TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Una premessa inevitabile, l’occasione da non perdere
Il 2020 sarà certamente ricordato per l’emergenza sanitaria da Covid-19, ma ci auguriamo anche per fissare nel tempo un punto di svolta, un decisivo “cultural divide” nel modo di concepire lo sviluppo, il benessere e la crescita.
Già la crisi del 2008 aveva inferto un colpo, a prima vista letale, al modello di accumulazione capitalistica dominante a livello globale, basato sul circuito – presupposto virtuoso, incrementale e illimitato – tra produzione (di beni e ricchezza) e consumi, mostrandone i limiti e le contraddizioni. Gli anni a seguire tuttavia ne avevano rivelato la resilienza. Certo, la crisi, originatasi negli Stati Uniti ma rapidamente propagatasi all’Europa e al resto del mondo, innescatasi nei mercati finanziari ma subito andata a contaminare l’economia reale, i risparmi delle famiglie, l’occupazione e, di fatto, la vita quotidiana delle persone, aveva spinto a invocare un “cambio di paradigma” (Magatti, 2017). La ricchezza prodotta era sì cresciuta, ma per alcuni (paesi e territori, gruppi di persone e singoli individui) a discapito di altri, portando con sé speculazione, indebitamento pubblico e privato, rischi energetici e ambientali, erosione del capitale sociale e istituzionale, sperequazione delle risorse materiali e simboliche, depauperamento delle risorse naturali, diseguaglianze sociali diventate tanto ampie da divenire insostenibili (Sitglitz, 2012). Lungi dall’essere sinonimi, crescita e sviluppo possono procedere separatamente, e la prima può fare a meno di quei tratti - equità, giustizia, benessere sociale, sostenibilità nel lungo periodo – che dovrebbero connotare il secondo. E tuttavia, nonostante il levare di voci critiche e i tentativi di percorrere vie nuove, la messa in discussione del modello di accumulazione non è mai stata netta, la sua capacità attrattiva è rimasta potente e i “correttivi” messi in atto sono di fatto risultati incapaci di mettere davvero a tema la questione della “dimensione qualitativa” dello sviluppo, del suo senso, della sua direzione (Magatti, 2017). Lo sforzo di immaginare un modello di accumulazione fondato su basi diverse, per essere sostenibile e integrale (capace di unire il profilo economico a quello sociale, ambientale e umano) non è mancato ed è fiorito in contesti e gruppi sociali differenti. Tuttavia, l’incapacità – politica, in primis – di voltare davvero pagina ha fatto sì che gli spazi, anche molto significativi, di innovazione si trovassero fianco a fianco con “focolai di disordine” e forti disequilibri sul piano sociale, demografico, politico, economico-finanziario, ambientale (Ibidem).
La pandemia ci ha colto così, in mezzo al guado: già e non ancora. Consapevoli dell’urgenza di cambiare, ma senza aver ben chiara (e condivisa) la direzione del cambiamento. E ci ha bruscamente risvegliati, mettendoci di fronte ad alcune “lezioni”.
Il mondo è interconnesso (anche) nella vulnerabilità, nel rischio. L’interconnessione, anzi l’iper-connessione – intesa come sineddoche di infinite possibilità da cogliere – che fino a poco tempo fa era segno di modernità, di futuro e liberà, oggi si rivela anzitutto foriera di vincoli e responsabilità.
Non siamo semplicemente interconnessi, ma interdipendenti: interdipendenti sono i nostri destini e avere cura l’uno dell’altro è il vero senso di questa interdipendenza.
Gli effetti globali del modello di accumulazione che in particolare le società occidentali hanno perseguito nei decessi passati non possono più essere trascurati, illudendosi che la natura sia una riserva infinita di risorse da sfruttare, illudendosi di poter ignorare che alcuni paesi e alcuni popoli stanno pagando il conto, con cambiamenti climatici capaci di produrre conseguenze drammatiche per milioni e milioni di persone, con flussi migratori sempre più ingenti e disuguaglianze crescenti. Oggi che gli “altri” siamo noi, siamo costretti a riconsiderare la nostra prospettiva.
