testo integrale con note e bibliografia

1. Introduzione
Il tema degli accomodamenti ragionevoli ha assunto ormai un ruolo di cruciale importanza per l'inclusione nel mondo del lavoro delle persone con disabilità. Dal punto di vista normativo, l'Italia ha implementato nel tempo leggi significative in questo ambito , sospinta anche da una giurisprudenza sempre più sensibile, che va allargando la nozione di accomodamenti ragionevoli, sia individuando sempre maggiori misure idonee a rappresentare un accomodamento di tipo organizzativo, sia ampliando la platea dei soggetti beneficiari di tali interventi, finendo col lambire la categoria più ampia dei soggetti più genericamente fragili o vulnerabili, come vedremo . Possiamo però già anticipare che, per quanto qui di interesse, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, rientra nella definizione di handicap qualsiasi condizione patologica che comporti una limitazione duratura che ostacola la piena ed effettiva partecipazione alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori .

2. Rapidi cenni sulla nozione di disabilità
La nozione di disabilità, utile ai fini della disciplina in materia di accomodamenti ragionevoli, è una nozione ormai ampia, che fa perno sull'interazione tra una condizione di salute (fisica, mentale, intellettiva o sensoriale) e le barriere ambientali, sociali e personali che impediscono una piena partecipazione alla vita sociale. Non entra quindi in gioco la sola menomazione in sé, ma rileva come questa, interagendo con l'ambiente, possa creare una situazione di svantaggio per la persona. Si tratta di un approccio bio-psico-sociale, che riconosce nella disabilità non solo una caratteristica individuale (aspetto medico), ma anche un fenomeno sociale che dipende dalle interazioni tra la persona e il suo ambiente, che tiene conto anche della sua durata nel tempo e prescinde da definizioni rigide, attestandosi invece su fattori soggettivi .
Secondo una posizione ormai consolidata, quindi, «il fattore soggettivo dell'handicap non è ricavabile dal diritto interno ma unicamente dal diritto dell'Unione Europea (Cass. n. 6798 del 2018; Cass. n. 13649 del 2019; Cass. n. 29289 del 2019), peraltro letto in conformità con la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006, ratificata dall'Italia con la legge n. 18 del 2009 e approvata dall'Unione Europea con decisione del Consiglio del 26 novembre 2006 (v. Cass. n. 9095 del 2023); secondo la Corte di Giustizia "la nozione di "handicap" di cui alla direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel senso che essa include una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata" (CGUE sentenze 11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/11 e C-337/11, punti 38-42; 18 marzo 2014, Z., C-363/12, punto 76; 18 dicembre 2014, FOA, C-354/13, punto 53; 1 dicembre 2016, Mo.Da. C-395/15, punti 41-42)» .
Per quanto riguarda la nozione del carattere «duraturo» della limitazione, «tra gli indizi che consentono di considerare “duratura” una limitazione figura in particolare la circostanza che […] la menomazione dell'interessato non presenti una prospettiva ben delimitata di superamento nel breve periodo o, (...), il fatto che tale menomazione possa protrarsi in modo rilevante prima della guarigione di tale persona", mediante una valutazione essenzialmente di fatto compiuta dal giudice, basata "sugli elementi obiettivi complessivi di cui dispone, in particolare sui documenti e sui certificati concernenti lo stato di tale persona, redatti sulla base di conoscenze e dati medici e scientifici attuali" (CGUE, sentenza, 1.12.2016, DAOUIDI, cause riunite C 395/2015, punti 54-57» .

3. Nascita e sviluppo della nozione di accomodamento ragionevole.
Detto questo, vedremo dunque che, con il progressivo consolidarsi di una cultura dell’inclusione, gli accomodamenti ragionevoli si sono affermati come uno strumento giuridico essenziale per assicurare alle persone con disabilità il pieno esercizio del diritto al lavoro, in condizioni di parità rispetto agli altri lavoratori.
Come si avrà modo di approfondire, la nozione di «accomodamento ragionevole» ha fatto il suo ingresso nel nostro ordinamento per effetto della Direttiva 2000/78/CE, la quale si propone di prevenire e contrastare le discriminazioni nei luoghi di lavoro fondate sulla religione, le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale.
In Italia, l’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli si configura e si muove essenzialmente lungo due direttrici operative:
a) Prevenzione del licenziamento motivato da esigenze organizzative:
Il datore di lavoro è tenuto, prima di procedere al recesso, a valutare tutte le soluzioni alternative disponibili, tra cui rientrano gli accomodamenti ragionevoli. L’istituto del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, anche quando rappresentato da un’inidoneità sopravvenuta, comporta già, secondo costante elaborazione giurisprudenziale , l’obbligo di repêchage, ossia la verifica della possibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni compatibili.
