Testo integrale con note e bibliografia

1. Premessa

C’è un’aporia che fa da sottofondo a buona parte delle discussioni pubbliche sul lavoro negli ultimi decenni. Proviamo a formularla nel modo più chiaro possibile: mentre da un lato le politiche pubbliche tendono sempre di più a dare al lavoro la forma istituzionale della merce (tramite la riduzione semantica del lavoratore a risorsa, la flessibilità in vista di un allineamento con il “mercato del lavoro”, ecc.), d’altro lato le teorie critiche cercano di riaffermare che il rapporto tra lavoro e merce è una contraddizione essenziale: il lavoro è tale quando non è la merce a dargli forma (e, al contrario, quando il lavoro prende la forma della merce non è più lavoro ).
È a quest’aporia – all’apparenza banale – che vorrei dedicare queste mie riflessioni.
Essa segnala innanzitutto una crisi nel rapporto tra teoria e prassi. È vero infatti che una teoria critica non può che avere come proprio oggetto l’azione presente, ciò che accade e, nel caso specifico, la configurazione prassica cui le politiche pubbliche costringono il lavoro. Ma questo compito critico della teoria diventa aporetico quando ciò a cui si rivolgono le critiche non solo non viene coerentemente modificato ma, in un certo senso, le smentisce performativamente. C’è una definizione normativa del lavoro (ciò che dovrebbe essere il lavoro) a cui corrisponde però una sua definizione empirica del tutto contraria (il lavoro è di fatto ciò che non dovrebbe mai essere). Il caso unico dell’aporia del lavoro diventa il pretesto per riconoscere un’aporia più universale e addirittura formale, quella del rapporto divenuto strutturalmente aporetico tra teoria e prassi, critica sociale e politiche pubbliche. Dalla analisi del lavoro come evento sociale giungiamo così a un livello che ha a che vedere con l’epistemologia delle scienze sociali.
Per capire quanto sto provando a chiarire va però premessa una definizione concettuale. La categoria di lavoro ha una storia che coincide con la storia umana: c’è lavoro in qualunque luogo e tempo in cui un essere umano si è mosso. Ma ciò a cui noi ci riferiamo non è il lavoro come categoria generale della storia umana . C’è un evento che segna la radicale discontinuità in questa storia concettuale, ed è la modernità. La modernità inventa letteralmente il lavoro, nel senso che ciò a cui ci riferiamo con tale concetto è adesso il lavoro organizzato all’interno di un sistema sociale che definiamo capitalismo. Quest’invenzione è stata non solo materiale, ma anche concettuale. Vi sono tanti significati a cui, a partire dalla svolta moderna, è necessario riferirci quando discutiamo del tema. Io sono particolarmente legato a due definizioni del lavoro moderno: la prima, che devo a Gorz, è quella per cui il lavoro è sempre anche lavoro sociale . Cioè che il lavoro ha assunto nella modernità il compito secolarizzato di legare trascendentalmente i rapporti sociali. Un vero e proprio fatto sociale totale della modernità e, con ciò, uno dei pochi fenomeni sociali in grado non solo di compiere l’azione a sé immanente ma anche contemporaneamente di universalizzarla.
La seconda definizione è più classica, per cui il lavoro contiene in sé, in quanto intrinsecamente connesso allo sfruttamento da parte del capitale, varie forme di alienazione. In quanto il lavoro viene mercificato, esso non può che avere come propria conseguenza l’alienazione. Questa definizione però non può essere riproposta così come Marx l’ha immaginata . Non perché egli abbia sbagliato o perché non sia vera, ma perché la storia moderna del lavoro ha provato a trasformare l’esperienza del lavoro in una tensione tra un minimo di alienazione necessaria e un massimo di dignità possibile. Mi riferisco in particolare alla sfida delle “socialdemocrazie” – in particolare nei “trent’anni gloriosi” – che hanno affidato proprio al lavoro il compito di garantire e incrementare la dignità.

