testo integrale con note e bibliografia

1. Premessa
Il tema del licenziamento per superamento del periodo di comporto rappresenta da sempre un banco di prova della capacità dell’ordinamento giuslavoristico di bi-lanciare, in maniera coerente, interessi contrapposti: da un lato, l’esigenza del lavo-ratore di conservare il proprio posto di lavoro di fronte a eventi morbosi che lo rendono temporaneamente inidoneo a rendere la prestazione; dall’altro, l’interesse del datore a mantenere la continuità e l’efficienza dell’organizzazione produttiva. L’art. 2110 c.c., nel sancire il diritto alla conservazione del posto per un periodo determinato, offre una soluzione normativa fondata su un criterio cronologico rigi-do, che individua nel decorso del tempo l’elemento risolutivo della tensione tra i due poli dell’interesse.
Se tale disciplina ha retto per decenni come strumento di equilibrio, il suo fun-zionamento mostra oggi evidenti limiti, specie quando applicata ai lavoratori disa-bili. Questi ultimi, per effetto della loro condizione, risultano maggiormente esposti ad assenze frequenti e prolungate, con la conseguenza che l’applicazione formale e indifferenziata del periodo di comporto si traduce in una compressione sostanziale del diritto al lavoro e, più in generale, in una discriminazione indiretta. L’eguaglianza meramente formale, in tali casi, si converte in diseguaglianza sostan-ziale, perché l’apparente neutralità della regola si risolve in un pregiudizio concreto per una categoria di lavoratori vulnerabili.
La questione non è soltanto tecnica, ma coinvolge principi di rango costituzio-nale e sovranazionale: l’art. 3 Cost., nella sua duplice declinazione, esige che il legi-slatore e l’interprete rimuovano gli ostacoli che di fatto impediscono la piena parte-cipazione dei disabili alla vita lavorativa; l’art. 4 Cost. sancisce il diritto al lavoro come fondamento della dignità personale; l’art. 32 Cost. tutela la salute come diritto fondamentale e interesse collettivo. A livello europeo, la Direttiva 2000/78/CE in-troduce il divieto di discriminazione fondata sulla disabilità e l’obbligo per il dato-re di lavoro di predisporre accomodamenti ragionevoli; la Carta dei diritti fonda-mentali dell’Unione europea, all’art. 26, e la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità rafforzano ulteriormente tale obbligo, riconoscendo ai disa-bili il diritto a misure idonee a garantirne l’autonomia e l’inclusione sociale e lavo-rativa.
L’ordinamento italiano, pur avendo recepito la direttiva mediante il d.lgs. n. 216/2003, ha faticato a elaborare una disciplina organica del rapporto tra comporto e disabilità. Ne è scaturito un acceso dibattito giurisprudenziale e dottrinale, anima-to da pronunce di merito e di legittimità talvolta contrastanti, nonché da interventi della Corte costituzionale e della Corte di giustizia dell’Unione europea. Si tratta di un terreno in continua evoluzione, che sollecita l’interprete a un difficile bilancia-mento tra la stabilità dei rapporti di lavoro e l’inclusione dei soggetti fragili.
2. Quadro normativo interno e sovranazionale
Per comprendere le problematiche legate al licenziamento del disabile per supe-ramento del periodo di comporto occorre partire dal quadro normativo. L’art. 2110 c.c. prevede che, in caso di malattia o infortunio, il lavoratore abbia diritto alla con-servazione del posto per un periodo determinato dalla legge, dalla contrattazione collettiva o, in mancanza, dagli usi. Una volta decorso tale termine, il datore di la-voro può legittimamente recedere dal contratto. La dottrina classica ha letto questa disposizione come una norma di chiusura del sistema, che cristallizza il punto di equilibrio tra tutela del lavoratore e esigenze organizzative dell’impresa, sottraendo-lo a valutazioni ulteriori di proporzionalità o giustificatezza .
La ratio del comporto risiede, quindi, nella ripartizione del rischio dell’assenza: fino a un certo limite, l’imprenditore sopporta l’onere di mantenere in servizio un lavoratore temporaneamente non disponibile; oltre tale soglia, prevale l’interesse datoriale a riorganizzare l’impresa. È evidente che un simile schema, fondato su un criterio meramente cronologico, prescinde da ogni valutazione della causa dell’assenza e dalla condizione personale del lavoratore.