La tematica del licenziamento per inidoneità fisica alla mansione è forse tra le più indicative del progressivo mutamento di coscienza e sensibilità sociale che, a partire dagli anni ’90, si è tradotto in interventi (giurisprudenziali e del legislatore, nazionale e sovranazionale), diretti a favorire il pieno inserimento del disabile nel mondo del lavoro. Quando infatti la sopravvenuta inidoneità lavorativa riguarda una persona con disabilità, l’obbligo di repêchage si amplia fino a comprendere l’adozione di ulteriori misure idonee a preservare il rapporto, come, ad esempio, la tempestiva comunicazione del rischio di superamento del periodo di comporto (qualora le assenze siano legate alla disabilità ) o una modulazione personalizzata del comporto stesso, tenendo conto della maggiore esposizione del soggetto ad assenze per ragioni di salute .
Su questo punto si sono già espresse a suo tempo, in via pionieristica, le SS.UU. della Cassazione , che hanno affermato che il datore deve dimostrare l’impossibilità di ricollocare il lavoratore in mansioni compatibili con le capacità residue prima di poter legittimamente recedere per sopravvenuta inidoneità permanente, pur nel rispetto dell’assetto organizzativo determinato insindacabilmente dall’imprenditore. Le SS.UU. hanno sottolineato che nella valutazione del licenziamento per inidoneità entrano in gioco interessi protetti a livello costituzionale, che richiedono un bilanciamento in sede di interpretazione della legislazione ordinaria dei principi costituzionali contenuti, da un lato, negli artt. 2, 4, 32, e 36 e, dall’altra parte, nell’art. 41 Cost., con riferimento alla libera iniziativa economica dell’imprenditore e alla sua libertà di organizzare l’impresa, pur nel rispetto della sicurezza e dignità individuale. Rileva sul punto la dottrina che «Nell’ambito specifico del licenziamento per inidoneità occorreva dunque contemperare l’interesse del datore di lavoro a far valere la risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione, ex art. 1463 e 1464 c.c., rispetto a cui il giustificato motivo oggettivo previsto dall’art. 3 della legge 66/604 costituisce specificazione e non deroga, con l’interesse del lavoratore alla conservazione, per quanto possibile, del posto di lavoro. Con questo passaggio la vicenda venne comunque inquadrata nel giustificato motivo oggettivo con il conseguente obbligo di valutare la possibilità di ripescaggio. La Cassazione sottolineò come a tal fine il quadro di riferimento fosse dato dalle mansioni del lavoratore specificate ai sensi dell’art. 2103» , affermando un punto fondamentale nella prospettiva dell’allargamento dell’obbligo di ripescaggio: «[…] l’evento impeditivo, quale la sopravvenuta inidoneità ad una certa attività deve essere valutato quanto alle sue conseguenze in relazione agli obblighi di cooperazione dell’imprenditore-creditore, così tenuto non soltanto a predisporre gli strumenti materiali necessari all’esecuzione del lavoro, ma anche ad utilizzare a pieno le capacità lavorative del dipendente nei limiti dell’oggetto del contratto, ossia nei limiti posti dall’art. 2103 c.c.. Questo orientamento, di impronta cautelativa, ha avuto ampio seguito nella giurisprudenza successiva e non risulta ancora del tutto superato».
b) Promozione della parità di trattamento e prevenzione delle discriminazioni:
Nel corso dell’intera relazione lavorativa, il datore è chiamato a garantire che i lavoratori con disabilità possano beneficiare delle medesime opportunità riconosciute agli altri. Ciò può richiedere, tra l’altro, l’adeguamento delle procedure di selezione e valutazione, interventi formativi sul personale in tema di inclusione e diversità, la rimozione di barriere fisiche e organizzative, nonché l’adozione di accorgimenti gestionali che consentano al lavoratore disabile di eseguire proficuamente le proprie mansioni. L’accomodamento ragionevole si configura, in questa prospettiva, come un fondamentale strumento di tutela del principio di pari trattamento .
Vediamo brevemente le due questioni accennate, che peraltro si intersecano profondamente.

