TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA 

1. Quale libertà per le donne?
La libertà delle donne non è pari a quella degli uomini , né in Italia né nell’UE, e ciò è percepibile non solo analizzando i dati sulle maggiori difficoltà delle donne nell’accesso al mercato del lavoro – nonostante le loro migliori performance scolastiche e universitarie – ma anche esaminando le carriere e i redditi femminili.
Purtroppo l’eguaglianza sostanziale di genere è ancora lontana dall’essere raggiunta e questo impatta negativamente sia sulla vita delle persone sia sulla crescita dei Paesi . Infatti, la segregazione occupazionale e i differenziali reddituali, presenti nel mercato del lavoro italiano nel suo complesso, hanno pesanti ricadute tanto sulle libertà individuali, quanto sul Welfare e sulla società nel suo complesso.
In un contesto globale e locale in cui la c.d. gender equality costituisce ancora un auspicato obiettivo – che l’ONU, tramite l’Agenda per lo sviluppo sostenibile, si propone di raggiungere nel 2030 – ad alimentare gli squilibri già presenti ci ha pensato la pandemia da COVID-19 .
L’emergenza epidemiologica e sanitaria, da un lato, e la connessa e conseguente crisi economica, dall’altro, hanno amplificato le diseguaglianze di genere, oltre che sociali in senso generale, mettendo ancora di più a nudo quanto la conciliazione tra la vita lavorativa e quella privata sia difficile o impossibile in assenza di servizi alla persona, all’infanzia e alla terza età, e di una scuola in presenza, specie in contesti familiari in cui il riparto dei carichi di cura è ancora totalmente sbilanciato a danno delle donne.
Durante questo lungo anno fatto di lockdown, zone rosse, arancioni e gialle, chiusure e aperture a singhiozzo, il peso enorme della gestione dei minori di quattordici anni, dei disabili e degli anziani si è scaricato sulle famiglie e, in particolare, sulle donne.
Lo stesso lavoro agile (o smart working che dir si voglia) , fino a poco tempo fa considerato un’ottima soluzione per agevolare il tanto ricercato “work-life balance”, si è trasformato in una trappola, svelando l’altra faccia della medaglia, quella claustrofobica e ossessiva, in cui l’inesistenza dei confini tra tempi di vita e di lavoro ha reso difficilissimo proprio la conciliazione del lavoro con la cura dei figli, specie se in DAD (ormai noto acronimo di “didattica a distanza”).
Per aumentare l’occupazione generale e contemporaneamente aumentare il tasso di natalità italiano (sempre più in picchiata) , l’unica soluzione è quella di puntare sulle donne , dando loro quelle libertà che chiedono, cioè di poter essere sia lavoratrici sia madri, senza dover scegliere tra l’una cosa o l’altra .
Il Parlamento europeo ha ormai chiara l’essenzialità della «creazione di condizioni del mercato del lavoro favorevoli all'equilibrio tra vita privata e vita professionale», perché solo “se” e “quando” le donne potranno decidere liberamente di essere contemporaneamente lavoratrici e madri, nel modo individualmente auspicato, si potrà invertire la tendenza attuale che sta trasformando tanto l’Italia quanto la maggior parte dei Paesi dell’UE «in una società gerontocratica» e minacciando la crescita e lo sviluppo dal punto di vista sia sociale sia economico .

 