La nostra condizione umana è segnata dal limite, dalla fragilità, siamo “esposti alla morte” proprio perché siamo “esposti alla vita”. E ne siamo spaventati poiché la cultura iperindividualista e tecno-economicista in cui siamo immersi ha a lungo veicolato la convinzione che potessimo arrivare a governare ogni cosa (perfino di arrivare a manipolare i confini della vita e della morte), con buona pace per l’insicurezza quale tratto caratteristico della vita contemporanea. Come accettare che la scienza medica non ci possa salvare in questo frangente, offrendo immediatamente una soluzione? Soffriamo nel sentire dire che i tempi di un vaccino sono lunghi e indefiniti. E l’insofferenza è dettata quasi più dallo stupore che non dall’umano desiderio di potervi ricorrere al più presto. Così, mentre giustamente celebriamo ogni passo avanti nelle cure per i sintomi più gravi dell’infezione, ci troviamo ugualmente costretti a fare i conti con la nostra condizione di precarietà, di esseri mortali (e interdipendenti). È forse questo l’orizzonte comune che ci serve per ripartire su strade nuove?
La libertà è (paradossalmente) un legame, e necessita di vincoli per sprigionarsi. Lo sviluppo della scienza, della tecnica, l’immaginario consumistico ed edonistico che i media e i social riproducono e pubblicizzano, l’identificazione tra essere/esistere e consumare, ci cullano nell’illusione di poter fare sempre ciò che vogliamo. Il diritto alla libertà intesa come mancanza di vincoli l’abbiamo spinta fino al paradosso, fino a pensare che coincida con la possibilità di controllo su tutto ciò che desideriamo avvenga (o non) e ci riguarda: il corpo, la procreazione, la vita e la morte, i confini del nostro territorio, ecc. Come dire: sono libero perché domino il mondo in cui mi muovo, le relazioni, il destino. Oggi scopriamo invece che il controllo che credevamo di avere è un falso controllo: il limite e il mistero restano di fronte a noi. Il loro controllo totale è impossibile, e se ci ostiniamo a inseguirlo esso si risolve in privazione della libertà: la “sicurezza” si risolve in “gabbia” e si rivolge contro di noi. L’assunzione del limite è il primo passo verso la libertà (Martinelli, 2014).
L’emergenza sanitaria e le sue implicazioni economico-sociali esasperano le disuguaglianze, penalizzano soprattutto chi già lo era, chi si trovava più a margini, con lavori precari, a termine, facilmente sostituibili dalla tecnologia, chi era già in situazioni di povertà, solitudine, malattia: gli anziani soli, ma anche coloro che hanno pochi strumenti per capire cosa sta accadendo, che non hanno dimestichezza con le tecnologie; coloro che già vivevano situazioni di fragilità dei legami famigliari e amicali, di sofferenza negli affetti, che subivano una maggior debolezza sul mercato del lavoro, come le donne, i giovani, gli immigrati. Ed è questo l’aspetto che più ci interessa in questa sede.
Mentre si susseguono analisi e previsioni più o meno fondate e argomentate sul post-Covid e si schierano “apocalittici e integrati”, per dirla à la Eco (1964), un aspetto emerge chiaro: la pandemia e la crisi che ne è derivata funzionano come una lente di ingrandimento che porta alla luce e amplifica le disuguaglianze e le contraddizioni che caratterizzano anche i Paesi cosiddetti più avanzati, incluso il nostro. Come a dire: le disuguaglianze e le contraddizioni esistevano prima della pandemia, non sono delle novità, ma ora, che si sono rafforzate e uscite dall’ombra, reclamano di essere prese considerazione e superate. Tra queste, spicca la “questione femminile”, che si propone ai nostri occhi da diverse angolature.

