È proprio in linea con questa prospettiva che oggi le iniziative di disability management cercano di comprendere, contestualizzare e adattare le pratiche organizzative così dette “abiliste” (Campbell, 2008) ai dipendenti con disabilità in modo da alleviare o ridurre il più possibile la loro disabilità agendo sulla relazione tra disabili-nondisabili e disabili-organizzazione. Oggi il disability management viene inteso come un paradigma organizzativo che integra la gestione della salute e delle disabilità con le pratiche di gestione delle risorse umane, adottando approcci sistematici e orientati agli obiettivi che mirano non solo alla prevenzione e alla riduzione delle limitazioni funzionali, ma anche alla promozione della partecipazione lavorativa e al benessere dei dipendenti con disabilità (Jammaers, 2023). In linea con questa definizione, il disability management può essere inteso come un paradigma che si articola lungo tre direttrici interconnesse. La prima è la prevenzione, orientata a ridurre l’insorgenza delle disabilità tanto in ambito lavorativo quanto extra-lavorativo, riflettendo la tradizionale attenzione organizzativa alla riduzione dei costi e alla tutela della continuità produttiva. La seconda è la minimizzazione, che riguarda la gestione delle conseguenze dirette e indirette della disabilità sull’individuo e sull’organizzazione, sottolineando la necessità di contenere gli effetti di lungo periodo in termini di performance e benessere. La terza è l’abilitazione, focalizzata sul rafforzamento delle capacità lavorative delle persone con disabilità e considerata l’aspetto più innovativo del paradigma, in quanto riconosce il valore della partecipazione attiva e il contributo strategico della diversità al funzionamento organizzativo. Tuttavia, ancora oggi, poco si sa su come “abilitare” le persone con disabilità (Waisman-Nitzan, Gal, & Schreuer, 2019) e su come coinvolgerle attivamente nei contesti organizzativi (Podsiadlowski e Reichel, 2014). Questo rappresenta una lacuna rilevante nella conoscenza accademica (Moore et al., 2020), ancora non colmata, nonostante la crescente attenzione istituzionale verso questo tema (Ochrach et al., 2022) e il riconoscimento degli effetti positivi generati da una gestione inclusiva del lavoro (Moore et al., 2020). Senza alcun dubbio, i fattori chiave che determinano il successo del disability management sono innanzitutto le caratteristiche organizzative che includono politiche e pratiche di gestione delle risorse umane (Stone e Colella; 1996; Beatty et al., 2019; Konrad, Yang, & Maurer, 2016). I disability manager sono oggi chiamati ad adottare un approccio alla gestione delle risorse umane che sia intrinsecamente inclusivo e orientato allo sviluppo, riconoscendo la diversità come un elemento strutturale e non accessorio, capace di generare vantaggio competitivo per l’impresa (Ross-Gordon & Brooks, 2004). La letteratura più recente ha infatti evidenziato come le nuove caratteristiche dei luoghi di lavoro comportino, per le persone con disabilità, al tempo stesso opportunità di inclusione e rischi di marginalizzazione, e come le pratiche di gestione delle risorse umane possano incidere in maniera decisiva sul benessere psicologico e sulla partecipazione dei lavoratori con disabilità. In questo contesto, l’affermarsi dell’immagine del “lavoratore ideale” (Klinksiek et al., 2023; Mauksch & Dey, 2024; Sang et al., 2022), congiuntamente alla crescente enfasi sulla produttività organizzativa (Van Laer et al., 2022), ha favorito la diffusione di modelli lavorativi improntati a flessibilità, telelavoro, collaborazione ed empowerment (Klinksiek et al., 2023; Lecours et al., 2023). Tuttavia, tali pratiche, pur ispirandosi a principi di libertà e democrazia, non sono neutre: esse possono infatti riprodurre, aggravare o attenuare disuguaglianze tra dipendenti con e senza disabilità (Van Laer et al., 2022), incidendo sulla costruzione dell’identità professionale (Elraz, 2018), sulla soddisfazione lavorativa (Van Laer et al., 2022) e, in alcuni casi, generando elevati livelli di stress mentale (Elraz, 2018; Wall & Selander, 2018). Di conseguenza, le pratiche di gestione delle risorse umane assumono un ruolo strategico nel definire le condizioni di inclusione o esclusione. Esse risultano centrali non solo per costruire reti di supporto sociale (Wall & Selander, 2018) e promuovere forme di leadership inclusiva (Luu, 2021), ma anche per sviluppare un clima organizzativo positivo (Klinksiek et al., 2023) in grado di incidere direttamente sul well-being delle persone con disabilità (Hennekam et al., 2021). I disability manager, attraverso le opportune pratiche di gestione delle risorse umane, sono chiamati a intervenire prioritariamente sulle componenti soft dell’organizzazione, con l’obiettivo di decostruire stereotipi e pregiudizi radicati nei manager e nei colleghi senza disabilità e, al contempo, di rafforzare l’autostima dei lavoratori con disabilità. Quest’ultima rappresenta spesso il primo ostacolo relazionale alla piena partecipazione lavorativa, poiché il vissuto di marginalità tende a interiorizzare le stesse logiche escludenti che caratterizzano l’ambiente di lavoro (Bruyère, Erickson & VanLooy, 2004). Percezioni distorte e pratiche discriminatorie alimentano infatti sentimenti di iniquità e generano barriere invisibili, con effetti negativi sull’inserimento, sulla permanenza e sulle opportunità di carriera