2. Gender gap “salariale” e “reddituale”
Il gender wage gap (cioè il differenziale salariale o retributivo, come viene alternativamente chiamato, tra lavoratori e lavoratrici) è spesso foriero di fraintendimenti interpretativi.
Di esso si legge diffusamente nelle statistiche pubblicate da ISTAT, EUROSTAT, OECD, ILO, Banca d’Italia, CNEL, nei rapporti periodici delle Consigliere di parità, ecc.., ma non si spiega alla luce del fatto che le imprese italiane medie e medio-grandi generalmente applicano i contratti collettivi, almeno di primo livello, potendo, viceversa, sfuggire le imprese più piccole, ma senza provocare, sul piano generale, una significativa assenza di copertura regolativa e protettiva. Ancora meno si giustifica il gender wage gap nell’impiego pubblico, dove la parità di trattamento è prevista per legge (art. 45 d.lgs. n. 165/2001).
La possibilità per un datore di lavoro italiano di retribuire una lavoratrice meno di un lavoratore a parità di mansioni cozza contro tutte le norme di legge (a partire dall’art. 37 Cost. per arrivare sino al D.Lgs. n. 198/2006, passando per le leggi nn. 903/1977 e 125/1991) e di contratto collettivo, ma, allo stesso tempo, la scarsità, nelle banche dati giuridiche, di sentenze che riconoscano condotte di discriminazione retributiva tra uomini e donne, costringono ad ammettere che la lettura dei dati statistici deve essere realizzata in modo più complesso, non potendo essere ricondotta semplicisticamente al fatto che a parità di lavoro le donne vengono pagate di meno.
Una tale conclusione, potrebbe sostenersi solo in relazione a quei contesti aziendali in cui non viene applicato il contratto collettivo, quindi realtà tendenzialmente molto piccole, che vivono ai limiti o al di là della legalità, anche facendo uso di lavoro in tutto o in parte irregolare o sommerso. In questi casi, certamente, la scarsa numerosità di azioni giudiziarie individuali o delle Consigliere di parità (ai sensi degli artt. 36-41 del D.Lgs. n. 198/2006) può essere spiegabile per il timore delle vittime di subire pesanti ritorsioni, pur a fronte di un apparato normativo di protezione che condurrebbe, oltre alla dichiarazione di nullità degli atti discriminatori, anche alla condanna dell’autore delle discriminazioni alla predisposizione di un piano di rimozione delle stesse, nonché alla revoca di benefici, di agevolazioni finanziarie e creditizie e di appalti pubblici.
Nei contesti organizzativi sani, in cui si applicano i contratti collettivi, una differenziazione retributiva tra uomini e donne si può spiegare: da un lato, con il conferimento di superminimi o assegni ad personam solo (o prevalentemente) agli uomini, ma sui quali comunque il datore di lavoro paga la contribuzione e pertanto sono necessariamente conosciuti (e conoscibili) dall’INPS; dall’altro, con una contrattazione individuale più marcata, ad esempio per le posizioni apicali, in cui gli stereotipi di genere, possono fare la differenza e determinare squilibri retributivi.
Ciò detto, resta comunque da spiegare come si concili il gender wage gap rilevato dalle statistiche con la sporadicità di sentenze che riguardano l’accertamento di discriminazioni retributive contro le donne .
Se è vero che l’onere della prova della discriminazione incombe necessariamente sul soggetto che afferma di esserne vittima, è altresì vero che esistono importanti agevolazioni nel caso delle azioni contro le discriminazioni, quali l’ammissione della statistica e l’inversione parziale dell’onere della prova (art. 40 del d.lgs. n. 198/2006); inoltre, proprio con riferimento alla discriminazione retributiva, dovrebbe essere più facile dimostrare che, a parità di inquadramento e di mansioni, una donna è retribuita meno di un uomo.
Nonostante questo, come già detto, la giurisprudenza sul gender wage gap è quasi totalmente assente.
A questo punto, la spiegazione di questa discrasia va ricercata altrove.
Appare chiarificatrice la puntualizzazione contenuta nel XVI Rapporto annuale dell’INPS pubblicato a luglio 2017 , laddove si legge che « in Italia, come in tutti gli altri paesi dell’area Ocse, le differenze di genere sono molto più ampie quando si guarda al gap reddituale – che dipende non solo dalle differenze nei salari medi ma anche dalla diversa offerta di lavoro fra uomini e donne, sia in termini di occupazione che di ore lavorate – piuttosto che a quello salariale».
L’INPS mette in luce una fondamentale distinzione che spesso viene (dolosamente o colposamente?) ignorata: gap “salariale” e gap “reddituale” non significano la stessa cosa, intendendosi con la prima espressione il differenziale nei salari medi (ovviamente a parità di lavoro) e con la seconda un concetto più ampio, onnicomprensivo, che tiene conto delle differenze di carriera e di scelte lavorative tra uomini e donne ed è proprio su questo secondo indice che l’INPS si sofferma a ragionare perché è l’unico realmente significativo e in grado di spiegare la scarsità, in Italia, di vertenze sindacali o di contenzioso giudiziale in merito alla supposta discriminazione salariale.
La questione non va, infatti, posta sul piano della diversità di retribuzione oraria tra uomini e donne a parità di inquadramento e mansioni, ma va affrontata da una prospettiva molto più complessa che travalica i concetti della discriminazione diretta per approdare a quella indiretta e andare addirittura oltre, nell’area, cioè delle condotte perfettamente lecite seppur condizionate da stereotipi di genere, a monte e a valle, e dall’inefficacia e inefficienza del sistema italiano di Welfare, impattandosi necessariamente sulle molte difficoltà di conciliazione tra il lavoro produttivo, quello riproduttivo e quello di cura.
Lo squilibrio di genere (culturale e sociale) che c’è a monte, cioè nella ripartizione dei carichi familiari e nella concezione dei ruoli dei genitori nella famiglia, si amplifica cammin facendo, come nell’irrefrenabile precipitare di una valanga, impattando violentemente sia sulle scelte lavorative e sulle carriere delle donne, sia sulle loro scelte riproduttive.
Ecco allora che l’importante distinzione operata dall’INPS tra i concetti di differenziale “salariale” e “reddituale” spiega perché sia possibile anche in Italia, alla luce della amplissima e articolata normativa antidiscriminatoria e della estesa applicazione della contrattazione collettiva, parlare di gender wage gap con cognizione di causa, sapendo leggere il dato statistico oltre l’apparenza e così tentare anche di affrontare correttamente il fenomeno, auspicabilmente individuando delle strategie per arginarlo e, in prospettiva, ridurlo.