Milano - Italia: “emergenza donne”
Con un pizzico di fortuna dirà qualcuno, con uno sguardo profetico azzarderà qualcun altro, la Fondazione Ambrosianeum, che ogni anno da trent’anni pubblica a (e su) Milano il Rapporto sulla città, ha dedicato l’edizione 2020 alle donne: La salute, il pane e le rose (Lodigiani, 2020). Decisione presa ben prima che il Covid-19 stravolgesse la vita privata, lavorativa e sociale di milioni di persone in tutto il Paese. E ben prima che l’analisi degli impatti al femminile dell’emergenza sanitaria (elevata disoccupazione, smart working “forzato” ed equilibrismi di conciliazione vita-lavoro, sovraesposizione ai rischi sanitari, sottorappresentazione nelle taskforce governative), elevasse il tema del gender gap (da declinare al plurale) al rango di priorità politica e di questione sociale, da dibattere nelle arene istituzionali e pubbliche, tanto da portare la ministra per le Pari opportunità e la famiglia, Elena Bonetti, a istituire (il 15 aprile 2020) la task force “Donne per un nuovo Rinascimento” (Presidenza del consiglio dei Ministri, Dipartimento per le Pari Opportunità, 2020). Ben prima di tutto questo, perché convinti che Milano fosse una città per molti versi più amichevole di altre verso le donne, eppure la questione femminile restasse centrale. Convinti, dunque, che fosse necessario investigare le concrete condizioni di vita e di lavoro delle donne con una lettura capace di uscire da schemi precostituiti e stereotipi per portare alla luce sia le diseguaglianze che ancora pesano sulle loro chance di realizzazione e sui percorsi personali, famigliari e professionali, sia il loro contributo allo sviluppo della città.
L’emergenza sanitaria ha fatto il resto. Irrompendo nel Rapporto nella fase più delicata di elaborazione, quando larga parte dell’attività di ricerca si era conclusa e molti dei capitoli erano stati scritti, ci ha obbligati a porre in dialogo quanto stavamo scrivendo con quanto stava accadendo, facendo emergere come proprio il contributo femminile allo sviluppo della città fosse tangibile ma, nell’impatto con l’attuale crisi, esposto a pericolose involuzioni.
Come annota Laura Zanfrini (2020, p. 259) proprio sulle pagine del Rapporto, “guardandole da una prospettiva sociologica, le fasi di crisi sono anche, quasi inevitabilmente, momenti di rimescolamento dei rapporti tra i generi”: è accaduto durante le due guerre mondiali nel XX secolo, quando le donne si trovarono a prendere il posto dei loro padri, fratelli e mariti nelle fabbriche e nel lavoro dei campi, ed è accaduto durante le ripetute gravi crisi economiche susseguitesi nel tempo, incluso quella del 2008-2013, quando le donne spesso si sono scoperte meglio capaci di “reggere il peso psicologico e organizzativo della perdita del lavoro e delle difficoltà finanziarie”, e talvolta anche meno esposte alla disoccupazione in quanto concentrate nei settori meno sensibili agli andamenti congiunturali; “a questa legge non sembra sfuggire neppure la crisi innestata dall’emergenza sanitaria” (Ibidem).
Protagoniste della ricerca di soluzioni sostenibili per l’economia domestica e l’organizzazione famigliare, le donne si sono trovate a gestire (co-gestire?) una “duplice doppia presenza”, la loro e quella dei loro compagni/mariti entro mura domestiche più affollate che mai; a dimostrare le loro proverbiali doti di multitasking, e a trasmetterne i segreti agli uomini giocoforza spinti ad acquisire altrettanta duttilità, le une e gli altri tra la ricerca di nuovi equilibri e il rischio di sovraccarichi funzionali. Una sfida che dal punto di vista del rimescolamento della divisione del lavoro in base al genere e degli stili di funzionamento familiare, suggerisce ancora l’Autrice (Ibidem, 260): “potrebbe lasciare in eredità anche una maggiore, reciproca, conoscenza e comprensione dei complessi intrecci (a volte veri e propri equilibrismi) attraverso i quali ognuno di noi tenta di armonizzare lavoro e famiglia, lavoro e vita”, costituendo, per il tema del work-life balance, uno “stress-test involontario”, benefico per la ricerca di un nuovo equilibrio, più sostenibile sia a livello politico e organizzativo, sia a livello personale e relazionale. Insomma, non tutto il male viene per nuocere, come recita il vecchio adagio.
Tuttavia, la situazione è estremamente complessa e sfidante, e, se il momento appare propizio per innescare l’atteso cambio di passo verso una maggiore equità di genere nei diversi ambiti della nostra vita, i rischi non mancano e addirittura potrebbero far regredire su questo fronte.