delle persone con disabilità. In questa prospettiva, la gestione delle risorse umane assume una valenza profondamente organizzativa, poiché le decisioni in materia di progettazione delle mansioni, processi di reclutamento e selezione, e criteri di valutazione della performance (Hidegh & Csillag, 2013; Nafukho, Roessler & Kacirek, 2010) incidono direttamente sulla distribuzione di opportunità e riconoscimento. La formazione alla diversità, intesa come dispositivo trasformativo più che come mero strumento tecnico, si configura in questo quadro come leva cruciale. Essa deve includere moduli specifici sulla disabilità, affrontando tanto i processi di inserimento e adattamento quanto le pratiche di valutazione, sviluppo e carriera (Kulkarni, 2016; Procknow e Rocco, 2016). Una formazione orientata a questo scopo è in grado di modificare i paradigmi organizzativi, ridurre i bias cognitivi e i stereotipi tossici, e favorire la costruzione di ambienti di lavoro realmente inclusivi (Procknow e Rocco, 2016). Le pratiche HR rivolte ai lavoratori con disabilità non devono essere concepite come eccezionali o separate rispetto a quelle adottate per la forza lavoro in generale. Esse richiedono piuttosto un adattamento critico che tenga conto delle barriere sistemiche – occupazionali, decisionali, culturali – che le persone con disabilità incontrano nei contesti lavorativi. I professionisti di disability management sono così chiamati a individuare e correggere le carenze delle politiche aziendali di gestione delle risorse umane, al fine di prevenire forme di discriminazione implicita e meccanismi di esclusione. In questa logica, il compito del disability manager va oltre l’adattamento puntuale delle pratiche di gestione delle risorse umane. Egli deve analizzare le interazioni tra i livelli micro (esperienza individuale, dinamiche interpersonali) e macro (politiche organizzative, vincoli istituzionali), riconoscendo l’impatto reciproco di tali dimensioni sulle performance, sul benessere e sulla cittadinanza organizzativa dei lavoratori con disabilità e dei loro colleghi. Pratiche di sviluppo delle risorse umane, in particolare, possono contribuire attraverso programmi di sensibilizzazione e percorsi di formazione mirati a costruire identità organizzative inclusive, riducendo i conflitti, rafforzando la coesione sociale e sostenendo l’autodeterminazione delle persone con disabilità (Kulkarni, 2016). Infine, i sistemi di supporto e i percorsi di apprendimento continuo rappresentano strumenti fondamentali non solo per prevenire fenomeni di turnover e preservare le capacità lavorative, ma anche per garantire che i lavoratori con disabilità possano contribuire in modo pieno e riconosciuto alla missione organizzativa (Roessler et al., 2010). Le nuove sfide organizzative come la diffusione del lavoro flessibile sono identificate come potenziali leve in grado di ridurre lo stress derivante dalla gestione della malattia e dalla ricerca di un equilibrio vita–lavoro sempre più complesso (Hennekam et al., 2021; Richards et al., 2019; Klinksiek et al., 2023; Lecours et al., 2023). Allo stesso tempo, si sottolinea il potenziale rischio, associato a queste nuove pratiche di gestione delle risorse umane, di rafforzare i fenomeni di isolamento e diminuire il senso di appartenenza organizzativa (Klinksiek et al., 2023). All’interno di tale cornice, emerge con forza la funzione di manager e colleghi nel supportare i lavoratori con disabilità, sia in termini di mentoring che di riconoscimento della loro piena cittadinanza organizzativa (Holland & Collins, 2022; Lecours et al., 2023; Wall & Selander, 2018; Luu, 2021; Schaap et al., 2022). Il comportamento di manager e colleghi, infatti, non incide soltanto sulla percezione che i lavoratori disabili hanno del proprio ruolo (Bam & Ronnie, 2020), ma si configura come attore chiave nei processi di scambio sociale, influenzando la qualità delle relazioni tra lavoratori con e senza disabilità (Holland & Collins, 2022). Un approccio inclusivo alle pratiche di gestione delle risorse umane deve dunque prevedere la creazione di spazi e opportunità affinché le persone con disabilità possano esprimere le proprie competenze, accedere a percorsi di crescita professionale e ricevere sistemi di valutazione e ricompensa equi e calibrati sulle loro condizioni (Luu, 2021). In questa direzione, la valutazione accurata delle mansioni e dei requisiti lavorativi specifici può rafforzare il person–job fit (Hennekam et al., 2021) e promuovere un clima sociale basato su logiche di inclusione altruistica, capace di incoraggiare tutti i dipendenti a partecipare attivamente agli scambi organizzativi (Meacham et al., 2017; Li et al., 2019). Parallelamente, al disability manager è sempre più riconosciuta la responsabilità della formazione dei manager, fornendo strumenti per riconoscere, monitorare e gestire le condizioni di salute mentale dei lavoratori con disabilità (Hennekam et al., 2021; Meacham et al., 2017). Il disability management, in questa prospettiva, va oltre la dimensione tecnico-operativa e si configura come un dispositivo istituzionale capace di tradurre in pratiche quotidiane i principi di inclusione e di sostenibilità sociale. In tale quadro, il disability manager svolge una funzione di mediazione tra bisogni individuali, scelte organizzative e diritti fondamentali, trasformando l’azione organizzativa in un veicolo di inclusione e giustizia sociale.
