Testo integrale con note e bibliografia

Testo della sentenza

La Suprema Corte di Cassazione è tornata ad approfondire (Cass. 2021/40652) un tema piuttosto frequente nella prassi di noi giulavoristi; il tema del dies a quo dal quale far decorrere il termine di 60 giorni per poter chiedere la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto di lavoro, ai sensi dell’art. 32, quarto comma, lettera d), L. 183/2010, non essendoci - di fatto - un provvedimento da impugnare.
Nonostante l’improcedibilità del ricorso, la Corte ha ritenuto di dover comunque pronunciare il principio di diritto stante la “particolare importanza” della questione «sia per la frequenza con cui il tema della suddetta decadenza si propone sia per fugare dubbi circa un ipotizzabile contrasto nella giurisprudenza di legittimità di questa Sezione».
La Corte, nella sentenza in commento, si è orientata nel senso che si debba far decorrere il termine di decadenza di sessanta giorni, e il successivo termine di centottanta per il deposito del ricorso in Tribunale, soltanto dalla data di ricevimento di una comunicazione scritta da parte del (presunto) datore di lavoro, affermando il seguente principio: «La decadenza di cui all’art. 32, comma 4, lett. d) della l. n. 183 del 2010, non trova applicazione nelle ipotesi di richiesta di costituzione o di accertamento di un rapporto di lavoro, ormai risolto, in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto, nelle quali manchi un provvedimento in forma scritta o un atto equipollente che neghi la titolarità del rapporto stesso» (V. Cass. civ., sez. lav., 17/12/2021, n. 40652).
La questione nasce perché la comunicazione di recesso viene comunemente consegnata dal datore di lavoro formale e quasi mai dall’utilizzatore (effettivo datore di lavoro).
La norma soggetta nel caso di specie all’interpretazione della Corte è l’art. 32, quarto comma, lettera d), Legge 04/11/2010, n. 183 (“Collegato Lavoro”), che - come noto - recita «le disposizioni di cui all’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano anche: d) in ogni altro caso in cui, compresa l’ipotesi prevista dall’articolo 27 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto»
La vicenda trattava di alcuni lavoratori, formalmente assunti presso varie cooperative ed utilizzati nell’ambito di “contratti di appalto di servizi” susseguitisi per oltre dieci anni senza soluzione di continuità con una medesima società committente, che avevano rivendicato nei confronti di quest’ultima un rapporto di lavoro subordinato, chiedendone la condanna al pagamento delle conseguenti differenze retributive per importi piuttosto ingenti (rispettivamente Euro 247.667,71 e Euro 226.311,25).
Il Tribunale di Nocera Inferiore, con sentenza n. 1681/2016, aveva rigettato le domande proposte dai lavoratori ritenendo che le fattispecie azionate fossero soggette alla decadenza di cui all’art. 32, comma 4, lett. d), del Collegato Lavoro, essendo entrambi i rapporti cessati il 30 dicembre 2013 ed i ricorsi introduttivi del giudizio depositati il 23 gennaio 2015.
Parimenti il Giudice di secondo grado aveva dichiarato inammissibile l’appello con una motivazione conforme alle argomentazioni del Tribunale. Nello specifico la Corte d’Appello rigettava le domande proposte dai ricorrenti perché finalizzate, tardivamente ex art. 32, quarto comma, lett. d), ad ottenere l’accertamento di un rapporto di lavoro unitario svoltosi de facto alle dipendenze dalla società resistente dal giugno 2001. Sul punto, nella parte motivazionale della sentenza, veniva richiamato un orientamento di legittimità dell’anno 2017 dove si legge «Peraltro nell’ipotesi regolata dal comma 4 citato, lett. d) non è facilmente individuabile il dies a quo dal quale far valere il diritto di impugnare il contratto di lavoro intercorso con il formale (fittizio o interposto) datore di lavoro. Ed infatti non essendoci un provvedimento datoriale da impugnare, risulta anche difficile stabilire il momento dal quale far decorrere il termine di 60 giorni per l'impugnazione stragiudiziale. Tale imprecisione normativa è stata infatti corretta, quanto meno per la fattispecie della somministrazione, dal nuovo D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, che all'art. 39 ha previsto che “ove il lavoratore chieda la costituzione del rapporto di lavoro con l'utilizzatore ai sensi dell'art. 38, comma 2, trovano applicazione le disposizioni della L. n. 604 del 1966, art. 6 e il termine di cui al primo comma del predetto art. decorre dalla data in cui il lavoratore ha cessato di svolgere la propria attività presso l’utilizzatore”. Una tale decorrenza infatti risulta coerente con la previsione normativa che si riferisce alle ipotesi di azioni dirette ad impugnare la risoluzione del rapporto di lavoro con l’effettivo datore di lavoro nei confronti del quale si rivendica l'esistenza di tale rapporto». (V. Cass. civ., sez. lav., 25 maggio 2017, n. 13179).
