testo integrale con note e bibliografia

1. Il CRPD e gli atti di interpretazione della Convenzione

Benché siano ancora molti e complessi gli sforzi da compiere per assicurare la piena ed effettiva inclusione sociale delle persone con disabilità, è fuor di dubbio che oggi esse beneficino del più elevato livello di tutele mai riconosciuto nella storia dagli ordinamenti giuridici.
A livello sovranazionale, la conferma più evidente di tale assunto si rinviene senz’altro nella Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità del 2006 che, oltre ad annoverarsi tra le Convenzioni con il più alto numero di ratifiche, segna un autentico ‘spartiacque’ nella millenaria relazione tra disabilità e diritto .
La ragione di ciò si rintraccia non solo nella previsione di avanzate misure di tutela delle persone con disabilità in ogni ambito della vita associata, ma anche nell’aver elevato le disposizioni convenzionali a supporto interpretativo di principi in buona parte già presenti negli ordinamenti interni , ma ora declinati specificamente sulla condizione e sulle esigenze della persona con disabilità.
Prova ne è, ad esempio, che a livello comunitario la Corte di giustizia, pur negando espressamente la diretta applicabilità delle disposizioni della Convenzione nell’ordinamento europeo , ha affermato – per quanto qui interessa – che la Direttiva CE 2000/78 deve essere oggetto “nella maggior misura possibile, di un’interpretazione conforme alla Convenzione” , con ciò vincolando indirettamente anche l’interprete nazionale chiamato ad applicare la normativa domestica (il d.lgs. n. 216/2003) che recepisce quella comunitaria (la Dir. CE 2000/78).
Sotto altra prospettiva, anche la Corte costituzionale italiana non ha mancato di considerare le disposizioni della Convenzione per integrare l’interpretazione di un parametro di costituzionalità che, tuttavia, il Giudice delle leggi tende a rinvenire entro i confini dell’ordinamento domestico, e che sembra ex se sufficiente a dirimere la q.l.c. di volta in volta considerata .
Lo stesso dicasi per la giurisprudenza ordinaria, che assume la Convenzione a parametro interpretativo di disposizioni di diritto interno senza, però, attribuirvi diretta applicabilità .
Ciò chiarito, occorre allora chiedersi se nell’ interpretare la normativa comunitaria e nazionale “nella misura più possibile conforme alla Convenzione” occorra tenere in considerazione o finanche attenersi – come sembra suggerire parte della dottrina – a quanto statuito dal Comitato Onu sui diritti delle persone con disabilità di cui all’art. 34 della Convenzione (di seguito anche solo “CRPD”).
Il CRPD – attualmente composto da diciotto membri , che operano “a titolo personale”, in ragione della loro “personalità di alta autorità morale e di riconosciuta competenza ed esperienza” nel settore della disabilità – svolge, infatti, diverse funzioni, alcune delle quali potenzialmente idonee ad influenzare il processo ermeneutico degli interpreti comunitari e domestici.
La prima di tali funzioni è connessa alla c.d. “reporting procedure”, attraverso la quale periodicamente gli Stati sono chiamati a dare conto del grado di attuazione della Convenzione nel proprio ordinamento (art. 35) . All’esito della trasmissione del report ad opera dello Stato parte, il Comitato formula ai sensi dell’art. 36 le c.d. “osservazioni conclusive”, contenenti “i suggerimenti e le raccomandazioni di carattere generale che ritiene appropriati” per rafforzare ulteriormente lo stato di attuazione della Convenzione nel singolo contesto nazionale. Si tratta, con ogni evidenza, di atti attraverso i quali il Comitato offre un’interpretazione delle disposizioni convenzionali per come implementate dal diritto interno. La dottrina prevalente riconduce simili “osservazioni” ad atti di soft law, con la conseguenza che, pur dovendo essere prese in considerazione dagli Stati che ne risultano destinatari , esse rimangono pur sempre prive di carattere cogente.