Il diritto sovranazionale ha tuttavia introdotto un correttivo significativo.
La Direttiva 2000/78/CE, oltre a vietare la discriminazione diretta e indiretta fondata sulla disabilità, impone agli Stati membri di garantire che i datori di lavoro adottino “accomodamenti ragionevoli” per consentire alle persone con disabilità di accedere a un lavoro, svolgerlo e conservarlo su base di uguaglianza con gli altri. L’art. 5 della Direttiva individua tale obbligo come strumento essenziale per la rea-lizzazione del principio di parità di trattamento, da intendersi in senso sostanziale e non meramente formale.
La Corte di giustizia ha più volte ribadito che la nozione di handicap include qualsiasi limitazione duratura derivante da menomazioni fisiche, mentali o psichi-che che ostacolino la partecipazione alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori . Ha inoltre chiarito che l’obbligo di accomodamento ragio-nevole si estende non solo alla fase di accesso al lavoro, ma anche alla sua prosecu-zione, imponendo al datore di valutare soluzioni organizzative idonee a garantire la permanenza in servizio del lavoratore disabile.
A livello interno, il recepimento della Direttiva è avvenuto con il d.lgs. n. 216/2003, che, all’art. 3, comma 3-bis, vieta espressamente la discriminazione deri-vante dalla mancata adozione di accomodamenti ragionevoli. La giurisprudenza ita-liana ha progressivamente riconosciuto che il rifiuto del datore di predisporre tali misure integra una condotta discriminatoria, con conseguente diritto del lavoratore alla tutela reintegratoria e risarcitoria.
A rafforzare tale quadro intervengono l’art. 26 della Carta dei diritti fondamen-tali dell’UE, che riconosce ai disabili il diritto di beneficiare di misure atte a garan-tirne l’autonomia e l’inserimento sociale e professionale, e la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia con l. n. 18/2009, la qua-le, all’art. 27, impone agli Stati di tutelare e promuovere il diritto al lavoro dei disa-bili in condizioni di parità. La Corte di giustizia ha chiarito che la Direttiva 2000/78/CE deve essere interpretata alla luce della Convenzione ONU, che costi-tuisce parametro di legittimità e strumento di orientamento ermeneutico .
Ne discende che l’art. 2110 c.c. non può essere letto in modo avulso dal conte-sto sovranazionale: l’applicazione indifferenziata del comporto rischia di costituire una discriminazione indiretta, laddove colpisca più gravemente i lavoratori disabili. Di qui l’esigenza di interpretazioni evolutive e di adattamenti giurisprudenziali, che hanno trovato negli ultimi anni terreno di confronto tra giudici di merito, Corte di cassazione e Corte costituzionale.
3. L’evoluzione giurisprudenziale interna
La giurisprudenza italiana ha a lungo considerato il superamento del periodo di comporto come causa legittima e autonoma di licenziamento, insuscettibile di essere sindacata nel merito, salvo ipotesi di abuso del diritto o violazione del principio di buona fede. La funzione di tale istituto veniva individuata nel contemperamento ex ante degli interessi contrapposti, secondo una logica di bilanciamento normativo rigido che sottraeva all’interprete ulteriori margini valutativi.
In questa prospettiva si collocano le Sezioni Unite del 2018 , le quali hanno ri-badito che, decorso il comporto, il datore può recedere legittimamente dal contratto senza necessità di provare un’ulteriore giustificatezza, essendo il superamento del termine stesso sufficiente a fondare il recesso.
Questo orientamento ha però iniziato a mostrare crepe allorché i giudici di meri-to sono stati chiamati a pronunciarsi su casi di lavoratori disabili. Una prima linea giurisprudenziale, inaugurata nel 2021, ha qualificato la previsione di un periodo di comporto uniforme per lavoratori disabili e non disabili come potenzialmente di-scriminatoria, in quanto si tratta di una regola apparentemente neutra ma suscettibi-le di colpire in modo sproporzionato i primi, più esposti a malattie collegate alla propria condizione invalidante . Questa impostazione è stata accolta ben presto ac-colta numerose decisioni di merito tutte tese a rafforzare la protezione sostanziale dei disabili contro le discriminazioni indirette .