2. Il lavoro e la dignità

È precisamente a questo nesso tra dignità e lavoro che voglio dedicarmi. Cominciamo col dire che questo nesso si può definire istituzionalizzato ed esclusivo. Istituzionalizzato, dal momento che il lavoro è quell’azione pubblica attraverso cui il cittadino può godere pubblicamente della propria dignità: ottenere una retribuzione dignitosa, costituirsi un’identità sociale, contribuire alla fiscalità generale tramite cui avere accesso al welfare, garantirsi una pensione. Sta qui la natura trascendentale del lavoro moderno: il lavoro non è un aspetto tra gli altri che ci permettono di concretizzare la formula vuota della dignità umana ma è la condizione di possibilità che permette la fruizione di tutti gli altri aspetti. Ma questo rapporto è anche esclusivo, poiché non c’è un altro fatto sociale in grado di svolgere la stessa funzione trascendentale. Ecco perché le democrazie occidentali hanno costruito una vera e proprio ontologia sociale del lavoro: il lavoro non si coniuga semplicemente alla dignità (il lavoro e la dignità), il lavoro produce la dignità come esperienza sociale (il lavoro è la dignità) .
Mi rendo conto che quest’analisi sia in effetti una stilizzazione. Non tutte le socialdemocrazie hanno assegnato al lavoro la stessa funzione sociale e a queste variazioni corrispondono non solo differenti discorsi normativi (basti pensare alle differenze tra la Costituzione italiana e la Grundgesetz, come vedremo), ma anche politiche del lavoro diversissime tra loro. Ma tutte queste variazioni sono all’interno di quel paradigma appena esplicitato, secondo cui il lavoro è in via istituzionalizzata ed esclusiva un fatto sociale totale della modernità.
Bisognerebbe riconoscere, innanzitutto, che questo rapporto tra politiche del lavoro e vita democratica resta speciale anche quando si fa riferimento alla doppia crisi che investe sia il lavoro sia la democrazia. In effetti, come nota anche Honneth, è molto curioso che quando la filosofia politica prende in esame le cause della crisi della democrazia, difficilmente la pensa in riferimento alla metamorfosi sociale del lavoro:

«La spiegazione più breve dei cambiamenti in corso è semplicemente che, a oggi, il lavoro non è in grado di mantenere e garantire un’adeguata fonte di reddito per i lavoratori e le proprie famiglie. […] Gli esperti del settore proseguono imperterriti, come se, analizzando la situazione e i pericoli per le democrazie contemporanee, si potessero tranquillamente ignorare i cambiamenti che hanno luogo nel mondo del lavoro. Raramente si discute sulle possibili cause degli aspetti più problematici delle democrazie occidentali – l’irrilevanza funzionale dei partiti politici, la riduzione del peso del parlamento, la perdita di sovranità nazionale, la svalutazione delle istituzioni democratiche – ma l’idea che l’erosione delle relazioni lavorative stabili possa essere tra le cause principali non viene praticamente mai presa in considerazione» .

Ora, la mia tesi è che sia proprio la mise en forme moderna dell’intreccio di dignità e lavoro a non permetterci di ignorare il rapporto tra democrazia e lavoro nell’epoca della loro crisi. In particolare – ed è ciò che interessa in queste pagine - non possiamo comprendere appieno le trasformazioni contemporanee del concetto sociale di lavoro se non riconoscendo in esse il compimento dell’ambiguità che attraversava strutturalmente il postulato socialdemocratico del nesso tra lavoro e dignità. Potremmo definire tale ambiguità come una tensione tra il carattere fondativo della dignità e la sua controprova sociale.
Che cos’è la dignità umana, infatti? Sia sufficiente qui, senza richiamare all’ampio dibattito scientifico sul tema , il rimando alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, laddove si rammenta che «l’unico e sufficiente titolo necessario per il riconoscimento della dignità di un individuo è la sua partecipazione alla comune umanità». La dignità umana è dunque una dote incondizionata che appartiene ad ogni essere umano in quanto tale: «tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti» (art. 1).
È noto che questo carattere fondativo è il risultato di una lunga storia concettuale. Nella Dichiarazione del 1948 permangono ancora degli elementi giusnaturalistici, laddove si fa riferimento alla “nascita” come fonte originaria della dignità stessa. In effetti è proprio il passaggio della modernità che assolutizza la dignità umana rendendola autonoma da ogni strumento di legittimazione. Nel progressivo processo di secolarizzazione, la dignità è piuttosto ciò che si legittima da sé e finisce col coincidere con l’autonomia. Dobbiamo a Kant la definizione più esemplare:

«Ogni uomo ha diritto di esigere il rispetto dei suoi simili e reciprocamente è obbligato egli stesso al rispetto per gli altri. L’umanità in se stessa è una dignità, poiché l’uomo non può essere trattato da nessuno (cioè né da un altro e neppure da se stesso) come un semplice mezzo, ma deve essere trattato nello stesso tempo come fine, e precisamente in questo consiste la sua dignità (la sua personalità)» .

