TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Il volume scritto a quattro mani ha il merito di aver scelto la formula espositiva a tesi, del tutto inusuale nelle opere dei giuristi e viceversa usata e spesso abusata nei programmi politici,
Questo stile espositivo facilita la chiarezza delle posizioni, che non va a scapito quasi mai della argomentazione.
L’impostazione generale del volume dedica ampio spazio alla riflessione sui principi della nostra materia e ai suoi fondamenti assiologici, termine forse inflazionato che potrebbe essere sostituto dal più semplice aggettivo ‘valoriale’.
Tale impostazione è sostenuta con ampiezza di richiami teorici e costituzionali, che testimoniano la cultura anche comparata degli autori. Un simile approccio è oltremodo opportuno in un’epoca come l’attuale in cui i fondamenti dei nostri sistemi e le categorie acquisite dal passato sono messi discussione, non solo nel diritto del lavoro.
Ciò è vero specie se, come per gli autori, il richiamo ai valori e ai principi non implica nostalgia del passato, come invece si avverte in alcune riflessioni del genere, nè difficoltà a confrontarsi con le travolgenti novità del tempo presente.
Ho già avuto modo di sostenere che le innovazioni prospettate dalla nuova economia verde e digitale sono così profonde che non bastano semplici aggiustamenti dell’esistente per rivitalizzare il diritto del lavoro (come altre discipline storiche).
Nel contempo penso che “i principi e i valori fondativi della nostra materia non necessitino di stravolgimenti, bensì di un riesame costruttivo delle loro implicazioni nel contesto attuale e futuro che permetta di trovare nuove modalità applicative e nuovi strumenti in grado di attualizza il significato” (Bruno Caruso, Riccardo del Punta, Tiziano Treu, Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile).
Condividendo la impostazione generale delle tesi, mi concentro su alcuni aspetti che mi sembrano particolarmente significativi.
Anzitutto rilevo che la reinterpretazione delle nostre regole, e delle politiche a monte di esse, si presenta alquanto ardua, perché il passaggio dai principi e dai valori alle policies necessario a renderli percepibili e convincenti agli attori del mondo del lavoro e dell’impresa, è cosparso di ostacoli.
Per di più presenta alternative anche radicali, spesso oscurate dalle incertezze del contesto, dalla velocità dei cambiamenti, oltre che dalla parzialità delle nostre osservazioni anche bene intenzionate.
In molte scelte di policy e di regolazione (quasi tutte) viene in gioco la necessità di un bilanciamento fra interessi e talora anche fra valori diversi, su cui si gioca la efficacia e “la giustizia” delle scelte concrete.
Le trasformazioni in atto sono così profonde da alterare le stesse connotazioni strutturali degli interessi che sono da contemperare: quelli dei lavoratori, così diversificati dal lavoratore subordinato del Novecento e quelli delle imprese, sempre più distanti dal modello fordista.
Sono differenze che non possono essere semplicemente negate per ricondurle allo schema onnicomprensivo del rapporto capitale lavoro e che quindi vanno analizzate a fondo per tenerne conto nel bilanciamento degli interessi in gioco nei rapporti di lavoro e nelle vicende delle persone che lavorano. Le difficoltà di tali scelte, e talora la loro aleatorietà, sono percepibili in tante prese di posizione, anche di autori che dicono di ispirarsi ai medesimi principi e portano a oscillazioni di orientamenti rispetto a questioni simili. Qualche segno di queste difficoltà e oscillazioni, non solo di stile, mi sembra presente anche nel testo in esame, pur nel complesso omogeneo e coerente.
L’analisi degli autori circa lo stato della nostra materia denuncia con accenti alquanto critici la arrendevolezza di gran parte di essa nei confronti nell’ ondata liberista che ha interessato non solo il nostro paese e delle teorie che l’hanno sostenuta. È indubbio che le tendenze in senso lato liberiste abbiano influito non poco anzitutto sulle politiche pubbliche economiche e sociali a partire dagli anni Ottanta. Hanno contributo a lasciar spazi incontrollati a una globalizzazione che ha provocato crescenti diseguaglianze fra i popoli del mondo.
Ma le reazioni degli ordinamenti europei a queste tendenze non sono state tutte e sempre eguali. Le ricerche comparate, di cui anche io mi sono occupato, mostrano che il Washington consensus e la deregulation non hanno ricevuto la medesima accoglienza in tutti i paesi.
Permane tuttora quella che si è definita la varietà dei capitalismi, come hanno sostenuto, anche di recente, gli autori che se ne sono per primi occupati (David Soskice, Peter Hall).