Accanto a tale filone, si è sviluppato un diverso orientamento, secondo cui la di-scriminazione potrebbe essere evitata applicando ai lavoratori disabili le disposi-zioni collettive che prevedono un periodo di comporto prolungato per malattie gra-vi e croniche. In tal modo, la tutela non deriverebbe dalla condizione di disabilità in quanto tale, ma dalla natura della patologia, con il risultato di includere automati-camente i lavoratori con disabilità all’interno di una categoria già protetta per il ri-schio maggiore di assenze prolungate .
Un terzo indirizzo, più avanzato, ha infine sostenuto che l’allungamento del comporto, anche oltre le previsioni collettive, possa configurarsi come un vero e proprio accomodamento ragionevole. In questa prospettiva, il giudice sarebbe chiamato a verificare se, in presenza di una disabilità, il periodo standard di com-porto debba essere modulato in concreto, in modo da non costituire una misura sproporzionatamente penalizzante. È questa la linea seguita da alcune decisioni di merito, che hanno prospettato la possibilità di riconoscere l’estensione del compor-to come misura di accomodamento, pur rigettando la domanda nel caso concreto per difetto di allegazioni probatorie .
La Corte di cassazione, dal canto suo, ha manifestato una certa resistenza a rece-pire questa impostazione.
In particolare, con alcune pronunce intervenute nell’ultimo biennio, ha chiarito che l’obbligo di accomodamento non può tradursi in un automatico prolungamento del comporto, pena l’alterazione del bilanciamento normativo operato dall’art. 2110 c.c. e dalla contrattazione collettiva. Secondo la Suprema Corte, piuttosto, la protezione del lavoratore disabile deve realizzarsi attraverso altri strumenti, come la verifica della proporzionalità e la ricerca di soluzioni organizzative alternative, ma non mediante l’allungamento giudiziale del comporto .
Si tratta di un contrasto ancora aperto, che riflette la tensione tra la stabilità del dato normativo interno e l’influsso dei principi antidiscriminatori sovranazionali.
4. Il dibattito dottrinale su ragionevoli accomodamenti e comporto
Il dibattito dottrinale si è sviluppato in parallelo a quello giurisprudenziale, con-tribuendo a orientarne le linee di sviluppo.
Parte della letteratura, infatti, sostiene con decisione la tesi della discriminazione indiretta, ritenendo che la previsione di un periodo di comporto uniforme costitui-sca un ostacolo strutturale all’inclusione lavorativa dei disabili. In questa direzione si collocano quanti più volte hanno sottolineato come la mancata differenziazione rappresenti un vulnus al principio di uguaglianza sostanziale e al divieto di discri-minazione, tale da imporre una revisione dell’impianto tradizionale .
Altri hanno, invece, suggerito soluzioni più moderate, evidenziando che l’esigenza di tutela del lavoratore disabile può trovare adeguata risposta attraverso l’applicazione delle clausole collettive sul comporto prolungato per malattie gravi e croniche. Così, per esempio, è stato rilevato che l’assimilazione delle condizioni in-validanti a tali patologie consente di evitare il rischio di discriminazione indiretta senza stravolgere la logica dell’art. 2110 c.c., valorizzando il bilanciamento già ope-rato dalla contrattazione collettiva .
Una terza posizione, più innovativa, è stata sviluppata da ritiene che l’estensione ope iudicis del comporto possa e debba essere intesa come accomodamento ragio-nevole. Tale soluzione, sebbene comporti un maggiore sforzo interpretativo, avreb-be il pregio di dare piena attuazione al principio eurounitario di non discriminazio-ne e di garantire un effettivo riequilibrio sostanziale tra lavoratori disabili e non di-sabili .
Non manca, peraltro, quanti, rilevato il contrasto, sottolineano l’opportunità, se non l’esigenza di un intervento riformatore da parte del legislatore.
