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In questa fase storica, i temi del salario minimo e della contrattazione sono intrecciati tra loro, come non mai. Per alcuni aspetti, è giusto che sia così; per altri, un po’ meno.
Partiamo dai fatti e dalla cronaca recente. Lo scorso 7 giugno, il Parlamento europeo e gli Stati membri hanno raggiunto un accordo politico “provvisorio” in merito alla proposta di direttiva sui salari minimi adeguati, presentata dalla Commissione europea nel 2020. L’iter non è ancora del tutto concluso e, ad ogni buon conto, gli Stati dovranno poi recepirla all’interno dei propri ordinamenti. La strada, comunque, è segnata e il salario minimo è ormai una realtà.
È opportuno, però, fare alcuni chiarimenti per sgombrare il campo da equivoci e per ragionare su questa importante vicenda, scevri da posizioni ideologiche e concentrati solo sul merito delle questioni. Nel corso di una conferenza stampa, svoltasi all’indomani dell’accordo, il Commissario al lavoro dell’UE, Nicolas Schmit, ha enunciato i principali obiettivi della direttiva che sono quelli di garantire salari minimi adeguati, di rafforzare e promuovere la contrattazione collettiva e di aumentare l’effettività della tutela giuridica dei lavoratori. È del tutto evidente che la direttiva non impone uno “strumento”, ma un “risultato” che, a ben vedere, alla fine dei conti, corrisponde con quanto già indicato all’articolo 36 della nostra Costituzione e cioè che: “Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa…”. L’applicazione di questo precetto costituzionale è stata risolta facendo riferimento ai contratti collettivi nazionali di lavoro delle organizzazioni comparativamente più rappresentative, soprattutto quando sono i giudici a dover risolvere le controversie tra lavoratori e datori di lavoro.
La direttiva, dunque, non obbliga gli Stati membri, dotati di sistemi contrattuali ben strutturati, ad adottare il salario minimo legale, ma li esorta a rafforzare le tutele dei lavoratori con l’estensione e la promozione della contrattazione collettiva.
Ciò premesso, la posizione della Uil è sempre stata chiara: siamo favorevoli al salario minimo purché coincida con i minimi contrattuali e non si crei alcuna contrapposizione con la contrattazione. Il motivo è semplicissimo. Noi temiamo che a fronte di un minimo stabilito per legge, sempre più imprenditori possano decidere di adottare semplicemente quel valore economico e di non applicare più i contratti. Il lavoratore percepirebbe così la controprestazione economica del proprio lavoro, ma non avrebbe più tutte quelle garanzie e quelle tutele normative che sono contenute in un contratto: dalle ferie al Tfr, dalla conservazione del posto di lavoro alla malattia, solo per citare gli istituti più noti. Questo è un rischio che non possiamo permetterci, perché significherebbe perdere, in un sol colpo, decenni di conquiste ottenute anche a prezzo di grandi battaglie e tanti sacrifici. L’eventuale adozione di un provvedimento legislativo sul salario minimo, dunque, dovrebbe essere caratterizzata da una formulazione che impedisca l’affermazione di soluzioni al ribasso.
Il punto è che, in un sistema in cui la contrattazione è storicamente consolidata, forse sarebbe più semplice mettere in campo una strategia che consenta la diffusione di questo strumento, sia a livello nazionale sia a livello decentrato e aziendale, come peraltro caldeggiato della stessa direttiva europea. Bisogna puntare su una politica salariale che consenta al Sindacato di continuare a rivendicare nei confronti delle parti datoriali incrementi delle buste paga e, al contempo, di consolidare e implementare il quadro dei diritti e delle tutele.
Peraltro, il rinnovo dei contratti è ancor più indispensabile in un contesto in cui l’inflazione viaggia a livelli altissimi, tra il 7 e l’8%, e il potere d’acquisto delle lavoratrici e dei lavoratori è letteralmente falcidiato. Con un recente studio della nostra Organizzazione, abbiamo registrato che, nel periodo gennaio-giugno 2022, una coppia con almeno un minore a carico ha perso mediamente 1.240 euro di potere d’acquisto. I bonus varati dal Governo hanno solo parzialmente compensato la perdita che, dunque, si riduce, nel caso di specie analizzato, a circa 506 euro: comunque, non viene recuperato il 41% del potere d’acquisto. Ecco perché bisogna subito rinnovare i contratti, scaduti o in scadenza, di oltre 7 milioni di lavoratori, ma occorre agire anche su un’altra leva, quella fiscale.
La Uil ha chiesto, infatti, una riduzione del cuneo fiscale e una riduzione delle tasse per lavoratori dipendenti e pensionati. Il Governo, purtroppo, ha fatto altre scelte, puntando su un aggiustamento delle aliquote, che, a nostro modo di vedere, non risolve i problemi fin qui emersi, anche alla luce di un’inflazione galoppante, fenomeno nient’affatto temporaneo, secondo le stime di vari organismi e osservatori internazionali.