La dignità coincide con l’essere umano in quanto tale, con l’uomo senza qualità. Questa umanità in sé è per Kant un principio tale per cui l’essere umano non può mai essere sfigurato al punto da non essere riconosciuto (anche) come fine. Ma è proprio cercando di applicare tale principio al lavoro moderno che emerge un’irriducibile connotazione aporetica.
In primo luogo, come è possibile promettere di dare dignità sociale tramite il lavoro capitalistico, la cui condizione è precisamente la strumentalità? Quella quota necessaria di alienazione non si può definire come una de-finalizzazione dell’essere umano implicato nel lavoro? Se nel capitalismo non si dà lavoro senza (una qualche forma di) alienazione, allora la contraddizione tra dignità e lavoro sembrerebbe non essere solo accidentale ma genetica. Farebbe capo niente di meno che all’accumulazione originaria e alla grande trasformazione sociale operata dal capitalismo, per cui il lavoro diventa una «merce fittizia», come ci ricorda Polanyi nel sesto capitolo del suo capolavoro: «lavoro, terra e moneta sono elementi essenziali dell'industria; anch'essi debbono essere organizzati in mercati poiché formano una parte assolutamente vitale del sistema economico; tuttavia essi non sono ovviamente delle merci» . La demercificazione del lavoro diviene così un’utopia socialdemocratica che insorge nel cuore stesso del processo di regolazione sociale del capitalismo e proprio per questo, probabilmente, finisce per restare incompiuta.
In secondo luogo, se la dignità umana coincide con l’autolegittimazione dell’essere umano in quanto tale, come è possibile immaginare che essa debba essere prodotta socialmente? Non può esistere una produzione, ma solo un riconoscimento della dignità. In un certo senso si potrebbe dire che la dignità è il limite invalicabile dalla tecnica, la quale consiste nel movimento di accrescimento continuo della produzione, un movimento che si deve arrestare sulla soglia della dignità. È così che possiamo proporre una nuova definizione del carattere fondativo della dignità, riferendolo al lavoro: la dignità è ciò che non può mai essere prodotta dal lavoro, essendo piuttosto essa stessa ciò che produce la necessità del lavoro per gli esseri umani.

3. Una discussione “costituzionale”

Ora, il lavoro critico volto a far emergere le aporie non è affatto astratto. Esso ha un ruolo concretissimo, nel caso di queste pagine. Serve a collocare dentro un contesto più esteso alcuni temi che accendono il dibattito pubblico. Prendiamo il tema del reddito di cittadinanza. Come è noto anche su questo si deve ammettere che a una complessità teorica della questione fa da contraltare una sua semplificazione pratica. Semplificazione che è anche necessaria, ovviamente. Non si può pretendere che un processo legislativo corrisponda perfettamente alla discussione filosofica. Ciò che vorrei suggerire è piuttosto di non ignorare che dietro posizioni apparentemente ideologiche – cioè legate alla legittimazione del mero presente - vi sono presupposti teorici e culturali che muovono le nostre preferenze pubbliche e incidono nelle scelte normative che adottiamo. Nel caso del reddito di cittadinanza questo sfondo teorico è facilmente intuibile: l’idea che vi possa essere un reddito fondato sulla dignità e non sul lavoro mette in crisi non soltanto la convinzione moderna del lavoro come fatto sociale totale, per cui al lavoro è assegnato il compito di istituire legami sociali e riconoscerci pubblicamente , ma anche l’utopia delle democrazie sociali per cui il lavoro è ciò che produce la dignità. Dietro una mera discussione politica è in gioco la messa in discussione dell’istituzione politica della società moderna, riproponendo un’aporia che è – come scritto ripetutamente – genetica e non solo contingente.
Se c’è una Costituzione che è mossa dal convincimento della legittimazione sociale della dignità molto più che della sua natura fondativa è proprio quella italiana. Se la mettiamo a confronto, per fare solo un esempio, con l’art. 1 del Grundgesetz tedesco - secondo cui «la dignità dell’uomo è intangibile. Rispettarla e proteggerla è obbligo di tutto il potere statale» - ci accorgeremo di quanto l’ottimismo sociale per cui al lavoro è assegnato il compito della dignità umana definisce i caratteri filosofici della nostra Costituzione. Ciò che nel Grundgesetz tedesco è rappresentato dalla dignità, nella Costituzione italiana è rappresentato dal lavoro .
Non che entrambe non fissino lo stesso compito fondamentale per lo Stato, la garanzia della dignità di ciascuna e ciascun cittadino. Ma la Costituzione italiana insiste immediatamente sull’idea secondo cui la dignità – per non essere imputata d’astrazione – è qualcosa da costruire socialmente. Luhmann estremizza il concetto e, in questo modo, lo chiarisce, quando riconosce che la dignità non è che il prodotto di «prestazioni di rappresentazioni con le quali l’individuo si guadagna nella società la propria dignità» . La dignità diventa in questo caso un “guadagno prestazionale”. Non si può ovviamente ridurre il senso dell’affermazione di Luhmann alla retorica contemporanea sul merito , quanto piuttosto a quella stessa idea costituzionale della legittimazione sociale della dignità tramite il lavoro. La discussione sul reddito di cittadinanza va dunque ricondotta a questo intreccio originario di dignità e lavoro. Ciò che sorprende e in un certo senso rassicura – ma del resto lo studio delle fonti storiche serve precisamente a questo: a evitare la tentazione di pensare sempre al proprio presente come un’eccezione – è che questa discussione riproduce esattamente alcuni argomenti e posizioni politiche che erano presenti nella discussione preliminare dei nostri costituenti. Per esempio questa citazione di Dossetti – datata 8 ottobre 1946 – contiene in sé le ragioni che oggi orientano coloro che avversano il reddito di cittadinanza, sostenendo che non sia dignitoso. Dossetti sostiene che