Si evidenzia, in questo senso, come l’inclusione lavorativa delle persone con di-sabilità richieda non solo interventi giurisprudenziali, ma anche una revisione si-stematica della disciplina del comporto, che introduca forme di differenziazione ex lege e procedure di valutazione personalizzata . O, ancora, è stata proposta una “procedimentalizzazione” degli accomodamenti ragionevoli, ossia un modello che, sulla scia del d.lgs. n. 62/2024, renda esplicito e vincolante il percorso di interlocu-zione tra datore e lavoratore disabile .
Il dibattito dottrinale testimonia, dunque, l’emergere di un nuovo paradigma in-terpretativo, in cui la regola codicistica del comporto non è più considerata intangi-bile, ma suscettibile di adattamenti alla luce dei principi costituzionali e sovrana-zionali. La tensione tra stabilità normativa e giustizia sostanziale si riflette nelle dif-ferenti soluzioni proposte, le quali oscillano tra l’interpretazione evolutiva della di-sciplina vigente e l’invocazione di una riforma organica.
5. La conoscibilità della disabilità e l’onere bifronte
Un profilo centrale nella ricostruzione del rapporto tra disabilità e comporto ri-guarda la conoscenza, o meglio la conoscibilità, della condizione invalidante da parte del datore di lavoro. L’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli, infatti, non può ritenersi operante laddove il datore non sia messo in condizione di cono-scere il fattore di rischio.
La questione non è affatto secondaria, poiché investe il bilanciamento tra la tute-la della riservatezza del lavoratore e il dovere di cooperazione che grava su entram-be le parti del rapporto.
La Cassazione ha avuto modo di affrontare il problema in più occasioni, svilup-pando la teoria del cosiddetto “onere bifronte”.
La Corte ha così chiarito che, da un lato, il lavoratore deve allegare e provare il nesso tra le proprie assenze e la condizione di disabilità, almeno mediante la produ-zione di certificazioni mediche idonee a evidenziare il carattere cronico o invalidan-te della patologia; dall’altro, il datore, una volta a conoscenza della situazione, è te-nuto ad attivarsi in buona fede per individuare accomodamenti ragionevoli idonei a garantire la prosecuzione del rapporto .
Tale impostazione introduce una significativa innovazione rispetto alla tradizio-nale rigidità dell’art. 2110 c.c., poiché trasforma la disciplina del comporto in un terreno di dialogo e cooperazione. Non è più sufficiente, per il datore, limitarsi a verificare il superamento del termine; occorre, invece, valutare se le assenze siano correlate a una disabilità e, in caso affermativo, se vi siano misure alternative in grado di evitare il licenziamento. Il lavoratore, dal canto suo, non può invocare la tutela antidiscriminatoria in modo generico, ma deve rendere conoscibile al datore la natura della propria condizione, pur nel rispetto delle esigenze di riservatezza.
La dottrina ha colto l’importanza di questa svolta, sottolineando come l’onere bifronte richiami i principi generali di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.: tale impostazione, pur comportando un aggravio di cooperazione per entrambe le parti, costituisce l’unico modo per evitare che la disciplina del compor-to si traduca in uno strumento discriminatorio .
In questa prospettiva si colloca anche l’intervento normativo di cui al d.lgs. n. 62/2024, che, introducendo specifiche procedure per la richiesta e la valutazione degli accomodamenti ragionevoli, ha di fatto procedimentalizzato il diritto del lavo-ratore disabile a una valutazione personalizzata della propria condizione.
Il decreto, attuativo della legge delega in materia di disabilità, ha previsto un ve-ro e proprio diritto all’interlocuzione, vincolando il datore a motivare le ragioni di un eventuale rifiuto e a dimostrare l’insostenibilità organizzativa o economica dell’accomodamento richiesto .
La combinazione tra giurisprudenza di legittimità e innovazioni legislative segna quindi un superamento dell’approccio formalistico: la disciplina del comporto non può essere applicata in modo automatico, ma deve essere calata nel concreto conte-sto relazionale, nel quale assumono rilievo la conoscenza della disabilità e la possi-bilità di soluzioni alternative.
6. La giurisprudenza più recente: verso una nuova concezione degli accomodamenti
Il percorso giurisprudenziale ha trovato una tappa fondamentale nella sentenza della Cassazione n. 605 del 2025.
