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1. Perché hai scelto di fare il giudice del lavoro?
Devo essere sincera, la scelta è stata casuale. Come prima nomina ho scelto il Tribunale di Agrigento, ove mi sono occupata di penale: collegiale, monocratico, GIP/GUP, giudice delegato alle misure di prevenzione. Sono rimasta dal Agrigento sei anni. Avevo il desiderio di tornare a casa e l’unico posto a Venezia, oltre al Tribunale di sorveglianza, era presso la Sezione lavoro, che aveva sofferto per molti anni di carenza di organico. Quando sono arrivata finalmente l’organico si è completato. Mi sono però innamorata quasi subito di questa funzione, sia per il rito, che è certamente il più efficace, che per la materia, sempre viva e che consente di leggere l’evoluzione economica, politica e quindi sociale. Mi avevano avvertito che sarebbe accaduto. Sono anche stata affascinata dalla possibilità di conoscere il lavoro e i lavori che stanno dietro i prodotti e nei servizi. Come consumatori diamo tutto per scontato. Acquistiamo una scatola di tonno, ma non soffermiamo minimamente a pensare a come e chi quel tonno ha pescato, lo ha lavorato, ha prodotto la scatola, prima ancora ha prodotto l’alluminio e così via. Questa funzione mi ha fatto anche riscoprire la dignità del lavoro e di tutti i lavori, anche i più umili.
2. C’è (o c’è ancora) una specificità del diritto del lavoro rispetto al diritto civile?
Il diritto del lavoro disciplina un rapporto - quello tra lavoratore e datore di lavoro - che non è paritario. E non è nemmeno paritario il rapporto tra quelle altre figure di collaboratori dell’impresa non subordinati e l’imprenditore. Si è spesso parlato di autorità privata. Questa disparità, in fatto ed in diritto, è il fondamento di tutta la disciplina: così la tecnica della norma imperativa che determina la nullità della clausola contrattuale conclusa in violazione alla legge e la sua sostituzione con la norma medesima, che mi rendo conto è propria anche del diritto civile, ma è particolarmente utilizzata nel diritto del lavoro. Ancora gli obblighi di buona fede e correttezza nella esecuzione del contratto che assurgono a requisiti di validità dell’atto ( come il licenziamento per soppressione del posto di lavoro tra più posizione fungibili: la violazione degli obblighi di buona fede e correttezza si risolve nell’annullamento del licenziamento, seppur ora sempre e solo con conseguenze risarcitorie). Il ruolo infine dell’autonomia collettiva che consente alle parti del rapporto, ed in particolare ai lavoratori, di ottenere il riconoscimento di diritti e tutele, che da soli, non operando collettivamente, non riuscirebbero mai ad ottenere e che attraverso l’art. 36 Costituzione può essere utilizzata almeno come elemento di paragone per determinare la retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato e sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
3. Ritieni che, nel corso della tua esperienza professionale, sia cambiato il ruolo del giudice del lavoro e comunque il modo con cui i giudici concretamente lo esercitano? in caso di risposta affermativa, quali pensi siano le ragioni (o almeno le principali ragioni) di tale cambiamento e quali ne sono gli effetti?