Anche le varie dottrine, non solo quella del diritto del lavoro, non si sono tutte omologate alle sirene liberiste. Fra di noi i dibattiti e le divisioni sono state spesso profondi. E nel nostro paese le voci critiche dei giuslavoristi alle politiche dei governi più inclini a favorire tali posizioni, sono sempre state presenti, anche se con alterne capacità di efficacia e di argomentazione.
Soprattutto sono state diverse nel tempo le reazioni della Unione Europea. Le autorità della Unione sono state a lungo dominate da politiche di austerity che hanno avuto conseguenze gravi specie sui paesi fragili come l’Italia e hanno appesantito, invece di ridurre, gli effetti della crisi del 2008.
Ma il revirement inaugurato dalla Commissione Von der Leyen ed emblematizzato dal Next generation EU, oltre che dal rallentamento dei vincoli finanziari del patto di stabilità, non è irrilevante e non può essere sottovalutato.
Si tratta di un cambio di asse delle politiche europee nelle principali materie economiche, e anche in quelle sociali come mostra il recente attivismo della commissione europea nel dare attuazione al Social Pillar. È un cambiamento tuttora contrastato all’interno dell’unione, ma che sta influendo sulle politiche nazionali spingendole nella direzione di nuovi percorsi di sviluppo e di politiche pubbliche più solidaristiche.
In ogni caso le tendenze che negli anni recenti hanno indebolito le politiche sociali e il sindacato, non sono inevitabili e irreversibili, come riconoscono anche gli autori.
La nostra materia è più che mai sottoposta a sfide dirette, anche più di altre discipline. Deve saper interpretare le grandi trasformazioni in atto nelle nostre società e cogliere le opportunità offerte dalle nuove direzioni dello sviluppo all’insegna della sostenibilità indicate dell’Europa. Si tratta di ricercare le strategie e gli strumenti con cui le politiche pubbliche e in particolare la regolazione del lavoro possono sostenere questo nuovo corso dello sviluppo.
È una ricerca del tutto aperta e difficile, come riconoscono gli autori, perché le politiche pubbliche e con esse il nostro diritto, hanno dato per acquisito se non assecondato il modello produttivistico storico basato su consumi e investimenti che non consideravano le compatibilità ambientali e anzi erano spesso pregiudizievoli di queste.
Nelle scelte future e nel bilanciamento di interessi cui è chiamata la nostra materia dovranno essere compresi come termini essenziali i vari aspetti della compatibilità, non solo quelli economici tradizionalmente spesso prevalenti, ma quelli sociali e appunto quelli con dell’ecosistema in cui viviamo.
La nostra materia è sotto stress per un’altra modifica radicale del contesto, cioè per una internazionalizzazione degli scambi e delle stesse regole giuridiche, che ha decontestualizzato tutti i diritti, non solo quello del lavoro, fondati sullo Stato nazione. Anche qui le politiche pubbliche e le scelte giuridiche, se non i nostri valori, dovranno confrontarsi con ordinamenti diversi, all’interno stesso dell’Unione europea per rafforzare un tessuto normativo comune, che è ancora parziale e inadeguato.
Inoltre le contraddizioni e le diseguaglianze prodotte dalla liberalizzazione dei mercati pongono agli Stati la urgenza di rendere operativo il collegamento tra diritti sociali e commercio internazionale, impiegando formule giuridiche più vincolanti del passato, come sta avvenendo con i Free trade agreements di nuova generazione, e per altro verso introducendo principi vincolanti per le imprese multinazionali in tema di due diligence sui diritti fondamentali dei lavoratori. Su ambedue i temi gli autori danno precise indicazioni, seguendo temi di ricerca cui si è dedicato soprattutto Perulli.
Le minacce del cambiamento climatico, cui gli autori dedicano l’ultimo capitolo del volume, pongono sfide epocali alle politiche pubbliche da cui dipende il futuro del pianeta.
Le scelte pubbliche, ma anche quelle degli attori privati, devono confrontarsi con “l’obiettivo di rendere il lavoro umano compatibile con le istanze sovrane della Terra” e di costruire “un nuovo modello di mercato del lavoro green friendly”. Gli autori suggeriscono molteplici temi su cui il diritto del lavoro deve esercitarsi per contribuire a tali obiettivi: rinnovare le misure per la salute e la sicurezza ,sempre più legate alla questione ambientale, includere nei contratti individuali di lavoro clausole e benefits sensibili all’ impatto climatico, rafforzare i poteri di partecipazione dei lavoratori di contribuire alla riprogettazione degli ambienti di lavoro, e soprattutto rafforzare i loro diritti e le opportunità di formazione essenziali per cogliere le opportunità offerte dall’ economica verde e dai green jobs.