La Corte, pronunciandosi in tema di lavoro agile, ha riconosciuto che lo smart working può costituire un accomodamento ragionevole ai sensi dell’art. 5 della Di-rettiva 2000/78/CE. In particolare, ha affermato che il rifiuto del datore di consenti-re la prestazione lavorativa da remoto, in assenza di valide ragioni organizzative, integra una discriminazione vietata, determinando la nullità del licenziamento con-seguente .
Si tratta di una pronuncia di grande rilievo, perché sancisce un principio desti-nato ad avere portata generale: l’accomodamento ragionevole non è confinato a mi-sure marginali o straordinarie, ma può riguardare aspetti centrali dell’organizzazione del lavoro. La Corte ha chiarito che la scelta dell’accomodamento non spetta unilateralmente al datore, ma deve derivare da un procedimento partecipato, in cui il lavoratore disabile è parte attiva. In tal modo, viene riconosciuta una dimensione procedurale al diritto all’inclusione, che non si esaurisce nell’adozione di una misura concreta, ma richiede un processo di confron-to e cooperazione .
La decisione si colloca in linea con le indicazioni emerse nella più recente dot-trina, che ha insistito sulla necessità di quella “procedimentalizzazione” degli acco-modamenti ragionevoli evocata in precedenza, per cui l’effettività della tutela di-pende non solo dal contenuto delle misure, ma dalla correttezza del procedimento attraverso cui esse vengono individuate, garantendo trasparenza, partecipazione e proporzionalità .
La Cassazione, con la sentenza n. 605/2025, ha dunque offerto un’interpretazione dinamica degli accomodamenti, destinata a riflettersi anche sul tema del comporto. Se il lavoro agile può essere un accomodamento idoneo a con-sentire la prosecuzione del rapporto, non si vede perché non possano esserlo anche altre soluzioni, come l’adattamento dei turni, la ridistribuzione delle mansioni, o perfino, nei casi più estremi, una modulazione personalizzata del comporto.
La giurisprudenza di merito ha iniziato a recepire questi principi, parlando espli-citamente di un “onere di interlocuzione” gravante sul datore, il quale deve dimo-strare di aver seriamente considerato le richieste del lavoratore disabile prima di procedere al licenziamento. In tal senso, alcune pronunce di merito hanno valoriz-zato il dovere datoriale di motivare le ragioni dell’impossibilità di accogliere un ac-comodamento, pena la configurazione di una condotta discriminatoria .
La progressiva emersione di questo paradigma partecipativo lascia intravedere una trasformazione profonda del diritto del lavoro: non più un sistema fondato su regole rigide e astratte, ma un modello capace di adattarsi alle esigenze individuali, pur nel rispetto della sostenibilità organizzativa. In questa direzione, il tema del comporto appare destinato a una rilettura, in cui il dato cronologico non potrà più costituire l’unico parametro decisionale.
7. Il bilanciamento tra esigenze datoriali e diritti del lavorato-re disabile
Il cuore del problema resta il bilanciamento tra il diritto del lavoratore disabile alla conservazione del posto e l’interesse datoriale alla certezza e stabilità organizza-tiva. La disciplina del comporto, come tradizionalmente interpretata, privilegia una logica di tutela ex ante, in cui il legislatore o la contrattazione collettiva fissano un termine uniforme, idoneo a delimitare in maniera rigida il rischio dell’assenza. L’interesse imprenditoriale trova in ciò una garanzia di prevedibilità, mentre il la-voratore ottiene una tutela minima e uguale per tutti.
Tuttavia, proprio l’uniformità si rivela problematica alla luce del principio di uguaglianza sostanziale. I
l lavoratore disabile, infatti, parte da una condizione di svantaggio strutturale, che rende per lui più difficile rispettare il parametro temporale fissato in modo astratto. L’applicazione indifferenziata della regola si traduce, dunque, in una dispa-rità materiale, in quanto finisce per colpire con maggiore severità chi, per la propria condizione, è fisiologicamente più esposto a malattie e assenze.
È quindi evidente che, in relazione alla disabilità, il dettato dell’art. 2110 c.c.deve essere letto alla luce dell’art. 3, comma 2, Cost., che impone al legislatore e all’interprete di rimuovere gli ostacoli di fatto alla piena partecipazione dei disabili alla vita lavorativa. Occorre, pertanto promuovere un approccio interpretativo più flessibile, aperto alla possibilità di adattamenti ragionevoli del comporto.