4. L’inidoneità sopravvenuta e il recesso
La disciplina della sopravvenuta inidoneità alle mansioni si trova innanzitutto nella l. 68/99, il cui art. 4 prevede (per una platea di soggetti ben precisi e che posseggano ben definite percentuali minime di invalidità ), che l’infortunio o la malattia che rendono inabili i lavoratori allo svolgimento delle proprie mansioni» non costituiscono giustificato motivo di licenziamento nel caso in cui essi possano essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori». A rinforzo di tali previsioni e con una portata più generale, anche il D.Lgs. n. 81/ 2008 prescrive che quando il medico competente valuta l’inidoneità di un lavoratore alla mansione specifica, il datore lo adibisce - ove possibile - a mansioni equivalenti o, in difetto, inferiori.
Per i soli soggetti rientranti nell’ambito di applicazione della Legge n. 68/1999, l’articolo 10 della medesima norma in materia di collocamento mirato prevede che, in caso di sopravvenuto aggravamento dello stato di salute del lavoratore con disabilità, tale da determinare un’incompatibilità con la prosecuzione dell’attività lavorativa, il datore di lavoro non può esigere dallo stesso una prestazione non compatibile con le sue menomazioni. In tale ipotesi, al lavoratore disabile è riconosciuto il diritto alla sospensione del rapporto di lavoro senza corresponsione della retribuzione, per l’intero periodo in cui permanga tale incompatibilità. Qualora, nonostante l’adozione di eventuali misure di adattamento organizzativo, la competente commissione medica (ai sensi dell’art. 4 della Legge n. 104/1992) accerti la definitiva impossibilità di reinserimento lavorativo, il rapporto può essere risolto.
È evidente, pertanto, che laddove non sia possibile riconvertire proficuamente le mansioni del dipendente o riorganizzare il contesto lavorativo in modo adeguato, si configura la possibilità di procedere con il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Si deve in ogni caso ribadire che mentre il datore di lavoro, prima di intimare il licenziamento per ragioni oggettive (incluse quelle derivanti dall’accertata inidoneità sopravvenuta alle mansioni), è sempre gravato dall’onere di tentare il cosiddetto repêchage - ossia la ricollocazione in altra posizione compatibile - l’obbligo di predisporre accomodamenti ragionevoli non si applica indistintamente: esso sorge in presenza dei presupposti previsti dall’art. 10 della Legge n. 68/1999, per i lavoratori assunti tramite collocamento mirato, e dall’art. 3-bis del D.lgs. n. 216/2003, in materia di parità di trattamento, che invece tutela la generalità delle persone con disabilità, a prescindere dall’appartenenza alle categorie protette ex Legge n. 68/1999. Tuttavia il datore di lavoro, in caso di inidoneità sopravvenuta, «al fine di giustificare il licenziamento, non può limitarsi a provare l’assenza di posti disponibili (come nel repêchage tradizionale), ma ha l’onere di dedurre e provare di aver concretamente ricercato soluzioni organizzative ragionevoli, alternative all’ineluttabilità del licenziamento».

5. L’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli nel sistema normativo italiano: recepimento e ampliamento
Come già ricordato, l’ordinamento italiano ha introdotto una disciplina specifica sull’adozione di accomodamenti ragionevoli solo in un secondo momento, rispetto alla disciplina sull’obbligo di parità di trattamento, adottata con il d.lgs. n. 216/2003. È stato infatti necessario attendere il 2013 – e in particolare il D.L. n. 76/2013, art. 9, comma 4-ter – per assistere a una modifica dell’art. 3 del citato d.lgs. n. 216/2003, a seguito di una sentenza di condanna della CGUE nei confronti dell’Italia per inadempimento degli obblighi derivanti dalla Direttiva 2000/78/CE .
Quest’ultima, all’art. 5, prevede che, al fine di garantire il rispetto del principio di parità di trattamento nei confronti delle persone con disabilità, debbano essere predisposte soluzioni ragionevoli. Tali soluzioni consistono nell’adozione, da parte del datore di lavoro, di misure appropriate e proporzionate rispetto alle esigenze specifiche del caso concreto, volte a consentire ai lavoratori disabili l’accesso al lavoro, il suo svolgimento, la formazione e le possibilità di carriera. L’obbligo è escluso qualora le misure richieste comportino un onere eccessivo o sproporzionato per il datore, da valutarsi anche in relazione alla possibilità che tale onere venga compensato da misure di sostegno previste dalla legislazione statale.
A sua volta, la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, adottata a New York il 13 dicembre 2006 e ratificata in Italia con la legge n. 18/2009 – ratifica alla quale ha aderito anche l’Unione europea con decisione del Consiglio del 26 novembre 2009 – ha ulteriormente ampliato l’ambito e la portata di tale obbligo. In particolare, l’art. 5, par. 3, della Convenzione afferma la necessità di introdurre accomodamenti ragionevoli anche nell’organizzazione del lavoro, intendendo con tale espressione quelle modifiche e adattamenti appropriati che, pur non imponendo un onere sproporzionato o eccessivo, si rendano necessari per consentire alle persone con disabilità il pieno godimento e l’effettivo esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali.