Insomma, bisogna uscire dalla logica delle misure temporanee, mentre servono assolutamente politiche strutturali che passino per una riforma efficace e giusta del fisco e che servano davvero a rilanciare i consumi e la domanda interna, così da garantire anche la continuità produttiva e occupazionale delle aziende che operano sul mercato interno.
La spirale inflazionistica in atto, peraltro, non è trainata dalla domanda né, tantomeno, dalla rincorsa salari/prezzi, ma si lega piuttosto a fattori di offerta.
Tutto ciò considerato, dunque, e in particolare alla luce del grave allarme sulla tenuta del valore reale delle retribuzioni, diventa necessario ridiscutere e aggiornare quanto stabilito nel “Patto per la fabbrica” dello scorso 9 marzo 2018. In questa fase, infatti, l’Ipca depurato dai prodotti energetici non è più un parametro efficace a proteggere il potere d’acquisto delle lavoratrici e dei lavoratori. Tant’è vero che i recentissimi rinnovi contrattuali non stanno tenendo assolutamente conto di questo parametro.
Ebbene, proprio di recente, l’Istat ha pubblicato le previsioni relative all’Ipca. Il valore atteso di questo indicatore è del 4,7% per il 2022, del 2,6% per il 2023 e dell’1,7% nel biennio 2024-2025. Ora, poiché l’inflazione acquisita per il 2022 è già pari al 6,4%, l’utilizzo depurato dell’Ipca comporterebbe comunque una perdita di potere d’acquisto dell’1,7%. Non solo, le previsioni riferite al prossimo triennio rischiano di sottostimare il carattere persistente dell’inflazione. Insomma, così facendo, stiamo, di fatto, programmando un’ulteriore riduzione delle retribuzioni, oltreché delle pensioni, che si ripercuoterà negativamente anche sulla crescita, per la conseguente contrazione dei consumi.
In conclusione, noi chiediamo che, al primo livello, il salario regolato dal Ccnl debba essere determinato sulla base di indicatori che tengano conto delle dinamiche macroeconomiche, legate anche alla produttività di settore e, inoltre, che il Governo debba predisporre un piano di defiscalizzazione degli aumenti contrattuali.
In questo quadro, va rimarcato che la produttività non può essere misurata sempre e solo sul lavoro, bensì bisogna tenere conto, soprattutto, di una produttività di sistema, oltreché di quella che deriva dall’organizzazione del lavoro, legata al processo e al prodotto.
Il meccanismo di redistribuzione della ricchezza, poi, deve essere completato estendendo, qualificando e rendendo più capillare la contrattazione di secondo livello, anche per migliorare le condizioni di lavoro, conciliandole con le esigenze delle lavoratrici e dei lavoratori, e per rendere maggiormente competitive le aziende.
I “detrattori” della contrattazione adducono tra le argomentazioni contrarie il fatto che presso il Cnel sono depositati oltre 900 accordi, troppi dunque, e che per una razionalizzazione del sistema occorrerebbe misurare la rappresentatività delle Organizzazioni sindacali.
La questione da affrontare, però, è quella dei cosiddetti contratti pirata, stipulati da realtà del tutto sconosciute e numericamente inconsistenti. Eppure, in tutti i luoghi di lavoro si vota costantemente e sistematicamente per il rinnovo delle Rsu, cosicché la misurazione della rappresentatività è riscontrabile oggettivamente e, inoltre, nel mondo dell’edilizia, dell’agricoltura, dei pensionati, solo per citare i casi più eclatanti, esistono anche altre modalità di verifica. Purché, lo si voglia, dunque, smascherare i contratti pirata è piuttosto semplice. Si può stabilire che, se un contratto è sottoscritto da improbabili associazioni datoriali e da sindacati gialli e se si applica in un contesto che conta poche centinaia o migliaia di addetti, fissando condizioni sistematicamente al ribasso, si possa decidere di considerare invalido e inapplicabile quell’accordo.
Si vuole proporre una legge anche sulla rappresentanza? Per tutti i motivi enunciati, la cosa non ci preoccupa affatto e sarebbe anche facilmente realizzabile: basterebbe una legge di sostegno al testo unico del 2014 e agli accordi di recepimento sottoscritti nei vari settori merceologici.
In buona sostanza, noi siamo “gelosi” custodi del principio di autonomia di cui è opportuno, in termini di libertà e democrazia, che godano le Organizzazioni sindacali nell’esercizio del proprio ruolo e delle proprie funzioni. Tuttavia, non riteniamo affatto riprovevole un intervento legislativo se questo fosse a supporto dell’attività svolta per tutelare i diritti conquistati dalle lavoratrici e dai lavoratori. Bisogna ragionare in termini di razionalità e, soprattutto, di efficacia e competenza. La verità è che l’esperienza e la conoscenza che del mondo del lavoro hanno le parti sociali storicamente più consolidate nel tessuto sociale e produttivo sono la migliore garanzia per raggiungere risultati socialmente più equi ed economicamente più efficienti.

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