Le prime rilevazioni effettuate a ridosso della fase più acuta dell’emergenza mostrano non solo che la conciliazione tra il lavoro da remoto e il carico di cura della casa e dei figli o e dei membri fragili della famiglia, accresciuto dal confinamento nelle proprie abitazioni, è stata particolarmente difficile, ma anche che l’impegno ha perlopiù continuato ad essere diviso in modo asimmetrico tra i genitori, gravando soprat¬tutto sulle donne (Del Boca et al. 2020). Una asimmetria evidente soprattutto per quanto concerne le attività domestiche: nel caso in cui entrambi i partner hanno lavorato da casa, hanno visto crescere il carico di lavoro domestico il 65% delle donne contro il 40% degli uomini, e il carico di cura dei figli il 77% delle donne contro il 60% degli uomini (Ibidem).
D’altro canto, la preoccupazione di un arretramento sul piano della parità si è tradotta in prime evidenze già nella fase 2 e aleggia come uno spettro sulla fine dello stato di emergenza, quando terminate le agevolazioni per lo smart working, esaurite le ferie, i permessi e i congedi, molte donne potrebbero trovarsi costrette a scegliere tra lavoro e famiglia, specie se la scuola dovesse nuovamente avere periodi di chiusura. Ma anche senza arrivare a tanto. Come suggeriscono le battute di inizio del nuovo anno scolastico, l’alternarsi tra lezioni in presenza e da casa, gli orari ridotti delle lezioni, gli ingressi posticipati e le uscite anticipate stanno già facendo saltare gli equilibri e le soluzioni organizzative faticosamente raggiunte dalle famiglie, a svantaggio delle donne.
Non è una dinamica nuova. Le ricerche ci insegnano che è il “secondo reddito” ad essere sacrificato nel momento in cui le esigenze famigliari chiedono di “internalizzare” interamente funzioni di cura ed educazione. Inoltre, la crisi impatta in modo articolato sull’occupazione femminile, essendo le donne sovra-rappresentate sia (e soprattutto) in settori che hanno duramente sofferto il lockdown e le restrizioni, come settore il turistico, dell’alberghiero e della ristorazione, sia in settori che non hanno subito i provvedimenti di chiusura, dalla sanità alla grande distribuzione, o che hanno potuto continuare sin da subito a lavorare da casa, come in molti comparti del pubblico impiego e della scuola.
Secondo una nota congiunta Inps-Inapp, rilasciata l’11 maggio 2020, mentre a ridosso del DPCM del 22 marzo l’incidenza delle donne tra settori essenziali (42%) e bloccati (43%) era molto simile, dal 4 maggio l’incidenza delle donne nei settori bloccati (56%) supera quella nei settori essenziali (40%). Di fatto, data la distribuzione del lavoro di uomini e donne nei diversi settori, le misure di contenimento hanno avuto effetti diversi sul lavoro maschile e femminile (Cerniglia et al. 2020, p. 5). D’altro canto, le prime rilevazioni dell’Istat (2020a) mostrano che nella fase 1, l’inevitabile riduzione degli occupati e disoccupati, a cui si è accompagnato l’aumento degli inattivi, è avvenuta soprattutto tra le donne. Secondo una successiva release (Istat, 2020b, 1ss), “dopo quattro mesi di flessioni consecutive, l’occupazione è tornata a crescere grazie soprattutto alle donne, a fronte del calo dell’inattività per entrambi i generi, riflettendosi anche sull’aumento nel numero di persone in cerca di lavoro: l’aumento dell’occupazione su base mensile (+0,4% pari a +85mila unità) coinvolge le donne (+0,8% pari a +80mila), i dipendenti (+0,8% pari a +145mila) e tutte le classi d’età, ad eccezione dei 25-34enni; gli uomini occupati risultano sostanzialmente stabili, mentre diminuiscono gli indipendenti”.
Il quadro è evidentemente in movimento, ma anche solo questi pochi dati sollevano questioni rilevanti.