Ho iniziato a svolgere la funzione di giudice del lavoro nel 2005, e quindi il mio confronto con il pregresso viene solo da quanto ho potuto studiare e leggere e per quel poco che ho potuto vivere durante l’uditorato generico. Il ruolo del giudice del lavoro, come delineato dalla riforma di cui alla l. 533 del 1973, non è cambiato. E’ certamente cambiato il contesto culturale. Il rito del lavoro e il giudice del lavoro delineati dalla legge del 1973 sono informati alla consapevolezza che non solo nei rapporti sostanziali ma anche nel processo le parti non si trovano in una posizione di parità, perché la forza economica è diversa, quindi è diversa la forza di resistere nel processo. Il giudice del lavoro pur rimanendo imparziale rispetto alle parti litiganti ha gli strumenti per realizzare il compito che l’art. 3, co. 2, della Costituzione assegna alla Repubblica e cioè rimuovere quegli ostacoli che si frappongono, per quanto riguarda il processo, a che tutti abbiano l’opportunità di far valere i propri argomenti davanti al giudice. E questo implica che il giudice comprenda la reale dinamica delle cose e delle situazioni, significa ricercare la verità materiale. Questa consapevolezza, tuttavia, sotto le spinte produttivistiche, è andata decisamente scemando, verso un ruolo più notarile del giudice del lavoro, proteso al - certo pregevole obiettivo - della celerità delle decisioni, ma talora cedendo al formalismo e alle decisioni in rito e privilegiando istruttorie meramente documentali. A mio avviso si è anche assistito e si assiste a questo fenomeno: sempre più si è cercato da un punto di vista legislativo di limitare lo spazio di “imprevedibilità”, per il datore di lavoro ovviamente, delle decisioni del giudice. Penso in questo senso, in particolare, all’art. 30 L.183/2010, alla riforma dell’art. 18 L. 300/1970, al d.lgs 23/2015 che oltre ad aver voluto espressamente escludere la reintegra nel caso di valutazione di non proporzionalità dal licenziamento ha ancorato il licenziamento al parametro rigido dell’anzianità ( poi infatti dichiarato incostituzionale), alla eliminazione delle causali nei contratti a termine (d.lgs. 81/2015). Dall’altro lato, invece, aumenta sempre di più la domanda di giustizia quanto al riconoscimento, ex art. 36 della Costituzione, di una retribuzione proporzionata al lavoro prestato ma anche e soprattutto sufficiente. E si tratta di una operazione certamente non semplice, spesso perché non prospettata bene, e che non può certo essere risolta con soluzioni di stile a fronte di retribuzioni di qualche euro l’ora. Comprendiamo, tuttavia, da una parte, che cosa significa riconoscere, ex post, ad un lavoratore o ad un gruppo di lavoratori una certa retribuzione, superiore a quella che il datore di lavoro ha riconosciuto e posto alla base delle proprie decisioni imprenditoriali, e dall’altro lato, come questa questione investa in pieno la dignità dei lavoratori e del lavoro, a fronte della recalcitranza all’attuazione dell’art. 39 Costituzione e all’adozione di una retribuzione minima. In altri termini: è forte la sensazione che ai giudici del lavoro sia chiesto di trovare una soluzione a problemi che dovrebbero avere una soluzione legislativa.
4. Le modifiche normative che hanno riguardato la disciplina sostanziale hanno mutato gli equilibri tra le parti nel processo?
Indubbiamente le riforme intervenute dal 2001 in poi, che hanno avuto come dichiarato obiettivo la “flessibilizzazione” sia dei rapporti di lavoro ( molteplicità di contratti) che del rapporto di lavoro (mansioni, orario), hanno progressivamente eroso gli spazi di tutela dei lavoratori e questo ha avuto in primo luogo un’incidenza sulla possibilità di ricorrere al giudice. Un’accelerazione in questo senso è poi definitivamente avvenuta con il d.lgs 81/2015 che ha ridotto drasticamente i processi in materia di contratti a termine e in somministrazione; e anche i giudizi per i licenziamenti disciplinati dal d.lgs 23/2015 sono certamente in numero inferiore al passato. I principi fondamentali non sono stati toccati: così l’onere della prova della legittimità del licenziamento, del trasferimento, del mutamento di mansioni e della ricorrente dei presupposti per ricorrere al contratto a termine, in somministrazione e così via, del pagamento della retribuzione sono rimasti a carico del datore di lavoro. Tuttavia è proprio la possibilità o l’utilità di ricorrere al giudice che è scemata con quegli interventi normativi: spesso è meglio conciliare, anche per somme non elevate. Per altro verso aumentano i processi ove si contestata una discriminazione o un atto avente natura ritorsiva o una condotta mobbizzante e vessatoria, con la conseguenza che in tal caso l’ onere della prova è a carico del lavoratore e l’istruttoria è spesso complessa e indiziaria. Dunque in fatto mutando la tipologia di questioni trattate gli equilibri tra le parti nel processo in effetti mutano.