Le sfide della sostenibilità ambientale sono destinate a incidere profondamente nelle scelte tradizionali di politica industriale e conseguentemente nei rapporti fra lavoro e impresa.
Concordo sulla necessità che il diritto del lavoro debba “ricalibrare la sua giustificazione industriale, con la sicurezza e salute delle persone e tener conto delle conseguenze ambientali delle attività dell’impresa”.
Ma la interdipendenza dei fattori dello sviluppo impone scelte complesse, che esclude ogni semplificazione circa le modalità con cui integrare i temi ambientali nei progetti economici. Lo dimostrano, ad es., le vicende dell’ILVA, menzionate dagli autori e ancora in attesa di trovare un giusto bilanciamento fra ragioni dell’occupazione e ragioni dell’ambiente della salute.
Analoga urgenza di ripensare i rapporti fra impresa e lavoro è sollecitata dalle tecnologie digitali, che costituiscono un altro grande fattore di trasformazione economica e sociale della nostra epoca.
Le loro implicazioni sul futuro del lavoro, sulla sua quantità e qualità, ma anche sulla sua distribuzione, non sono certe nè tanto meno garantite.
Ma dare risposte positive a queste incertezze è un impegno centrale per le politiche del lavoro dei prossimi anni.
Il diritto del lavoro deve offrire il suo contributo con gli strumenti che gli sono propri : anzitutto per rafforzare le competenze delle persone necessarie a cogliere le opportunità dei nuovi lavori di cui si diceva, e inoltre per prevedere strumenti efficaci ,di assistenza economica e di servizio, in grado di sostenere i lavoratori nelle grandi transizioni fra diverse attività e fra diverse imprese, attivate dal nuovo sviluppo digitale ed ecologico previsto nel NGEU e nei piani nazionali di ripresa.
Le innovazioni delle tecnologie digitali contribuiscono, come illustrano gli autori, a superare la tradizionale struttura gerarchica dell’Impresa, promuovendo forme di maggiore autonomia dei lavoratori, in parte già visibili come nel lavoro agile.
Al riguardo Perulli e Speziale esprimono fiducia sull’impatto sul lavoro conseguente a queste trasformazioni delle imprese, fino al punto di prefigurare “una metamorfosi in senso bilaterale della subordinazione”.
Il loro sforzo propositivo per sostenere “questa progettualità verso il riconoscimento e la libertà Intersoggettiva del lavoratore” è indubbio e tocca punti critici dei rapporti fra le parti: dal superamento della gerarchia nell’impresa, al ridimensionamento dei vincoli spazio-temporali della prestazione, alla conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di vita, alla valorizzazione della professionalità delle persone che lavorano.
Ma quella prefigurata è una utopia, sia pure ragionevole come riconoscono gli autori.
Per potervi trovare consistenti sostegni si richiede il verificarsi di molte condizioni strutturali, non solo giuridiche, che sono ancora carenti: a cominciare da un rafforzamento dell’azione collettiva e dalla ricerca di forme più avanzate di democrazia industriale.
Al riguardo gli autori attribuiscono grande importanza al rafforzamento della disciplina riguardante i poteri dell’impresa sia nello jus variandi sia nel licenziamento economico, per correggere lo squilibrio esistente.
In particolare su questo ultimo aspetto le loro indicazioni circa le motivazioni richieste per giustificare tale licenziamento prefigurano un controllo del giudice potenzialmente alquanto penetrante sulla razionalità delle decisioni aziendali: uno strumento di estrema delicatezza e dalle implicazioni tutt’ altro che univoche.
Certo si è che le tecnologie digitali, con la diffusione di macchine intelligenti e della intelligenza artificiale in grado di influire sulla gestione delle imprese e del lavoro, ripropongono in termini nuovi, e non certo meno critici, la questione dei rapporti di potere fra le parti individuali e collettive.
La impresa -piattaforma che opera in contesto digitale richiede di ripensare sia la regolazione del lavoro, nelle forme nuove, spesso ibride fra autonomia e subordinazione, sia il senso e la efficacia delle relazioni collettive.
A questo problema sono rivolti una proposta di direttiva europea e un accordo fra le organizzazioni di vertice delle parti sociali europee, entrambi testi che pongono la necessità di prevedere forme di controllo collettivo sugli interventi delle macchine intelligenti nella gestione dei rapporti di lavoro in modo tale da garantire il rispetto del principio del controllo umano su tali interventi.
È sulla capacità dei nostri strumenti di far rispettare tale principio nelle turbolente evoluzioni della nostra società, che si giocherà gran parte del futuro del lavoro e della sua effettiva autonomia.

 

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