Tale finalità viene richiamata anche all’art. 27 della Convenzione, che sancisce il diritto delle persone con disabilità al lavoro «su base di uguaglianza con gli altri», evidenziando il ruolo cruciale degli accomodamenti ragionevoli quale strumento imprescindibile per l’effettiva inclusione lavorativa. In coerenza con tali disposizioni, la stessa Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità include espressamente, all’art. 2, il rifiuto di accomodamenti ragionevoli tra le forme di discriminazione fondata sulla disabilità. Analoga previsione si ritrova, del resto, nell’art. 2 della Direttiva 2000/78/CE, a ulteriore conferma del rilievo attribuito a tali misure nella costruzione di un diritto del lavoro attento alla tutela dei soggetti vulnerabili.

6. Le declinazioni della nozione di accomodamento ragionevole
Cosa deve intendersi esattamente per accomodamento? E quando possiamo ritenerlo ragionevole? A queste domande possiamo trovare una prima risposta nel Preambolo della Dir. 2000/78/CE (considerando n. 20), che offre alcuni esempi di soluzioni che possono rappresentare accomodamenti ragionevoli: la sistemazione dei locali di lavoro, l’adattamento delle attrezzature o dei ritmi di lavoro, la riorganizzazione-redistribuzione delle mansioni, la fornitura di mezzi di formazione o inquadramento .
Il termine «accomodamento» (che nella lingua italiana richiama propriamente l'idea di un adattamento, quasi di un «compromesso») rappresenta la traduzione letterale dall'inglese «accommodation», presente nella Convenzione ONU del 2006 e nella versione inglese dell'art. 5, Dir. 2000/78/CE, e nell’ambito di tali corpora è stato tradotto nella nostra lingua con «soluzioni ragionevoli».
Nell'art. 2 della Convenzione per «accomodamenti» si intendono «le modifiche e gli adattamenti necessari e appropriati» che si devono realizzare «per assicurare alle persone con disabilità il godimento e l'esercizio, su base di uguaglianza con altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali»; mentre l'art. 5 della Direttiva citata parla di «provvedimenti adeguati» del datore di lavoro, «in funzione delle esigenze delle situazioni concrete», per permettere ai disabili di accedere ad un lavoro e di svolgerlo.
Si tratta dunque di aggiustamenti, in senso ampio, di natura organizzativa che il datore di lavoro deve mettere in atto al fine di «garantire il principio della parità di trattamento dei disabili» e che si contraddistinguono per la loro «adeguatezza», ovvero per la loro idoneità a consentire alla persona svantaggiata di espletare l'attività lavorativa.
L'adozione di tali misure organizzative riguarda ogni fase del rapporto di lavoro, «da quella iniziale sino a quella della sua cessazione, non essendo specificamente destinate a prevenire un licenziamento» .
Secondo la Corte di Giustizia vanno considerate «soluzioni ragionevoli» «l'eliminazione degli ostacoli di diversa natura che ostacolano la piena ed effettiva partecipazione dei disabili alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori», come ad esempio la riduzione dell'orario di lavoro .
La nozione di accomodamento ragionevole rappresenta, dunque, una clausola generale e richiede un rinvio ai parametri di ragionevolezza e proporzione della direttiva CE, che consentono di definirne il contenuto. La valutazione di una posizione di lavoro (intesa sia in senso fisico-architettonico, sia in senso lato, come tipologia di occupazione e modalità organizzativa), ai fini di determinarne l’idoneità per un lavoratore con disabilità, non può dunque che avvenire di volta in volta, sulla base delle singole circostanze del caso, legate sia al tipo di disabilità, sia al tipo di lavoro di cui si tratta. La ragionevolezza dell’accomodamento va dunque rapportata ai singoli individui, alle esigenze specifiche del singolo disabile.
Il Comitato ONU sui diritti delle persone con disabilità, nel General comment No.2 (2014), art. 9 Accessibility , ha specificato che la ragionevolezza dell’accomodamento risiede nel suo carattere individualizzato, vale a dire efficace nel rimuovere la situazione di svantaggio che, altrimenti, si risolve in una violazione del principio di eguaglianza. È previsto altresì un sistema di monitoraggio sulle legislazioni nazionali «…per valutare l’adempimento degli obblighi contratti dagli Stati Parti alla presente Convenzione e per identificare e rimuovere le barriere che le persone con disabilità affrontano nell’esercizio dei propri diritti» (art. 31, comma 2).