Una seconda funzione è connessa alla prerogativa del CRPD di trasmettere propri “suggerimenti” ed “eventuali raccomandazioni” (le c.d. “views” ) in ipotesi di violazione delle disposizioni della Convenzione (e, nel caso di violazione accertata, anche indicazioni circa i rimedi da adottare) tanto allo Stato parte, quanto al postulante che abbia attivato la procedura di ricorso individuale allo stesso CRPD disciplinata dal Protocollo opzionale della Convenzione . Posto che anche in questo caso il CRPD offre la propria interpretazione di disposizioni convenzionali in combinato con quelle di diritto interno , la dottrina prevalente, seppur in presenza di posizioni di segno contrario , sembra essersi orientata nel ritenere anche le views come giuridicamente non vincolanti per gli Stati, accostandole, piuttosto, a raccomandazioni dall’elevato valore “morale” che gli Stati rimangono liberi di osservare o meno. Ciò, soprattutto alla luce della natura non giurisdizionale del Comitato e dell’assenza di meccanismi di enforcement delle decisioni in caso di inosservanza .
Altrettanto sembra potersi dire dei “commenti” e delle “eventuali raccomandazioni” rese all’esito del procedimento d’indagine (c.d. “inquiry procedure”) avviato dal CRPD in caso di “violazioni gravi o sistematiche da parte di uno Stato Parte dei diritti stabiliti dalla Convenzione” di cui all’art. 6 del Protocollo opzionale.
Di gran lunga più interessante ai nostri fini, invece, è la redazione dei c.d. “General Comments”, attraverso i quali il CRPD si propone di assicurare un’interpretazione uniforme delle disposizioni della Convenzione, garantendone nel contempo sia una crescente applicazione, sia l’adeguamento alla realtà in trasformazione. Non a caso i “Working methods of the Committee on the Rights of Persons with Disabilities” – che regolano la pubblicazione dei General Comments, visto che non sono espressamente disciplinati dalla Convenzione – statuiscono al pt. 54: “the Committee may formulate general comments with regard to articles, observations or specific themes concerning the Convention, with the aim of assisting States parties in the implementation of the Convention, and to encourage international organizations and NGOs to efficiently foster the realization of the rights established under the Convention”.
Benché, come anticipato in precedenza, alcuni autori ritengano tali atti di interpretazione vincolanti per gli interpreti nazionali e comunitari, diversi argomenti sembrano deporre in senso contrario.
In primo luogo, vi è il tenore letterale dello stesso pt. 54 dei Working Methods, il quale individua la finalità di tali atti nel mero supporto all’implementazione dei principi della Convenzione da parte degli Stati, i quali, pur avendo l’obbligo di considerarne in buona fede il contenuto, anche alla luce del dovere di cooperazione ex art. 37, par. 1, della Convenzione, sembrano comunque rimanere non giuridicamente vincolati alla loro osservanza, mantenendo, invece, ampia discrezionalità.
Appare, dunque, convincente la posizione di chi ritiene che i “general comments tend to range from describing what the law is to articulating what the law should be: from business-as-usual to best practice” .
A sostegno di tale soluzione sembra poi essersi pronunciata anche l’International Court of Justice , la quale - anche se con riferimento a General Comments rilasciati da altro Comitato – ha statuito che: “although the Court is in no way obliged, in the exercise of its judicial functions, to model its own interpretation of the Covenant on that of the Committee, it believes that it should ascribe great weight to the interpretation adopted by this independent body that was established specifically to supervise the application of the treaty. The point here is to achieve the necessary clarity and the essential consistency of international law, as well as legal security, to which both the individuals with guaranteed rights and the States obliged to comply with treaty obligations are entitled” .
Per quanto, dunque, non giuridicamente vincolanti, sembra ragionevole ritenere che i General Comments - così come gli altri atti di interpretazione del CRPD – debbano essere presi in seria considerazione da parte degli interpreti comunitari e domestici, che rimangono tuttavia liberi di discostarsene ma che, nel farlo, dovrebbero forse darne adeguata motivazione.
Eventualità che, come si dirà a breve, sembra non essere stata considerata dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale pronunciatasi su alcuni profili relativi ai ragionevoli accomodamenti.