5. Quando, quanto spesso e su quali presupposti eserciti il potere d’ufficio? Quando invece ritieni che al giudice sia precluso integrare ufficiosamente il materiale istruttorio di causa?
Non sono in grado di definire quanto spesso esercito i poteri d’ufficio. Ritengo di farlo tutte le volte che serve. A mio avviso la Cassazione – a partire da Cass. SS.UUU. 11353/2004 - ha ormai da tempo definito i limiti dell’esercizio dei poteri officiosi chiarendo: che deve trattarsi di atti istruttori o acquisizioni documentali “idonei a superare lo stato di incertezza dei fatti costitutivi dei diritti di cui si controverte”, che al loro l'utilizzo “deve sempre presiedere il principio di imparzialità” e che quindi tale potere non può tradursi in una pura e semplice rimessione in termini della parte ( così, per esempio, del convenuto rimasto contumace) “ed in una conseguente sanatoria della decadenza radicale” in cui la parte sia incorsa, che i poteri officiosi non possono essere esercitati “in totale assenza di fatti quantomeno indiziari, che consentano al giudicante un'attività di integrazione degli elementi delibatori già ritualmente acquisiti” (ex plurimis tra le più recenti Cass. L., n. 23605/2020). I presupposti mi sembrano oramai definitivamente precisati: sono “ la ricorrenza di una "semiplena probatio" e l'individuazione "ex actis" di una pista probatoria” (ex plurimis Cass. L., n. 26597/2020). Chiarito che i poteri officiosi non possono essere esercitati sulla base del proprio sapere privato, con riferimento a fatti non allegati dalle parti, oppure a fatti non acquisiti al processo in modo rituale e cioè in riferimento a fatti che non siano emersi nel processo nel contraddittorio delle parti (ex plurimis Cass. L, n. 8220/2003), si tratta del potere, non di sostituirsi ad una o alle parti, ma di “integrare” “ in definizione di una pista probatoria concretamente emersa, la dimostrazione dell'esistenza o inesistenza di un fatto la cui sussistenza o insussistenza, altrimenti, sarebbe destinata ad essere definita secondo la regola sull'onere della prova” (ex plurimis Cass. L., n. 33393/2019) e questo in quanto è caratteristica precipua del rito del lavoro il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale. Si tratta, comunque, mi rendo sempre più conto, di una questione culturale: si tratta di collocare l’esercizio dei poteri ex art. 421 c.p.c. all’interno di quell’opera imparziale ma riequilibrartice dell’accesso alla prova dei fatti che è sotteso al processo del lavoro e che è caratterista peculiare del rito, nella consapevolezza che l’uguaglianza di fronte alla legge diventa diseguaglianza se non è accompagnata dalla rimozione delle condizioni di fatto che non offrono a tutti le medesime opportunità.
6. Come si è configurato, e come attualmente si configura, nel processo del lavoro, il rapporto fra giustizia formale e giustizia sostanziale?
Ho già accennato a questo aspetto in quanto ho riferito sopra. Occorre pensare al processo del lavoro come un’azione che l’ordinamento ha adottato per rimuovere gli ostacoli che si frappongono all’esercizio dei propri diritti da parte dei lavoratori. Credo che spesso si confonda l’imparzialità rispetto alle parti litiganti con l’imparzialità rispetto ai valori in gioco: ed in gioco c’è il più delle volte la dignità del lavoratore, la dignità del proprio lavoro, la richiesta di un accertamento di verità. Il giudice del lavoro deve cercare di comprendere di cosa realmente si discute, quali sono o sono state le effettive dinamiche nell’ambiente di lavoro e l’interrogatorio delle parti, l’esame dei testi e l’esercizio dei poteri officiosi, ove vi siano la necessità e i presupposti, sono gli strumenti privilegiati. Mi sento di dire che anche questa è una questione culturale. Si tratta in definitiva di immergersi e recuperare i valori costituzionali che stanno alla base della riforma introdotta dalla L. 533/1973.