 

3. La segregazione occupazionale orizzontale
Nei dati sul gap reddituale è racchiuso anche un elemento non secondario, cioè quello frutto della differenza dei livelli retributivi tra i diversi settori merceologici/contrattuali nonché della sovrarappresentazione femminile in alcuni di questi e della sottorappresentazione in altri.
Le differenze retributive tra settori produttivi e la distribuzione non omogenea di uomini e di donne nei vari settori produce, quale effetto connesso e conseguente, anche quello di un differenziale reddituale di genere . Inoltre, l’alto livello di precarietà lavorativa femminile, cioè una occupazione veicolata tramite contratti a termine, a tempo parziale o intermittente, di lavoro occasionale e di collaborazioni coordinate e continuative, amplifica le differenze reddituali, poiché chi ha un contratto a tempo indeterminato guadagna, comunque, più di chi è precario, se non altro in quanto destinatario degli emolumenti collegati all’anzianità di servizio e con prospettive di progressioni di carriera .
Una fotografia di questo fenomeno, chiamato segregazione occupazionale, viene periodicamente scattata dal Ministero del lavoro con un decreto nel quale si individuano per gli anni di riferimento i settori e le professioni caratterizzati da un tasso di disparità uomo-donna che supera almeno del 25% il valore medio annuo, così mettendo in evidenza la non omogenea presenza femminile nei diversi settori produttivi al fine di individuare l’area di applicabilità degli incentivi per le assunzioni ai sensi del Reg. UE n. 651/2014 e dell’art. 4, comma 11, L. n. 92/2012 .
La mappatura della segregazione occupazionale che emerge non sorprende, specie se leggiamo in parallelo anche i dati forniti da Almalaurea , dal CUN sul mondo universitario , quelli dei bilanci di genere delle Università italiane , quelli della magistratura e del sistema bancario italiano .
Il peccato originale si sconta a partire dalla scelta del percorso di studi, essendo molto spesso condizionata da stereotipi, pregiudizi, tradizioni e retaggi culturali che ripropongono per le donne i c.d. “lavori da donne”, generalmente peggio pagati di quelli considerati “da uomini” e, in ogni caso, considerati socialmente meno prestigiosi, come si evince anche dal linguaggio usandosi generalmente le parole declinate al maschile per i ruoli importanti e apicali, mentre quelle declinate al femminile per contenuti professionali ritenuti più banali (ex multis: “Segretario” e “segretaria”).