2. Gli orientamenti del CRPD in materia di ragionevoli accomodamenti: la “ragionevolezza” dell’accomodamento

Mentre sul contenuto “multiforme” dell’obbligo di introdurre ragionevoli accomodamenti l’orientamento della Corte di giustizia e della giurisprudenza nazionale (per il solo ambito lavorativo) si pone in continuità con quello del CRPD (che guarda, invece, all’accomodamento come misura di inclusione “generale” in ogni ambito della vita associata), una prima differenza si rinviene in relazione a uno dei due criteri che intervengono a circoscrivere il concreto contenuto di tale obbligo, vale a dire quello di ragionevolezza. Criterio che, come noto, tanto nella Convenzione, quanto nella legislazione comunitaria e nazionale si accompagna a quello di proporzionalità dell’onere finanziario, rispetto al quale, però, si connota come pienamente distinto e autonomo. Il criterio della proporzionalità, infatti, riguarda una valutazione successiva al vaglio di ragionevolezza : solo dopo aver verificato che l’accomodamento è ragionevole si passa a valutare se il relativo onere finanziario è anche proporzionato, così rendendo la sua adozione obbligatoria per il datore.
Ebbene, per il Comitato la ragionevolezza si riferisce all’attitudine dell’accomodamento a raggiungere lo scopo per cui deve essere adottato e al suo grado di aderenza alle specifiche esigenze della persona con disabilità. Osserva il CRPD che «“reasonable” should not be misunderstood as an exception clause; the concept of “reasonableness” should not act as a distinct qualifier or modifier to the duty. It is not a means by which the costs of accommodation or the availability of resources can be assessed, this occurs at a later stage, when the “disproportionate or undue burden” assessment is undertaken. Rather, the reasonableness of an accommodation is a reference to its relevance, appropriateness and effectiveness for the person with a disability. An accommodation is reasonable, therefore, if it achieves the purpose (or purposes) for which it is being made, and is tailored to meet the requirements of the person with a disability» .
In buona sostanza, per il CRPD il requisito della ragionevolezza indica il grado di effettività della singola misura rispetto all’esercizio del diritto – nel nostro caso, al lavoro – che mira a rendere esercitabile in condizione di piena parità con gli altri consociati .
Diversa, invece, è la ricostruzione operata dalla Cassazione.
In una dotta pronuncia del 2021 , richiamata anche dalla giurisprudenza successiva, gli Ermellini scelgono di rintracciare il fondamento di tale criterio non tanto nella Convenzione (per l’ambito lavorativo segnatamente negli artt. 2, 5 e 27), ma nel combinato disposto degli artt. 1175 e 1375 c.c. con l’art. 2 Cost., da cui discende un generale“ canone di correttezza e buona fede che presidia ogni rapporto obbligatorio contrattuale (…) e che risulta immanente all’intero sistema giuridico, in quanto riconducibile al dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost.”.
In questa prospettiva, il vaglio di ragionevolezza, più che il grado di effettività dell’accomodamento, sembra misurare la sua idoneità a dirimere ipotesi di “comparazione di diritti e aspettative in materia di lavoro”, anche “avuto riguardo all'interesse di altri lavoratori eventualmente coinvolti” dalla specifica misura organizzativa. Il fine, quindi, è quello di “orientare prima il destinatario della norma ad individuare il comportamento dovuto e poi, eventualmente, il giudice” a “misurare l’esattezza dell’adempimento” specie quando la misura introdotta spieghi effetti anche verso terzi (si pensi, ad esempio, alla modifica delle mansioni o al trasferimento dei colleghi). In questa ipotesi, per valutare se l’accomodamento sia ragionevole o meno la Corte enuclea un ulteriore criterio, ossia quello della “tollerabilità considerata accettabile secondo la comune valutazione sociale”, esperendo un tentativo di sistematizzazione che, per quanto meritorio, sembra aprire ulteriori problemi: qual è, in concreto, la misura di questa tollerabilità? La sua valutazione – che va operata dal giudice necessariamente caso per caso – non rischia di incrementare il livello di incertezza giuridica nell’applicazione quotidiana della misura?
Oltre a questi profili di incertezza che fisiologicamente permangono nel sistema, la diversa ricostruzione del criterio di ragionevolezza operata dalla Cassazione non è di poco conto, specie se si considera che, ove si aderisse invece a quella del Comitato incentrata sulla persona del beneficiario (e non sui terzi che possono subire gli “effetti” della misura stessa), si potrebbe fondare proprio sul criterio di ragionevolezza il fondamento del principio di necessaria partecipazione della persona con disabilità al procedimento di individuazione dell’accomodamento.
Allo stato, infatti, l’adozione di un metodo “partecipato” per l’individuazione dell’accomodamento non è la regola. Se è vero che – come osserva proprio il CRPD – «to fall within the concept of reasonable accommodation, the changes need to be negotiated with the individual» , è altrettanto vero che in ambito lavorativo la libertà di scelta del beneficiario circa l’accomodamento in concreto da adottare sembrerebbe prima facie cedere di fronte all’esclusiva potestà datoriale sulla conformazione dell’organizzazione.
Se, però, come fa il CRPD, si ritiene che la ragionevolezza dell’accomodamento misuri la sua intrinseca attitudine a raggiungere lo scopo per cui deve essere adottato (nel nostro caso, rendere il diritto al lavoro esercitabile in condizione di piena parità con gli altri), ciò determina la necessaria considerazione delle specifiche esigenze della persona con disabilità in quel dato momento. Valutazione che, spesso, è solo il beneficiario a poter consentire nell’ambito di un confronto con il datore (o, a seconda dei casi, con il medico competente) .
Ne deriva che l’accomodamento sarebbe ragionevole in tanto in quanto risponde alle specifiche esigenze del lavoratore, da quest’ultimo indicate nell’ambito del procedimento di confronto con il datore.
Così facendo, il fondamento dell’obbligo di rendere partecipe il lavoratore nella scelta della misura di accomodamento si rinverrebbe in seno alla Convenzione stessa (e segnatamente nell’ambito del vaglio di ragionevolezza), senza la necessità di dover ricorrere, come ha recentemente fatto la Corte di cassazione , a fonti di rango diverso, come il d.lgs. n. 62/2024, incrementando così la già notevole asistematicità del quadro normativo.