La Cassazione, tuttavia, ha finora mostrato cautela.
Le pronunce del 2025 hanno escluso che l’accomodamento ragionevole possa consistere automaticamente in un prolungamento del comporto, ritenendo che un simile esito altererebbe il bilanciamento legislativo e contrattuale.
Piuttosto, la Suprema Corte ha spostato l’attenzione sulla necessità di una inter-locuzione effettiva, volta a verificare se esistano misure alternative idonee a consen-tire la prosecuzione del rapporto .
Si delinea, in questo modo, un paradigma duale.
Da un lato, la Cassazione protegge il nucleo rigido dell’art. 2110 c.c.; dall’altro, il principio di uguaglianza sostanziale, richiamato da parte della giurisprudenza di merito, sollecita interpretazioni più inclusive, richiamando il dovere di adottare ac-comodamenti ragionevoli.
In mezzo, la dottrina ha cercato di proporre soluzioni sistematiche insistendo ora: sulla necessità di riconoscere al giudice il potere di modulare il comporto come accomodamento, valorizzando il ruolo della proporzionalità e del bilanciamento caso per caso ; ora, suggerendo interventi legislativi, volti a introdurre ex lege pe-riodi di comporto differenziati per i lavoratori disabili .
La prospettiva più convincente appare quella che, senza scardinare il sistema, ri-conosce la centralità del procedimento di interlocuzione. Non è l’automatismo nu-merico a garantire la parità sostanziale, ma la capacità di valutare il caso concreto, di confrontare le esigenze organizzative con i bisogni del lavoratore, di sperimentare soluzioni compatibili. In tale ottica, il comporto non deve essere abolito, ma ripen-sato alla luce del principio di ragionevolezza e del diritto antidiscriminatorio.
8. Considerazioni conclusive
L’evoluzione della disciplina del licenziamento del lavoratore disabile per supe-ramento del periodo di comporto testimonia un passaggio paradigmatico del diritto del lavoro contemporaneo: dal modello dell’eguaglianza formale al modello dell’eguaglianza sostanziale. Il comporto, nato come strumento neutro di equilibrio, si rivela oggi inadeguato a fronteggiare le sfide poste dall’inclusione lavorativa del-le persone con disabilità.
Il diritto interno, ancorato all’art. 2110 c.c., ha mostrato resistenze ad adattarsi; il diritto sovranazionale, attraverso la Direttiva 2000/78/CE e la Convenzione ONU, impone invece una lettura evolutiva che non si limiti al rispetto formale delle regole, ma persegua la finalità sostanziale dell’inclusione. Ne è scaturito un dialogo complesso tra giudici nazionali, Corte di giustizia e dottrina, che ha reso evidente la necessità di un approccio più flessibile e partecipativo.
La giurisprudenza di legittimità ha mostrato cautela nel riconoscere l’allungamento del comporto come accomodamento, temendo di travalicare il dato normativo. Tuttavia, ha accolto con decisione il principio dell’onere bifronte e dell’obbligo di interlocuzione, riconoscendo che la disciplina non può più essere applicata in modo automatico. Parallelamente, la giurisprudenza di merito ha spinto per soluzioni più coraggiose, arrivando a configurare la modulazione del comporto come forma di accomodamento.
Alla luce di questo complesso panorama, appare chiaro che il futuro del com-porto non può che essere segnato da una crescente valorizzazione dell’inclusione sostanziale. Ciò implica riconoscere che il diritto del lavoro non è soltanto un si-stema di regole generali e astratte, ma un ordinamento che deve saper adattarsi alle differenze individuali, specie quando queste riguardano condizioni di vulnerabilità.
Il percorso non è privo di difficoltà: occorre evitare il rischio di un’eccessiva frammentazione giurisprudenziale e di un indebolimento della certezza del diritto. Ma proprio per questo si rende auspicabile un intervento legislativo, che, alla luce del d.lgs. n. 62/2024 e delle più recenti acquisizioni giurisprudenziali, definisca in modo chiaro le modalità di adattamento del comporto per i lavoratori disabili, in-troducendo procedure trasparenti e criteri di proporzionalità.

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.