Anzitutto, la crisi porta alla luce e tende a rafforzare le disuguaglianze già presenti. Sin da prima della crisi, infatti, il lavoro era uno degli ambiti in cui più evidente era il divario di genere: a fine 2019, il tasso di occupazione maschile raggiungeva in Italia il 68%, quello fem-minile il 50,1%, ovvero una donna su due non lavorava; valore che sale al 60,4% al Centro-Nord ma crolla al 33,2% al Sud, contri una media UE a 28 Paesi del 63,3% (Cerniglia, Profeta, 2020).
Inoltre, il divario di genere passa anche attraverso le caratteristiche di quello che possiamo chiamare l’ecosistema del lavoro, che include le imprese e le loro strategie di gestione delle risorse umane, le politiche e i servizi di welfare locali, l’armonizzazione tra tempi di lavoro e tempi di vita delle persone, delle famiglie, delle città e, non ultimo, le forme di (con)divisione del lavoro informale di cura tra uomini e donne. Questo ecosistema è in attualmente sottoposto a forti pressioni e richiede di trovare nuovi equilibri di sostenibilità.
Cosa suggerisce l’esperienza di Milano al riguardo?

Milano “capitale del lavoro femminile” tra luci e ombre
La presenza delle donne nel mercato del lavoro milanese ha registrato negli ultimi anni importanti e indiscutibili avanzamenti; si è rafforzata l’incidenza nelle professioni più qualificate, nelle posizioni dirigenziali e nella categoria delle imprenditrici e libere professioniste. Ne offrono un quadro dettagliato Brunella Fiore ed Egidio Riva (2020, pp. 63-84), nel secondo capitolo del Rapporto sulla città sopra citato.
Considerando solo Milano-città e i/le residenti in età attiva (15-64 anni), si osserva anzitutto la crescente femminilizzazione del mercato del lavoro: tra il 2011 e il 2017 i tassi di attività femminile sono passati dal 67,1% al 70,2% (+3 punti percentuali), mentre quelli maschili sono aumentati meno, dall’80,1% all’81,0%. La crescita dei tassi di attività femminile è dovuta all’incremento del numero sia di occupate – passato da 268,7 a 282,1 mila unità (+5,0%), con un tasso di occupazione arrivato nel 2017 al 65,6% mentre quello maschile è rimasto stabile al 76,0% – sia di disoccupate – cresciuto, anche per effetto degli strascichi della recessione del 2008, da 15,3 a 19,8 mila unità (+29,6%). Il conseguente tasso di disoccupazione è aumentato dal 5,7% al 7,0% tra le donne (+1,3 punti percentuali) e dal 5,4% al 6,5% tra gli uomini (+1,1 punti percentuali) (Ibidem, pp. 69ss). Nel complesso, come annotano gli Autori (Ibidem), con riferimento agli indicatori strutturali, la condizione delle donne sul mercato del lavoro è venuta assomigliando sempre più a quella degli uomini. Tuttavia il discorso in parte cambia se si passa ad analizzare la qualità dell’occupazione. Considerando la posizione nella professione emerge che tra le donne prevale nettamente la categoria dei quadri e degli impiegati (55,1%), seguita da quella degli operai/apprendisti (21,2%) e quindi dai dirigenti (3,4%), mentre tra gli uomini, che si connotano per una maggiore incidenza dell’imprenditoria e del lavoro autonomo (24,7%) e, più in generale, del lavoro indipendente (26,1%), la quota relativa dei quadri e degli impiegati è più contenuta (41,1%), mentre risulta più marcata la percentuale sia di operai e apprendisti (27,1%) sia di dirigenti (5,4%). Con riferimento alle donne, questi dati sono l’esito di un deciso ampliamento della quota relativa delle figure dirigenziali (+3,7 mila unità, pari al +62,2%) e della categoria delle imprenditrici e libere professioniste (+10,6 mila unità, pari al +27,6%), seppure, in termini assoluti, a essere aumentata sia stata, soprattutto, la categoria di quadri e impiegati (+20,8 mila unità, pari al +15,5%). Come chiosano Fiore e Riva (p. 70), peraltro, la modifica intervenuta nella composizione dell’occupazione femminile “non si è tradotta in una chiara e indubitabile riduzione del