 

4. I numerosi soffitti di cristallo
Nel fenomeno del gender wage gap è poi racchiuso anche il precipitato della segregazione verticale, che fotografa la diseguaglianza con riferimento alle chances e alle progressioni di carriera, incidendo conseguentemente sui differenziali reddituali.
Nelle posizioni apicali delle aziende private tradizionalmente vi è una decisa sovrarappresentazione maschile tanto da spingere il legislatore italiano ad approvare la l. n. 120/2011, meglio conosciuta come legge Golfo-Mosca, recante modifiche al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria concernenti la parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati. Questa normativa ha imposto la c.d. quota di genere nei board di alcune tipologie di società al fine di assicurare la presenza anche del genere meno rappresentato (di fatto di quello femminile). Si tratta di una misura incisiva e invasiva che, per essere in sintonia con l’art. 3, comma 2, Cost. (affinché non si trasformi in discriminazione alla rovescia), deve avere natura transitoria (seppure agli iniziali «tre mandati consecutivi» ne siano stati aggiunti altri tre) .
I soffitti di cristallo sono molti e si ravvisano anche nel pubblico impiego, dove le discriminazioni di genere sono minori rispetto al privato o comunque più criptate: dai ai dati conosciuti, infatti, emerge una scarsa presenza femminile nei livelli apicali delle pubbliche amministrazione, seppure con alcune differenze interessanti .
Il gap “qualitativo” non è smentito nemmeno nelle professioni, dove la presenza delle donne, pur massiccia in termini assoluti, si fa rarefatta nei Consigli degli Ordini e negli altri organi rappresentativi .

 

5. Gender gap “pensionistico”
L’effetto dei differenziali reddituali tra uomini e donne durante la carriera lavorativa si ripercuotono, ovviamente, anche sui redditi pensionistici . Le pensioni delle donne sono inferiori rispetto a quello degli uomini, con l’eccezione che conferma la regola, delle pensioni ai superstiti, in cui, stante la maggior longevità delle donne rispetto agli uomini, le vedove sono in numero nettamente superiore e percepiscono assegni più alti rispetto ai vedovi, ad ulteriore conferma che le disparità di trattamento post mortem sono il frutto di quelle verificatesi in vita.
Il gender pension gap non è solo italiano ma presente in tutti i Paesi dell’UE : la media è del 29% con un picco del 44% in Lussemburgo (e un quasi azzeramento in Estonia, 2%).
Tornando alle pensioni italiane, non si può tacere della parificazione tra uomini e donne per ciò che concerne l’età pensionabile.
In passato il sistema prevedeva una soglia di accesso differenziata per genere, manifestandosi un deciso favor verso le lavoratrici del settore privato in considerazione della centralità delle donne nel sistema di “welfare familiare” e del lavoro di cura normalmente svolto durante la vita attiva. Certamente, un periodo lavorativo più breve incide anche sulla misura delle prestazioni pensionistiche e contribuisce, seppur solo in parte, a spiegare i bassi redditi pensionistici femminili.
Va ricordato, però, che, con una brusca accelerata di un processo iniziato nel 2009 su spinta dell’UE , il legislatore italiano con il D.L. n. 201/2011, conv. in L. n. 214/2011, ha equiparato l’età pensionabile tra uomini e donne, con effetto dal 2012 nell’area dell’impiego pubblico e con un innalzamento graduale in quella del lavoro privato, fino ad arrivare alla completa parificazione nel 2018.
Questa parificazione senza elasticità può incidere anche sui differenziali di reddito pensionistico tra lavoratori e lavoratrici anziani/e, oltre che sullo sgretolamento di quelle dinamiche sociali che, oggi, ancora beneficiano della disponibilità delle pensionate per le attività di accudimento familiare di bambini e di persone non autosufficienti.
Le carriere femminili se proiettate verso i 67 o addirittura i 70 anni, potranno, forse, modificare alcune tendenze in atto con effetti nuovi e, ad oggi, con impatto imprevedibile, potendosi ipotizzare una maggiore attività femminile dopo la fase (biologica) dedicata alla riproduzione e alla cura dei minori, con possibili ricadute sui differenziali di reddito nell’ultima parte della vita lavorativa.
In ogni caso, la pensione riflette la vita lavorativa, sia che si adotti il sistema di calcolo retributivo sia quello contributivo, e quindi i bassi redditi, le carriere meno luminose e la discontinuità lavorativa delle donne continueranno ad incidere negativamente sui redditi pensionistici femminili.
Diversa è la prospettiva se ragioniamo prestazioni previdenziali temporanee.
Accade, infatti, che la presenza dei massimali per i trattamenti di integrazione salariale e per le indennità di disoccupazione, NASpI, DISC-COLL e agricola, creano necessariamente un livellamento dei redditi tra uomini e donne. Se certamente la retribuzione mensile presa a riferimento per il calcolo del trattamento in questione è statisticamente più alta per gli uomini, l’imposizione di tetti predeterminati impone una anomala eguaglianza, rectius un livellamento verso il basso, creando l’effetto (paradossale) che più donne percepiscono integralmente l’importo previsto per legge (partendo da una retribuzione più bassa) mentre a molti uomini il trattamento viene decurtato, stante il superamento dei tetti previsti.