«il diritto ad avere i mezzi per una esistenza libera e dignitosa non deriva infatti dal semplice fatto di essere uomini, ma dall'adempimento di un lavoro, a meno che non si determinino quelle altre condizioni da cui derivi l'impossibilità di lavorare per i motivi che saranno indicati negli articoli concernenti l'assistenza e la previdenza. Fa presente la necessità di fissare il principio che la società non è tenuta a garantire un'esistenza libera e dignitosa a colui, che, pur essendo cittadino, non esercita, per sua colpa, alcuna attività socialmente utile» .

Dossetti era – come è noto – uno degli esponenti più sensibili del cristianesimo sociale. Nelle sue parole vi è un argomento teorico ben preciso che, per certi versi, è la versione morale dell’argomento funzionalista di Luhmann: la dignità dell’esistenza è un diritto secondario, derivato dall’adempimento di un lavoro. Ognuno dunque ha da svolgere un compito sociale e lo fa tramite il lavoro. Dossetti non è affatto immune dalle teorie lavoriste della modernità e dunque dalla convinzione (per alcuni presunzione) che il lavoro non sia una maledizione – come nelle pagine bibliche – ma sia l’azione della fioritura dell’essere umano. A questo argomento teorico segue un principio politico tanto severo quanto attuale. Non solo il lavoro è la condizione sociale che produce concretamente la dignità, ma coloro che scelgono deliberatamente di non lavorare si pongono essi stessi fuori dal patto sociale: non c’è alcun dovere da garantire (e, correlativamente, nessun diritto da rivendicare) da parte dello Stato. Chi non lavora non si guadagna la propria dignità.
Partecipando allo stesso dibattito Amintore Fanfani, un altro esponente autorevole dello stesso partito di Dossetti, sembra sfumare questa funzione trascendentale del lavoro col riguardo alla dignità umana:

«Ogni cittadino ha il dovere e il diritto di dedicare la sua opera manuale o intellettuale ad un'attività produttiva conforme alle sue attitudini e nei limiti delle sue possibilità. La Repubblica riconosce al cittadino il diritto ad una occupazione continua e proficua o almeno ad un'assistenza che la surroghi e con norme apposite ne predisporrà il godimento, incoraggiando e coordinando l'attività economica promossa dai privati, svolgendo una politica di pieno impiego, stipulando accordi internazionali per l'emigrazione e determinando le modalità dell'indennizzo ai disoccupati involontari» .