Risulta tuttavia talora difficile individuare la soluzione pratica che tale ragionevolezza realizzi. Tale difficoltà pratica si è talvolta tradotta in decisioni in certa misura ondivaghe dei giudici italiani, chiamati a «trovare la quadra», nel bilanciamento tra il diritto al lavoro delle persone con disabilità e la tutela della libertà d’impresa, intesa nel senso dell’organizzazione datoriale. E’ tuttavia chiaro che la normativa nazionale debba essere letta nel solco di quella comunitaria (che, nel caso specifico, si raccorda anche con la Convenzione ONU).
La disciplina sovranazionale, proprio attraverso l’applicazione di una nozione ampia di accomodamenti ragionevoli, ha certamente favorito la conservazione del posto di lavoro, inducendo il datore a ricercare tutte le soluzioni possibili, che non compromettano eccessivamente l’organizzazione, più di quanto non sia accaduto, fino a tempi più recenti, nel contesto italiano.
L’art. 41, Cost., tutela infatti la libertà dell'imprenditore di organizzare la propria azienda come meglio crede. Questa norma ha tradizionalmente impedito ai giudici di valutare o mettere in discussione il merito e la bontà, dal punto di vista economico ed organizzativo, delle decisioni prese dal datore di lavoro riguardo alla gestione aziendale.
Nel nostro ordinamento anche l'articolo 30 della Legge 183/2010 stabilisce precisi limiti al potere dei giudici, nell'interpretazione delle clausole generali contenute nelle leggi sul lavoro, stabilendo che «il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai princìpi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente». In sostanza, queste norme mirano a proteggere l'autonomia decisionale del datore di lavoro nella gestione della propria impresa, limitando l'intervento dei giudici a questioni di legittimità piuttosto che di merito delle scelte aziendali .
Così accade - in un caso abbastanza recente di superamento del periodo di comporto, dovuto ad assenze per patologie legate allo stato di invalidità - che il giudice abbia semplicemente convalidato il licenziamento, mentre sarebbe bastato valutare con ragionevolezza e proporzione, un’estensione del periodo di comporto stesso, o lo stralcio delle assenze strettamente legate alla disabilità dal calcolo del comporto. E infatti nella giurisprudenza troviamo anche posizioni diverse, forse più equilibrate, secondo cui «Nell'ipotesi in cui il datore di lavoro sia in possesso di elementi per conoscere la condizione di handicap del lavoratore (assenze cominciate dopo un serio infortunio), anche nel caso in cui la certificazione che accerta lo stato di invalidità non sia stata trasmessa dal lavoratore, il licenziamento per superamento del periodo di comporto in applicazione della clausola negoziale che prevede un arco temporale indifferenziato anche per i periodi di malattia imputabili alla disabilità costituisce un provvedimento discriminatorio.»
La giurisprudenza della Supr. Corte aveva peraltro già segnato una cesura nel 2023, affermando che «Il licenziamento intimato ai sensi dell'art. 2110, co. 2, c.c. ad un lavoratore disabile per superamento di un periodo di comporto che non distingue malattie collegate alla disabilità e malattie “comuni” costituisce una discriminazione indiretta perché la disabilità espone i lavoratori ad un maggiore rischio di accumulare giorni di assenza per malattia» ; ma – come già rilevato - ancora prima già la Corte di Giustizia aveva criticato un'applicazione indifferenziata delle tutele apprestate a favore del lavoratore in malattia, in quanto generatrice di una disparità di trattamento tra persone disabili e lavoratori normodotati
Esempi concreti di accomodamenti ragionevoli pertanto includono:
- Modifiche all'ambiente fisico di lavoro, come l'installazione di rampe, strutture, o l'adeguamento delle postazioni .
- Flessibilità negli orari di lavoro o possibilità di lavoro da remoto .
- Redistribuzione di compiti non essenziali o modifica delle modalità di comunicazione (come nel caso del superamento del periodo di comporto).
- L’accesso a istituti previsti dalla contrattazione collettiva (come i recuperi di giornate prefestive non lavorate in occasione della chiusura delle scuole, nella forma del lavoro straordinario a recupero).
Qualunque sia il contenuto dell’accomodamento, questo deve essere comunque «ragionevole», ovvero non deve comportare oneri eccessivi, cioè sproporzionati per il datore di lavoro. I parametri su cui basare il giudizio sono rappresentati dalla dimensione e dalle risorse dell'azienda, nonché dai benefici attesi per il lavoratore e per l'organizzazione nel suo complesso .