divario qualitativo esistente tra le mansioni e i compiti svolti dalle donne e quelli in capo, invece agli uomini”. Basti rilevare che tra le prime la crescita in termini relativi delle professioni qualificate e tecniche, oltre che in quelle impiegatizie e degli addetti al commercio e ai servizi, sembra dovuta soprattutto alla contrazione delle professioni non qualificate (-13,9 mila unità, pari al -28,3%). Considerando le tipologie contrattuali del lavoro alle dipendenze, nel complesso si osserva che è aumentata la percentuale di occupazione a tempo determinato (dal 7,9% al 9,8% del totale), ma ciò è avvenuto in modo più incisivo tra gli uomini. Similmente, è aumentata nel tempo la percentuale dell’occupazione a parziale, ma stavolta in modo molto più deciso tra le donne: tra gli uomini il numero di occupati su base part-time è triplicato (da 6,3 a 20,0 mila unità, arrivando a rappresentare il 9,2% del totale dell’occupazione), mentre tra le donne il numero è passato da 40,2 a 62,5 mila unità (+55,4%) e costituisce quasi un terzo (29,1%) del totale occupazionale. Infine, considerando la retribuzione netta mensile si osserva che i due terzi (65,5%) delle donne milanesi occupate alle dipendenze percepiscono al massimo 1.500 euro, mentre solo una quota residuale (3,4%) dichiara una retribuzione netta mensile superiore ai 3.000 euro; per contro tra gli uomini la quota di quanti percepiscono al massimo 1.500 euro rappresenta il 55,6% del totale, mentre il numero di percettori di almeno 3.000 euro mensili raggiunge livelli più che doppi di quelli osservati tra le donne (7,0%), per quanto i dati suggeriscono che dal 2011 ad oggi alcuni passi nella direzione di una maggiore uguaglianza di genere sono stati comunque compiuti, vedendo aumentare per esempio del 10,4% la quota di donne con retribuzioni di livello medio (+10,4% passando da 14,0 a 23,4 mila unità).
Non meno significativo è quanto emerge sul fronte dell’imprenditorialità femminile, che ha trovato nel nostro paese uno specifico sostegno a partire dalla legge n. 215 del 1992 che ha contribuito al deciso sviluppo di questo fenomeno. A Milano, come documentato da Aurora Caiazzo e Riccardo Mozzati (2020, pp. 85-105) nel medesimo Rapporto sulla città, l’imprenditorialità femminile è cresciuta negli ultimi cinque anni a un ritmo superiore alla media del sistema (dove vale il 17,8% del totale), benché il tasso di imprenditorialità femminile nella provincia di Milano resti inferiore a quello medio lombardo (19,4%), presumibilmente in virtù delle migliori condizioni del mercato del lavoro locale. Si tratta di un universo di imprese mediamente “in buona salute”, popolato soprattutto da imprese di piccola o piccolissima dimensione, organizzate in forme giuridiche semplici, comunque capaci di resistere abbastanza bene nel mercato e di creare nuova occupazione, specializzate nel terziario più tradizionale dei servizi alla persona e di welfare (dalle lavanderie ai parrucchieri, agli istituti di bellezza, ai centri wellness, fino agli studi medici, ai servizi per gli anziani e a quelli educativi), ma non prive di capacità innovative sia in questi stessi settori, sia in quelli – in crescita, seppure lentamente – dell’ICT. Come annotano gli Autori (Ibidem), la rilevanza del ruolo delle donne nel mondo delle imprese si coglie anche nell’aumento della loro presenza nei consigli di amministrazione; una presenza, come noto, cresciuta solo di recente, grazie alla legge 120/2011 Golfo-Mosca che ha introdotto le c.d. “quote rosa” nelle società quotate e non quotate a controllo pubblico. La legge, che doveva in origine restare in vigore per 10 anni, e funzionare come “azione positiva transitoria” è ancora un riferimento imprescindibile ed anzi un emendamento alla legge di bilancio del 2020 ha previsto un ulteriore innalzamento al 40% della quota delle donne nei Cda delle suddette tipologie di impresa.