Certo, siamo anche qui all’interno di una cultura costituzionale improntata a quella che abbiamo definito la legittimazione sociale della dignità umana. L’attività produttiva è certamente un dovere e un diritto. Ma vi sono alcuni elementi di differenziazione rispetto alla posizione di Dossetti.
In primo luogo il fatto che il nesso tra dignità e lavoro venga esplicitato sotto il segno positivo e non soltanto sotto forma negativa. Se per Dossetti senza «un lavoro» non vi può essere alcuna dignità, per Fanfani non si tratta affatto di affidare il prodursi sociale della dignità all’indeterminatezza del lavoro ma di riconoscere che il nesso si produce nella misura in cui l’attività produttiva è commisurata alle esigenze, ai bisogni, alle attitudini e ai limiti della singola persona umana. Non ogni lavoro è dignitoso, ma solo quel lavoro che permette la soddisfazione integrale della persona. Per tornare a una delle aporetiche da cui siamo partiti: se prendiamo spunto dalle parole di Dossetti il lavoro produce dignità in ogni caso, persino quando non può evitare una certa quota d’alienazione, poiché è comunque una condizione necessaria senza la quale non vi può essere alcuna dignità. Mentre in Fanfani il lavoro produce dignità nella misura in cui esso è un’esperienza incarnata di autenticità e autonomia e non di alienazione.
In secondo luogo l’approccio di Fanfani appare molto più laico: mentre in Dossetti la religione lavorista diventa un principio di esclusione sociale, in Fanfani il compito della Repubblica è quello di garantire il soddisfacimento del diritto al lavoro ma anche – e senza scomuniche – quello di trovare forme di assistenza che surroghi la mancanza di occupazione.
Certo, non si possono leggere queste parole come una critica al lavorismo, tutt’altro. Del resto abbiamo già riconosciuto quanto la Costituzione italiana contenga la più rigorosa esposizione dell’idea moderna secondo cui il lavoro è il trascendentale della dignità. Ma è sufficiente sottolineare come la radicalizzazione paradigmatica che è presente in Dossetti venga qui attenuata. Non è difficile riconosce l’attualità di quella discussione, peraltro con dei cortocircuiti culturali molto interessanti. Dossetti – uno dei maestri di quelli che oggi difendono il senso politico e culturale del reddito di cittadinanza – propugna una radicalizzazione che ne è un argomento contrario. Fanfani invece sembra non chiudere del tutto all’idea che il compito dello Stato non sia semplicemente quello di garantire un impiego ma possa – certo in circostanze particolari – esplicitarsi in forme alternative che, come tali, non dimidiano ma anzi garantiscono il principio della dignità umana.

4. Conclusione

Dietro alla discussione sul reddito di cittadinanza c’è dunque un consolidato problema di ordine culturale che concerne precisamente l’aporetica iniziale: il lavoro produce la dignità o la dignità, in quanto per definizione incondizionata, può essere garantita in forme diverse? E nel caso in cui si aderisca alla seconda tesi, che cosa prenderà il posto del lavoro come fatto sociale totale della modernità?
Torniamo però all’aporia iniziale: quella per cui vi è una contraddizione tra le teorie critiche che tengono il punto sulla necessità di demercificare il lavoro e l’organizzazione neoliberista che si basa su un processo sempre più selvaggio di mercificazione del lavoro. Quel che potremmo dire, in conclusione, è molto semplice: se il reddito di cittadinanza lascia intravvedere – certo nelle sue versioni ben più radicali di quelle in vigore in Italia – una messa in crisi del paradigma lavorista e, con ciò, dell’organizzazione sociale della modernità, il processo in atto di mercificazione rappresenta anch’esso una contestazione dell’ordine sociale moderno. Solo che mentre nel primo caso si può ancora scommettere sul fatto che il superamento del lavoro come fatto sociale totale sia fatto in nome e per conto dell’incondizionatezza della dignità, nel secondo caso l’esito postmoderno è in realtà nient’altro che un ritorno a dei rapporti sociali governati dal conflitto e dalla diseguaglianza. Non bisogna scegliere per forza se uscire dalla modernità, ma se si sceglie di farlo lo si può fare in termini progressivi o in termini regressivi. La questione sociale del lavoro è così centrale perché pone niente di meno che queste questioni di principio: che rapporto vogliamo avere con la modernità? E che funzione può ancora avere la democrazia, se essa è sganciata dal valore di equilibratore che la modernità ha affidato al lavoro?

 

 

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