3. (segue) il momento genetico dell’obbligo

Una seconda differenza si rinviene con riguardo alla fase genetica dell’obbligo di introdurre ragionevoli accomodamenti.
Posto che in nessun livello dell’ordinamento esistono disposizioni di diritto positivo che esplicitamente chiariscono quando tale obbligo sorge, il CRPD e la giurisprudenza maggioritaria (tanto comunitaria, quanto nazionale) si sono attestate su due posizioni diametralmente opposte.
Il CRPD, dopo una prima fase in cui sembrava propendere per subordinare la genesi dell’obbligo alla sola insorgenza del bisogno dell’accomodamento in capo al beneficiario (“the moment an individual with an impairment needs it in a given situation”) , muta la propria posizione a partire dal Commento generale 3/2016. In quest’ultimo Commento statuisce che l’obbligo sorge “from the moment a person requests it in a given situation in order to enjoy his or her rights on an equal basis in a particular context” . Interpretazione ripresa dal CRPD anche successivamente , assumendo un tenore ancor più netto in quei commenti focalizzati proprio sui ragionevoli accomodamenti, ossia il Commento generale 6/2018 (relativo al principio di eguaglianza e al divieto di discriminazione) e il Commento generale 8/2022 (specificamente dedicato al diritto al lavoro) . Farebbero eccezione, secondo il CRPD, i casi in cui la condizione di disabilità (e l’esigenza di adottare l’accomodamento) divenga “evidente al datore” , il quale dovrebbe allora attivarsi autonomamente per valutare e individuare con il lavoratore la specifica misura da introdurre .
Come detto, la giurisprudenza nazionale maggioritaria – recependo pedissequamente quanto statuito dalla Corte di giustizia – si è, invece, assestata su una posizione diametralmente opposta, a mente della quale l’obbligo sorge contestualmente all’insorgenza della condizione di disabilità, a prescindere tanto dalla richiesta del beneficiario, quanto dalla conoscenza che il datore possa averne.
Questo orientamento si è formato, come noto, essenzialmente sui casi di licenziamento per superamento del periodo di comporto , nei quali il lavoratore con disabilità – che per la sua condizione è più propenso ad assentarsi per malattia – non aveva previamente comunicato al datore né la propria condizione di disabilità, né che ad essa fossero connesse almeno parte delle sue assenze .
In tali ipotesi riconducibili alla discriminazione indiretta, dovendo porre l’accento non tanto sulla condotta, ma sull’effetto discriminatorio da quest’ultima determinato, la Cassazione ha finito per escludere qualsivoglia rilevanza alla volontà e alla conoscenza del datore .
Si tratta, però, di una soluzione che non convince, specie se considerata alla luce del quadro complessivo dei principi sanciti dalla Convenzione.
È certamente vero che subordinare l’insorgenza dell’obbligo alla richiesta del prestatore potrebbe limitare l’operatività della tutela antidiscriminatoria : se quest’ultimo, infatti, versasse nel timore di possibili ritorsioni o fosse inconsapevole dei suoi diritti, potrebbe non avanzare alcuna richiesta.
È altrettanto vero, però, che se si ritenesse il datore obbligato ad agire sempre motu proprio per l’introduzione degli accomodamenti, a prescindere da qualsiasi richiesta del lavoratore, si esporrebbe il primo al rischio di imporre misure di adattamento non necessarie, o, ancor peggio, non volute dalla persona con disabilità. Se così fosse, tale imposizione si risolverebbe nella violazione non solo dell’art. 41 Cost. (in quanto sconnessa da qualsivoglia reale “utilità sociale”), ma soprattutto del principio di autodeterminazione del lavoratore con disabilità, il quale – salvo che l’accomodamento non funga anche da misura di prevenzione di cui al d.lgs. n. 81/2008 – ha tutto il diritto di rifiutarlo o di non richiederlo .
Opinando in senso contrario si determinerebbe l’eterogenesi dei fini dell’accomodamento, che da strumento di inclusione diverrebbe strumento di limitazione del fondamentale diritto all’autodeterminazione del beneficiario, tutelato dalla Convenzione (art. 3, par. 1, lett. a), dalla Costituzione (art. 2) e dalla Direttiva CE 2000/78, aprendo dunque la strada al ritorno ad un approccio regolativo paternalistico che frustrerebbe la volontà della persona con disabilità (anche di non avvalersi dell’accomodamento), e di conseguenza la sua dignità.
Sembra, quindi, che subordinare la genesi dell’obbligo alla richiesta del prestatore – così come sostenuto dal CRPD – sia la soluzione che meglio si concilia con l’obiettivo di fondo della Convenzione, ferme comunque restando le due eccezioni già menzionate. La prima, in cui la condizione di disabilità è evidente al datore, vedrà quest’ultimo obbligato ad attivarsi per avviare il procedimento di individuazione condivisa dell’accomodamento a prescindere da qualsivoglia richiesta del beneficiario. La seconda, invece, si ha quando l’accomodamento è nel contempo anche misura di prevenzione ex d.lgs. n. 81/2008: in tal caso il datore – anche per il tramite del medico competente – è obbligato ad attivarsi anche unilateralmente per individuare i potenziali rischi, anche se connessi alla condizione di disabilità del lavoratore, imponendo l’adozione dell’accomodamento/misura di prevenzione. Dal canto suo, però, ai sensi dell’art. 20 del d.lgs. n. 81/20008, anche il lavoratore è tenuto a cooperare con il datore, sia utilizzando tale accomodamento/misura di prevenzione, sia dando conto (al medico competente) della propria condizione quando questa possa determinare situazioni di pericolo per sé o per altri.
Che questa sia la soluzione maggiormente in linea con lo “spirito” della Convenzione lo conferma anche il fatto che argomentare in senso difforme significherebbe avallare il rovesciamento della funzione tipica dell’accomodamento, che da strumento di inclusione diverrebbe strumento essenzialmente rimediale. Sanzionare il datore “inconsapevole” determinerebbe, infatti, che la funzione dell’accomodamento non sia più quella di consentire ex ante al prestatore di “abitare” in condizione di parità con gli altri il contesto lavorativo, ma semplicemente di sanzionare ex post la condotta (incolpevole) del datore, comunque discriminatoria.