7. Quanto è importante, nelle scelte cui il giudice è tenuto nel governo del processo, la necessità di assicurare la celerità delle decisioni?
Credo sia la parte difficile: contemperare l’obiettivo della celerità delle decisioni con l’accertamento della verità materiale. Non riesco a credere che una qualunque decisione, purché arrivi il prima possibile sia il nostro fine. Il fine del nostro lavoro, del nostro servizio, della nostra funzione deve essere una decisione giusta. Vi è da dire che questa questione impatta inevitabilmente con il qui ed ora, di ogni Ufficio. Forse non ci sarebbe necessità di porsi questa domanda se potessimo avere la disponibilità di quei mezzi che il codice di rito prevede: cancelliere in udienza e registrazione delle deposizioni testimoniali, oltre ovviamente ad un carico adeguato di lavoro. Ma credo anche sia una questione culturale. Se abbiamo la consapevolezza che ci muoviamo all’interno dell’art. 3 Costituzione la prospettiva cambia.
8. Quanto pensi che rilevi nell’economia della decisione quella relativa alle spese e come eserciti la discrezionalità rimessa al giudice dall’art. 92 c.p.c. risultante dall’intervento della Corte costituzionale?
La decisione sulle ripartizione delle spese di lite, seppur si esplicita in forma molto sintetica, ha certamente un ruolo importante, perché incide pesantemente sul diritto di agire e di difendersi. Personalmente, faccio ampio e motivato uso della discrezionalità rimessa al giudice dall’art. 92 c.p.c. risultante dall’intervento della Corte costituzionale, in particolare quando a soccombere è il lavoratore, così quando si tratta di questioni nuove o ancora non risolte dalla Corte di legittimità, quando si tratta di giudizi a controprova. Ma in generale tengo particolarmente in considerazione il fatto che, in molti casi, il lavoratore ha anche in punto di prova una limitata disponibilità e che la condanna alle spese di lite si risolverebbe nel precludere al lavoratore l’azione.
9. Qual è il rapporto che ritieni debba esistere fra il valore della libertà della giurisprudenza e quello della tendenziale univocità e prevedibilità delle decisioni?
L’univocità e la prevedibilità delle decisioni è un valore, perché inerisce a quello della certezza del diritto. Va tuttavia rettamente inteso. Al netto del fatto che spesso a fronte di una medesima interpretazione i fatti concretamente portati all’attenzione del giudice si atteggiano in maniera diversa per cui applicato la stessa regola o lo stesso principio la conclusione risulta diversa, l’interpretazione è il modo attraverso il quale la legge si attua, ed è sempre un’azione collettiva, che spesso necessita di tempo e si sviluppa nel tempo. Penso in particolare che la nozione di danno biologico: non sarebbe stata elaborata se ci si fosse attenuti all’esistente. E quante questioni alla fine portate alle Sezioni Unite sono nate da contrasti anche emersi dal dissenso manifestato dai giudici di merito ad orientamenti apparentemente consolidati dalla Suprema Corte. Dunque l’uniformità dell’interpretazione e delle decisioni va garantita, perché è un valore, nella misura in cui ciò sia possibile, cioè quando non sorgano elementi, in diritto ed in fatto, in virtù dei quali sia necessario porre in discussione quell’interpretazione. Ed in tal caso credo sia un dovere dissentire. Dunque l’uniformità, l’univocità e la prevedibilità delle decisioni non come piatto conformismo ma come consapevole partecipazione ad una più ampia azione di interpretazione, che richiede, in alcuni casi, il coraggio e forza di discostarsi.

 

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