Inizialmente, dunque, la giurisprudenza italiana ha certamente assunto un atteggiamento pacato nel riconoscimento del diritto agli accomodamenti ragionevoli (dovuti nella misura in cui non alterassero l’organizzazione aziendale), tuttavia con il tempo essa si è aperta a soluzioni progressivamente più attente alla salvaguardia dei diritti del lavoratore, estendendo l’ambito dell’obbligo datoriale. Così ad esempio, «... l'impossibilità di ricollocare il disabile, adibendolo a diverse mansioni comunque compatibili con il suo stato di salute, non esaurisce gli obblighi del datore di lavoro che intenda licenziarlo, perchè, laddove ricorrano i presupposti di applicabilità del D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 3, comma 3 bis, così come nella specie, dovrà comunque ricercare possibili “accomodamenti ragionevoli” che consentano il mantenimento del posto di lavoro, in una ottica di ottimizzazione delle tutele giustificata dall'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale (art. 2 Cost.), tanto più pregnanti in caso di sostegno a chi versa in condizioni di svantaggio. In altri termini, non è sufficiente per il datore semplicemente allegare e provare che non fossero presenti in azienda posti disponibili in cui ricollocare il lavoratore, come se si trattasse di un ordinario repêchage, così creando una sovrapposizione con la dimostrazione, comunque richiesta, circa l'impossibilità di adibire il disabile a mansioni equivalenti o inferiori compatibili con il suo stato di salute. Ed invero, a fronte del lavoratore che deduca e provi di trovarsi in una condizione di limitazione, risultante da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature […] quale fonte dell'obbligo datoriale di ricercare soluzioni ragionevoli che potessero evitare il licenziamento causato dalla disabilità, graverà sul datore di lavoro l'onere di provare di aver adempiuto all'obbligo di “accomodamento”, ovvero che l'inadempimento sia dovuto a causa non imputabile. Nè spetta al lavoratore, o tanto meno al giudice, individuare in giudizio quali potessero essere le possibili modifiche organizzative appropriate e ragionevoli idonee a salvaguardare il posto di lavoro, sovvertendo l'onere probatorio e richiedendo una collaborazione nella individuazione degli accomodamenti possibili non prevista neanche per il repêchage ordinario in mansioni inferiori, oramai esteso dal recesso per sopravvenuta inidoneità fisica alle ipotesi di soppressione del posto di lavoro per riorganizzazione aziendale ...».
Ancor più recentemente i giudici hanno ritenuto insufficiente per il datore di lavoro aver dimostrato il rispetto dell’onere di repêchage, dovendo anche dimostrare di avere cercato soluzioni e strategie alternative di conservazione del posto, poiché «il comportamento dovuto si caratterizza non tanto, in negativo, per il divieto di comportamenti che violano la parità di trattamento, quanto piuttosto, in positivo, per il suo profilo di azione volta alla ricerca di misure organizzative ragionevoli idonee a consentire lo svolgimento di un'attività lavorativa, altrimenti preclusa, a persona con disabilità; dunque "l'onere gravante sul datore di lavoro potrà essere assolto mediante la deduzione del compimento di atti o operazioni strumentali rispetto all'avveramento dell'accomodamento ragionevole, che assumano il rango di fatti secondari di tipo indiziario o presuntivo, i quali possano indurre nel giudicante il convincimento che il datore abbia compiuto uno sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata che scongiurasse il licenziamento, avuto riguardo a ogni circostanza rilevante nel caso concreto" (Cass. n. 6497 del 2021)» .
Appare allora condivisibile la posizione di quella dottrina che rileva come «secondo una lettura sistematica delle norme a tutela dei lavoratori disabili in caso di licenziamento, l’obbligo di matrice comunitaria di adottare “accomodamenti ragionevoli” è tale da condizionare “a monte” e strutturalmente il potere di recesso. Obbligo che viene dunque ad operare in maniera trasversale, in linea di massima in una fase preliminare rispetto all’obbligo di repêchage».
Risulta infine particolarmente rilevante quella posizione dei giudici di legittimità, che hanno riconosciuto un vero e proprio diritto allo smart working, come misura ragionevole di accomodamento. Nel caso specifico, la Corte di Cassazione ha ritenuto che l’introduzione dello smart working non fosse solo una misura vantaggiosa, ma un obbligo legato alla protezione dei diritti fondamentali del lavoratore, che non comprometteva la produttività. I costi per la strumentazione e l’eventuale formazione, non sono stati ritenuti eccessivi per il datore di lavoro .