4. Considerazioni finali

Per quanto, lo si è detto, gli atti di interpretazione delle disposizioni convenzionali resi dal CRPD non siano giuridicamente vincolanti, sarebbe comunque opportuno venissero valutati con maggiore attenzione dagli interpreti, sia comunitari che domestici.
Considerando i soli profili della ragionevolezza dell’accomodamento e del momento genetico dell’obbligo, si è potuto comprendere come la soluzione fatta propria dalla giurisprudenza – che si è ampiamente discostata dall’interpretazione del CRPD – abbia determinato l’insorgenza di alcune potenziali distorsioni, le quali rischiano vuoi di elevare il tasso di asistematicità delle fonti (imponendo di ricorrere a disposizioni normative interne, come il d.lgs. n. 62/2024, per giustificare principi già saldamente enunciati dalla Convenzione stessa, come quello della partecipazione all’individuazione della misura), vuoi di distorcere la funzione primaria di un istituto cardine come quello dei ragionevoli accomodamenti, che da strumento di inclusione diverrebbe strumento rimediale.
Per questa ragione sarebbe quanto mai auspicabile che in futuro gli interpreti intensifichino il dialogo – anche conflittuale – con gli atti di soft law emessi dal CRPD, così da poter assicurare uno sviluppo della giurisprudenza comunitaria ed interna maggiormente coerente con i principi fondanti della Convenzione di cui il Comitato, pur se attraverso atti privi di cogenza, si rende comunque custode.

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