Secondo i dati del Registro delle imprese riportati nel capitolo del Rapporto, a Milano un amministratore (intendendo: amministratori delegati e unici, presidenti e vicepresidenti, consiglieri delegati, ecc.) su cinque è donna (22,1% contro il 24,8% della media nazionale). Guardando però più nel dettaglio notiamo una maggiore presenza nel capoluogo lombardo di amministratori delegati donna rispetto al totale del Paese (30,3% contro il 17,9%), fenomeno legato probabilmente alla maggiore presenza di aziende di medio-grandi dimensioni, di società quotate e di multinazionali. Nel complesso sono quasi 236mila le cariche rivestite da donne a Milano, tra cui si contano, oltre agli amministratori già citati, soci, soci di capitale, titolari d’imprese e altre cariche; esse valgono il 25,8% del totale delle cariche.
Semplificando e sintetizzando, se Milano ha “i numeri” per fregiarsi del titolo di capitale dell’occupazione femminile, ha ancora strada da percorrere per raggiungere l’equità di genere: a sostegno dell’una (l’occupazione femminile) e dell’altra (l’equità di genere), il capoluogo lombardo vanta alcuni punti di forza e alcuni di debolezza.
Come ricordando ancora Fiore e Riva (2020), tra i punti di forza può essere annoverato il fatto che Milano presenti una copertura elevata nei servizi di educazione e cura per i bambini under 3 anni, pari a più di 37 posti per 100 bambini (superiore al benchmark europeo di 33 e, ancor più, alla media regionale che arriva a 26). Un risultato ottenuto anche grazie a “un modello di integrazione flessibile con l’offerta privata (coordinata e monitorata a livello locale), che porta il sistema pubblico a garantire, in convenzione, posti entro il privato” (Ibidem, p. 76). Questa offerta è poi arricchita da una molteplicità di altre possibilità, tra le quali: per le famiglie con bambini in età prescolare, i micro-nidi, centri per la prima infanzia e, dove possibile, sezioni primavera; per le famiglie con bambini in età scolare, il tempo scuola e i servizi pre-scuola e post-scuola. Ciò che consente di registrare a Milano, comparativamente ad altre grandi città italiane, livelli più elevati di richiesta (ed erogazione) di tempo pieno nella scuola primaria (90,4% nell’anno scolastico 2015/2016) (Fiore, 2019).
Tra i punti di forza, continuano gli Autori, vi sono poi le politiche per la gestione e organizzazione dei tempi, degli orari e degli spazi della città. In alcuni casi si tratta di misure e interventi il cui obiettivo principale non è quello di aiutare individui e famiglie a conciliare famiglia e lavoro, ma la cui efficienza ha ricadute indirette sulla qualità della conciliazione (e in definitiva, della vita), come le azioni adottate in campo urbanistico e viabilistico o nel campo della cd. “urbanistica tattica”, volta a migliorare la fruibilità e vivibilità degli spazi pubblici e della città nel suo complesso; o come il Piano dei tempi e degli orari della città, che Milano ha adottato per prima in Europa. D’altro canto le stesse famiglie si stanno attrezzando per rendere più agevole la conciliazione, anche attraverso le tecnologie e la messa a frutto di competenze di digital managing che consentono di assolvere diversi compiti, di cui, come si può immaginare, il fare la spesa on-line è solo la più scontata e la prima ad essere stata ampiamente utilizzata con l’arrivo dell’emergenza sanitaria.
Certo, se mettiamo questi punti di forza in dialogo con le criticità sopra dette rispetto al lavoro, se consideriamo che nonostante tutto l’offerta di servizi di educazione e cura per la prima infanzia ancora non coprono totalmente la domanda, e che proprio questo settore – che comunque è un asset di Milano – è stato messo in scacco dal lockdown e faticosamente sta cominciando a risalire la china, tra protocolli di sicurezza estremamente vincolanti e contrazione dei posti, se consideriamo poi che a Milano il tasso di fecondità delle donne resta tra i più bassi in Italia e in Europa (1,3 figli per donna nel 2018), e l’età media al parto tra le più alte (35 per le italiane, 31 per le donne di origine straniera residenti in città), e il numero di figli avuti minore di quello dei figli desiderati (Rivellini, 2020), nonché il perdurare di un asimmetrica divisione dei compiti di cura, ancora una volta capiamo che la situazione è migliore che altrove ma certamente perfettibile. E c’è da sperare anche almeno a quest’ultimo riguardo, quanto positivamente sperimentato nei mesi di lockdown in termini di condivisione tra genitori entrambi a casa in smart working, si traduca in habitus.