La questione giuridica che si pone (come detto risolta positivamente dalle corti di merito) è quello di accertare se il regime della decadenza di cui al Collegato Lavoro si applichi anche alle ipotesi di richiesta di accertamento del rapporto di lavoro, ormai cessato, nei confronti di altro datore di lavoro (rispetto a quello formale) che non ha emesso alcun atto da impugnare.
La sentenza in commento ha invece ritenuto l’orientamento della corte di merito “non condivisibile”. Per i giudici di legittimità, come già specificato in altri provvedimenti della stessa Corte di Cassazione (Cass. 2020/6649; Cass. 2019/28750), la ratio della L. n. 183 del 2010, art. 32, è stata quella di estendere ad una serie di ipotesi ulteriori la previsione della L. n. 604 del 1966, art. 6, sull’impugnativa stragiudiziale, originariamente limitata al solo licenziamento (Cass. 2019/13648).
La Corte afferma che, proprio in quanto si tratta “di una limitazione temporale per l’esercizio dell’azione giudiziaria di non poco conto”, si deve ritenere che la norma oggetto di esame abbia “carattere di eccezionalità” e occorre applicare “una interpretazione particolarmente rigorosa, soprattutto con riguardo alla fattispecie di chiusura prevista dall’art. 32, comma 4, lett. d), legge citata”.
I Giudici di Legittimità con riferimento al precedente citato dalla Corte d’Appello (Cass. 2017/13179), si orientano nel senso che debba essere letto e contestualizzato alla luce delle argomentazioni e delle precisazioni delle pronunce successive che sono seguite in materia e, in particolare, con quelle affermate dalle recenti decisioni Cass. 2021/30490 e Cass. 2020/14131 ove è stata evidenziata comunque la necessità, ai fini della operatività della decadenza di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, quarto comma, di un provvedimento o di un atto da impugnare ovvero di un tipizzato fatto (scadenza del contratto a tempo determinato).
In sintesi, secondo tale orientamento, non si può estendere analogicamente ad un “fatto” (cessazione dell’attività del lavoratore) una norma calibrata in relazione ad atti scritti e recettizi ovvero a fatti tipizzati: una diversa interpretazione renderebbe, infatti, eccessivamente aleatorio l’esercizio del diritto di azione del lavoratore, stante l’intrinseca difficoltà di identificarne con esattezza il diritto di azione.
La Corte, nella motivazione della sentenza, non ravvisa un contrasto di orientamento con il precedente dell’anno 2017, perché quest’ultimo si limitava ad individuare la fattispecie di applicabilità della decadenza in questione (tra cui le azioni dirette al conseguimento di un risultato di contenuto economico o comunque risarcitorio, che presupponga l’accertamento del rapporto alle dipendenze di quest’ultimo), mentre con la sentenza in commento si precisano soltanto i presupposti di operatività della decadenza stessa, ponendosi, quindi, su di un piano logico-giuridico diverso e successivo rispetto alla analisi svolta dalla prima sentenza.
Pertanto, la Corte conclude che “sia nei casi di richiesta di costituzione (ove è chiara la volontà dell’istante di ripristino immediato e/o di stabilizzazione) sia nei casi di richiesta di accertamento (ove l’azione dichiarativa richiede un accertamento “ora per allora”) dei rapporto di lavoro alle dipendenze di un soggetto diverso dal titolare del contratto”, è necessario che vi sia “provvedimento in forma scritta o un atto equipollente che neghi la titolarità del rapporto stesso datoriale” che renda operativo e certo il termine di decorrenza della decadenza di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. d), in un’ottica di bilanciamento di interessi costituzionalmente rilevanti.
La conclusione a cui giunge la Corte di Cassazione con la sentenza in commento, a parere di chi scrive, lascia comunque molte perplessità. Infatti, il dato normativo si riferisce all’ “accertamento” di un rapporto di lavoro, con la conseguenza che non è necessario – in base alla norma - un provvedimento (in forma scritta) da impugnare e che, probabilmente, nell’attività di “accertamento” vi è anche quella di individuare la data di cessazione dello stesso.
Il termine decadenziale di 60 giorni previsto dal Collegato Lavoro, posto che è sotteso (nel caso in esame) ad una eventuale e futura azione di “accertamento” (e non di impugnazione), sempre ad avviso di chi scrive, è sovrapponibile ai termini decadenziali previsti per l’accertamento di vizi e difetti di cosa venduta (art. 1495 cod. civ.) e/o costruttivi (artt. 1667 e 1669 cod. civ.) per i quali non è prevista l’impugnazione di un atto scritto, ma soltanto un onere di denuncia entro termine decadenziale dalla scoperta del vizio e/o difetto; rientrando nelle attività del giudicante - nel caso in una parte eccepisca l’intervenuta decadenza - anche l’accertamento della data in cui il vizio si è presentato e/o era conoscibili dai soggetti meritevoli di tutela.

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