Questa decisione segna un ulteriore step, poiché riconosce in modo chiaro che il lavoro agile rappresenta un vero e proprio diritto per i lavoratori con disabilità, quando necessario ad agevolare l’esercizio delle loro funzioni, creando un contesto più confacente e senza discriminazioni. Sebbene non sempre lo smart working sia applicabile a tutte le mansioni, è quindi d’obbligo per i datori di lavoro interrogarsi sulla opportunità di individuare ogni possibile modalità alternativa, che rispetti le esigenze del lavoratore disabile.

7. Gli accomodamenti ragionevoli nel d.lgs. 3 maggio 2024, n. 62: il consolidamento normativo di un principio in evoluzione
La riflessione sin qui condotta consente di collocare l’ultimo intervento del legislatore nazionale, in termini temporali – il d.lgs. 3 maggio 2024, n. 62, attuativo della legge n. 227 del 2021 – in una traiettoria interpretativa già da tempo tracciata dalla giurisprudenza nazionale e sovranazionale, nonché dalle fonti sovranazionali di rango convenzionale e unionale. Il decreto legislativo in parola si inserisce nel solco di un processo evolutivo che ha visto l’accomodamento ragionevole trasformarsi da mero strumento tecnico, con funzione di adeguamento individualizzato, a vero e proprio presidio del principio di eguaglianza sostanziale, volto a garantire l’effettività del diritto al lavoro delle persone con disabilità e, più in generale, dei soggetti in condizione di vulnerabilità.
L’articolato normativo, nel riformulare organicamente la disciplina in materia di disabilità, introduce una definizione puntuale di accomodamento ragionevole, valorizzandone la funzione inclusiva e precisandone le condizioni di legittima attuazione, nonché i limiti connessi all’onere sproporzionato o eccessivo. Al contempo, il decreto si propone di rafforzare i meccanismi di garanzia e di controllo, promuovendo un approccio sistemico alla disabilità che coinvolge non solo i datori di lavoro pubblici e privati, ma anche l’intera rete istituzionale, educativa e sociale.
Oltre ad intervenire sulla definizione della «condizione di disabilità», sull’unificazione procedurale sotto la competenza dell’INPS dei procedimenti volti all’accertamento di tali condizioni, a prevedere l’introduzione del «progetto di vita» volto all’inclusione e partecipazione sociale della persona con disabilità, la disciplina contiene anche previsioni di immediato e specifico interesse lavoristico, sotto il profilo che qui stiamo trattando. In particolare, l’art. 17, introducendo un nuovo art. 5-bis alla legge 104 del 1992, prevede una disciplina legale degli accomodamenti ragionevoli da tempo nota alla giurisprudenza e a cui mi limito. Nel comma 1 del nuovo art. 5 bis (legge 104/92) si stabilisce che: «Nei casi in cui l’applicazione delle disposizioni di legge non garantisca alle persone con disabilità il godimento e l’effettivo e tempestivo esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali, l’accomodamento ragionevole […] individua le misure e gli adattamenti necessari, pertinenti, appropriati e adeguati, che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo al soggetto obbligato». Al comma 3 dell’art 5 bis, individua le basi del procedimento indicando che «La persona con disabilità …..ha la facoltà di richiedere, con apposita istanza scritta, alla pubblica amministrazione, ai concessionari di pubblici servizi e ai soggetti privati l’adozione di un accomodamento ragionevole, anche formulando una proposta». L’accomodamento ragionevole quindi è ora definito come l’insieme di misure e adattamenti che possono essere richiesti alle amministrazioni, ai concessionari di pubblico servizio e ai privati – anche nella loro veste di datori di lavoro – per garantire i diritti della persona con disabilità, quando allo scopo non sia sufficiente il rispetto delle previsioni di legge.
Secondo le nuove previsioni, l’interessato ha facoltà di presentare istanza scritta al soggetto obbligato – ad esempio, il datore di lavoro – per l’adozione di un accomodamento ragionevole, anche formulando una proposta la cui possibilità di accoglimento dovrà essere verificata ai fini di una decisione. L’istante ha diritto di essere coinvolto nel procedimento e nelle valutazioni per l’adozione degli accomodamenti, che devono essere individuati secondo un criterio di ragionevolezza, non potendosi comunque imporre un onere sproporzionato, rispetto alla sostenibilità organizzativa ed economica dell’impegno richiesto, in un’ottica di proporzionalità.