 

Per concludere: un mix di politiche, oltre le pari opportunità
L’esperienza di Milano, seppur solo tratteggiata, ci consegna alcuni spunti di riflessione e piste di approfondimento. L’obiettivo delle pari opportunità tra uomini e donne – considerando qui solo il mondo del lavoro, per cominciare, data l’incisività che questo ambito ha nella vita di tutti noi –ha ancora bisogno di essere posto tra le priorità in agenda, e nell’epoca post-Covid ancora di più. Esso evidentemente necessita, come la vicenda della legge Golfo-Mosca dimostra, di essere sostenuto da “azioni positive” che funzionino come “vincoli benefici” (Streeck, 1997), utili a “creare cultura”. Eppure, per quanto necessari simili interventi non bastano, e sono i dati stessi a confermarlo, così come lo rende evidente la complessità dei fattori che influiscono sull’occupazione femminile e chiamano in causa l’intreccio tra politiche diverse: per la promozione dell’occupazione, per lo sviluppo dei servizi sociali, per la riorganizzazione dei tempi della città e la cura della qualità della vita, per i minori e le famiglie. Non solo. Simili interventi vanno usati con cautela, per evitare l’effetto imprevisto di indurre a “femminilizzare” questioni invece che sono “societarie” in quanto riguardano il benessere dell’intera collettività.
In altri termini, è bene sottolineare l’importanza di declinare il tema delle pari opportunità solo al femminile, ma nel segno dell’uguaglianza tra uomini e donne; un’uguaglianza che peraltro non annulli ma valorizzi le differenze. Emblematica al riguardo è la vicenda della conciliazione vita-lavoro, troppo spesso dipinta come “un problema delle donne” ma che di fatto è un “banco di prova” per lo sviluppo, il benessere e la coesione sociale di un intero territorio (Riva, Zanfrini, 2010). Adottare questa prospettiva societaria consente altresì, come argomenta Zanfrini (2017), di scardinare l’idea che le pari opportunità possano essere raggiunte agendo prevalentemente, per non dire esclusivamente, sul mercato del lavoro, favorendo l’occupazione femminile, senza considerare l’importanza di assicurare tanto alle donne quanto agli uomini l’opportunità di raggiungere un equilibrio tra vita privata e vita di lavoro, riconoscendo nella conciliazione vita/lavoro un diritto alla “vita buona”, un diritto di cittadinanza, universale, che assicuri a ciascuno e ciascuna la possibilità di realizzarsi come persone “non solo attraverso la partecipazione alla sfera professionale, ma anche trovando spazi di soddisfazione e ben-essere nella cura delle relazioni familiari e sociali, nell’impegno civile e solidale, nel tempo libero” (Ibidem, p. 240). In questa prospettiva, l’equità di genere viene elevata a fondamento di un nuovo “patto sociale”, caratterizzato dalla condivisione di diritti, opportunità e responsabilità nelle diverse sfere della vita personale, lavorativa e sociale (Ibidem, p. 241), e la conciliazione vita-lavoro di configura come punto di forza di un welfare rinnovato, abilitante e capacitante, che mira al riequilibrio tra responsabilità collettive e individuali nella gestione dei nuovi bisogni e rischi sociali (Lodigiani, Zanfrini, 2010). Realizzarlo non è però affatto scontato.
Nella discontinuità drammatica che l’emergenza Covid ha introdotto, abbiamo oggi la possibilità di cogliere appieno in senso e il valore di queste affermazioni. Tuttavia, è elevato anche il rischio opposto, di intraprendere un percorso involutivo se non approfittiamo di questo “vincolo esterno” per ripensare la divisione del lavoro sociale, le forme dell’organizzazione sociale e lavorativa, la grammatica della nostra convivenza e dei modi in cui armonizzare vita e lavoro.

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