 

6. Gender gap nelle detrazioni e bonus
Il sacrificio delle donne, che continuano a costituire il perno del nostro Welfare, non è ufficialmente riconosciuto né adeguatamente (ri)compensato, nemmeno in termini economici.
Il differenziale reddituale tra lavoratori e lavoratrici è anche frutto dell’uso generalmente sbilanciato della detrazione fiscale di cui all’art. 12 del TUIR (D.P.R. n. 917/1986) con riferimento ai figli (fiscalmente) a carico. Infatti, sebbene la detrazione possa essere suddivisa tra i genitori al 50% spesso, per convenienza, viene attribuita interamente al genitore che possiede un reddito complessivo più elevato, generalmente il padre, che quindi migliora ulteriormente la sua performance reddituale.
Un discorso parallelo può farsi anche per ciò che concerne la percezione dell’assegno per il nucleo familiare (art. 2 L. n. 153/1988), che pur calcolato sulla base del reddito del nucleo familiare viene erogato al lavoratore richiedente. Sul punto, dal Rapporto INPS 2017 emergono due dati importanti: il primo è che la percentuale di uomini che beneficia dell’a.n.f. è nettamente superiore alla percentuale di donne; il secondo, apparentemente opposto, è che l’a.n.f. percepito dalle donne è superiore a quello degli uomini. La spiegazione è semplice: da un lato, evidenzia che nella famiglia il componente su cui convogliare detrazioni e benefici previdenziali è quello che ha un lavoro più stabile e possibilmente a tempo pieno; dall’altro, che quando sono le donne a richiedere l’a.n.f., godono di un trattamento più alto partendo da redditi familiari più bassi.
Altro discorso concerne l’utilizzo di strumenti di sostegno temporaneo al reddito familiare quali, ad esempio, l’assegno di natalità (c.d. bonus bebè) o il bonus asilo nido oppure i voucher per l’acquisto di servizi di baby-sitting, da ultimo quello previsto per fronteggiare l’emergenza da COVID-19 .
Queste azioni di sostegno alle donne e alle famiglie sono sicuramente di aiuto ma la loro estemporaneità, cioè il fatto che solitamente siano previste solo per un periodo limitato di tempo e non in modo strutturale, crea un effetto effimero, da ammortizzatore familiare, ma senza condizionare i comportamenti e i progetti riproduttivi perché su di esse non si può fare duraturo affidamento.
Infine, va ricordato che, fino al compimento dei quattordici anni, i figli – di fatto e di diritto – necessitano della presenza di un adulto, pertanto solo l’adeguata erogazione di servizi che provvedano a sollevare le donne dal carico dell’accudimento fino a questa età potrebbero agevolare, sul serio, la conciliazione tra lavoro e famiglia.

 