Ricordo poi che la recente riforma prevede che al rifiuto ingiustificato di adottare gli accomodamenti ragionevoli è possibile reagire con ricorso all’autorità giudiziaria (legge n. 67 del 2006) e, adesso, anche con richiesta alla recentemente istituita Autorità Garante nazionale dei diritti delle persone con disabilità, volta alla verifica della discriminatorietà del rifiuto .
In tale prospettiva, il d.lgs. n. 62/2024 rappresenta una tappa significativa – ancorché non conclusiva – nel percorso di progressiva implementazione dei principi affermati dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità e dalla Direttiva 2000/78/CE, contribuendo a definire un quadro normativo più chiaro e vincolante in tema di accomodamenti ragionevoli. Esso si presta, pertanto, a essere letto come un momento di consolidamento e, al tempo stesso, di rilancio delle politiche di inclusione e non discriminazione nel mondo del lavoro.

8. CONCLUSIONI.
Da quanto abbiamo visto, possiamo dire che oggi esistono alcuni punti fermi:
In primis, il disabile non può ricevere lo stesso trattamento riservato a tutti i lavoratori (anche nell’ambito di istituti quali il comporto), perché si realizzerebbe un caso di discriminazione indiretta (in violazione della direttiva 2000/78/CE in tema di parità delle condizioni di lavoro e, oggi, della l. n. 67/2006 che promuove «la piena attuazione del principio di parità di trattamento e delle pari opportunità nei confronti delle persone con disabilità»).
Quando il datore di lavoro è a conoscenza della condizione di disabilità, deve attivarsi per concedere al lavoratore un «accomodamento ragionevole» ai sensi dell'art. 3-bis del d.lgs. n. 216/2003, in ogni fase – incluse quelle assuntiva o estintiva - del rapporto.
La nozione di disabilità è «espansiva», poiché può avere a che fare con diverse patologie, che consentono però un trattamento specifico e differenziato solo se collegate alla disabilità. Ciò implica quindi che la disciplina degli accomodamenti ragionevoli, così come interpretata alla luce dei passaggi che abbiamo potuto evidenziare, non si traduce nell’addossare ad libitum ed in via esclusiva sul datore di lavoro il peso della tutela del lavoratore disabile assente per malattia, perché ciò significherebbe spostare sul privato, in violazione degli artt. 38 e 41 Cost., oneri che competono al sistema pubblico.
Se il datore di lavoro adotta un licenziamento per superamento del comporto senza avere predisposto i dovuti accomodamenti ragionevoli, il provvedimento è nullo, sia ai sensi dell'art. 18, primo comma, della l. n. 300/1970 e dell'art. 2 del d.lgs. n. 23/2015.
La strada dell'implementazione di accomodamenti ragionevoli presenta pertanto sia sfide per le aziende, che opportunità. Tra le sfide, dobbiamo certamente annoverare i costi di implementazione e le possibili resistenze culturali, oltre che le oggettive difficoltà organizzative che a volte il datore di lavoro può incontrare nella rimodulazione di turni, mansioni, aspetti ambientali ed organizzativi. Tuttavia, le opportunità sono significative: possiamo immaginare l’aumento della produttività, il miglioramento del clima aziendale, lo stimolo all'innovazione e il rafforzamento della responsabilità sociale d'impresa, oltre che l’aspetto virtuoso del trattamento non discriminatorio ed integrativo delle persone affette da disabilità.
L'adozione di accomodamenti ragionevoli andrebbe quindi vista non solo in un’ottica di obbligo legale, ma anche di opportunità, per creare ambienti di lavoro più inclusivi ed efficienti.
Guardando al futuro, si può forse prevedere – certamente auspicare - un'evoluzione del concetto di accomodamento ragionevole in risposta ai cambiamenti del mondo del lavoro, come l'aumento del lavoro da remoto e i continui cambiamenti legati alla gig economy. Sarà pertanto di fondamentale importanza continuare ad adattare le normative e le pratiche, per garantire che tutti i lavoratori, indipendentemente dalle loro vulnerabilità, possano partecipare pienamente e equamente al mondo del lavoro. Si tratta in fondo di quel principio, assai banale se vogliamo, su cui si è fondata a suo tempo la riforma dell’intero collocamento mirato nel 1999: la persona giusta al posto giusto (anche adattato, se necessario), può e deve essere una risorsa per l’impresa che, se giustamente non è chiamata a fare l’ente assistenziale, certamente rappresenta nel mercato la sede in può avvenire la realizzazione di diritti fondamentali nel mondo del lavoro.

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