7. Gender equality e sviluppo sostenibile

Da quanto sino ad ora detto, appare chiaro che in Italia il gender wage gap è fondamentalmente causato dalle “sfortunate” sorti delle carriere lavorative femminili e dalla maggiore discontinuità lavorativa delle donne, entrambi fenomeni che trovano la causa principale nel fatto che l’attività di allevamento della prole e di cura familiare in generale, grava sulle medesime così riducendo le loro chances occupazionali e di carriera.
Non che il ridimensionamento delle ambizioni lavorative sia necessariamente un male, intendiamoci, purché la rinuncia costituisca una reale scelta delle donne e come tale riconducibile alla sfera privata dell’esercizio delle libertà individuali, da rispettare ex se .
I fenomeni evidenziati costituiscono una vera emergenza per il Paese (ancora troppo sottovalutata) avendoci condotto ad una occupazione femminile bassa, ad una inattività femminile altissima , a carriere femminili compresse, ad una povertà femminile diffusa e ad un bassissimo tasso di natalità (ben al di sotto del livello di rimpiazzo) .
Questi dati, che fanno intravedere all’orizzonte un Paese in declino economico e una popolazione in estinzione, non sono evidentemente imputabili al supposto esercizio di libertà individuali ma sono chiaramente il frutto di costrizioni economiche e sociali connesse a modelli culturali e stereotipi comportamentali che, nella gravissima e perdurante carenza di servizi pubblici e di azioni positive efficaci messe in campo dagli attori istituzionali, trovano l’humus adatto per crescere e proliferare.
Il tema della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, anche detto “work-life balance”, è diventato uno slogan politico-legislativo ormai costante, quasi un ritornello o forse una litania, ma seguito solo marginalmente da azioni concrete, efficaci e di prospettiva, che investino sul futuro e quindi sulle giovani donne che vorrebbero, nel corso della loro vita, diventare lavoratrici e madri (in quest’ordine).
Il legislatore degli ultimi anni ha tentato di affrontare il tema con una serie di misure, certamente importanti ma ancora insufficienti per far cambiare rotta a delle linee di tendenza davvero pericolose, essendoci in gioco anche la sostenibilità del nostro sistema di Welfare .
L’attenzione del legislatore è sempre stata concentrata sul rapporto di lavoro, scaricando sulle imprese e, in generale, sui datori di lavoro, le esigenze connesse alla maternità, alla genitorialità, e alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, quando, viceversa, il nocciolo del problema è quello della compatibilità tra l’organizzazione del lavoro e le esigenze di vita delle donne (o, auspicabilmente, dei genitori che lavorano).
La vera criticità è quindi la scarsità di strumenti e servizi di sostegno e supporto alle famiglie.
Se sotto il primo profilo, lo Stato non deve interferire nelle scelte individuali delle persone, sotto il secondo profilo, sempre lo Stato dovrebbe fornire gli strumenti necessari perché tutti gli individui possano scegliere liberamente come ripartire il carico del lavoro di cura familiare tra i componenti del nucleo e quindi come meglio conciliare i tempi di vita con quelli del lavoro produttivo.
La tecnica sino ad ora adottata di creare una fitta rete di protezione per i genitori che lavorano, in primis per le madri, nel rapporto di lavoro ha avuto l’effetto collaterale di disincentivarne a monte l’assunzione .
Andrebbe, viceversa, impostato un cambio di rotta delle politiche legislative in questa materia, puntando più ad un sostegno alla conciliazione dei tempi di vita con quelli di lavoro mediante strumenti che si collocano al di fuori del rapporto di lavoro, così, da un lato, supportando concretamente le famiglie mediante servizi (pubblici e sostenibili) alla persona (all’infanzia, ai minori di quattordici anni, alla disabilità, agli anziani non autosufficienti) e, dall’altro, evitando di creare un effetto boomerang che colpisca negativamente proprio i soggetti che si vogliono tutelare.
All’orizzonte si intravedono alcune iniziative che fanno sperare in una torsione concreta agli slogan e alle dichiarazioni della politica multilivello: il «Fondo assegno universale e servizi alla famiglia» istituito con L. n. 160/2019, art. 1, comma 339, su cui dal 2021 confluiranno le risorse per gli assegni di natalità e bonus asilo nido; la legge delega n. 46/2021, c.d. Family Act, entrata in vigore il 21 aprile 2021, finalizzata a riordinare, semplificare e potenziare le misure a sostegno dei figli a carico attraverso l'assegno unico e universale , che deve, però, essere attuata tramite decreti legislativi; la proposta di direttiva 2021/93 del Parlamento e del Consiglio dell’UE per rafforzare l'applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore attraverso la trasparenza delle retribuzioni e meccanismi esecutivi ; e infine, last but not least, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza in cui azioni mirate alla parità di genere e al sostegno alle famiglie sembrano avere, finalmente, un certo rilievo.
Ad ulteriore conferma che la gender equality deve essere presa sul serio, il programma di sostegno alla ricerca denominato «Horizon Europe» condizionerà l’erogazione dei finanziamenti all’adozione da parte delle Università e degli istituti di ricerca di un Gender Equality Plan (GEP) , cioè di un programma di azioni positive mirate alla riduzione del gender gap interno alle organizzazioni e che possa avere impatto anche esterno sotto il profilo del riequilibrio di genere.
Non c’è, dunque, sviluppo sostenibile senza gender equality, non lo dice solo l’Agenda dell’ONU, lo dicono i fatti.

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