Testo integrale con note e bibliografia

1. Premessa alla premessa degli autori
Il libro, smilzo ma densissimo, firmato da Adalberto Perulli (AP) e Valerio Speziale (VS) vaut le voyage intellettuale in cui i due autori, molto noti e molto stimati (anche da me), coinvolgono il lettore.
Prima di cominciare a leggerlo, questo libro, immaginavo che si trattasse di una risposta “da sinistra” al Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile di Bruno Caruso, Riccardo del Punta, e Tiziano Treu . In una certa misura avevo ragione di pensarlo: il Manifesto e le Tesi sono entrambi progetti (politici) di rinnovamento di una disciplina giuridica che ha conosciuto, negli ultimi venti anni, molti mutamenti, alcuni veri rivolgimenti, e una profonda crisi valoriale .
Ma la lettura mi ha fatto capire (per quel che ho capito: colpa della mia ignoranza, non della supponenza degli autori) che la “partita” tra Manifesto e Tesi non si gioca sullo stesso terreno: il Manifesto è un progetto di riforma (o di “modernizzazione”) del diritto del lavoro esistente, le Tesi sono un progetto di rifondazione del diritto del lavoro; il Manifesto si rivolge essenzialmente al legislatore (nel senso ampio della pluralità delle fonti del diritto del lavoro); le Tesi guardano piuttosto alla scienza giuridica, sollecitando i giuslavoristi a ridefinire il proprio paradigma scientifico in vista appunto della rifondazione del diritto del lavoro . Forse non è superfluo dire che mentre il Manifesto parla una lingua familiare ai giuslavoristi da lungo tempo impegnati sul fronte della politica del diritto, la lingua delle Tesi può risultare ostica, a causa del non consueto intreccio tra politica del diritto e “accanimento filosofico” (se mi si passa questa espressione scherzosa).
Le intenzioni di AP e VS (se non erro alla prima esperienza di scrittura a quattro mani) sono enunciate al termine di una lunga premessa, nella quale viene anticipata la critica (poi più ampiamente sviluppata nella prima tesi) al processo di «sussunzione economica del diritto del lavoro, iniziato già negli anni ottanta del secolo scorso e stimolato dai mutamenti strutturali delle sfere economiche e sociali». Con la fine delle politiche keynesiane e l’imporsi del mainstream neoliberale – affermano – «il diritto del lavoro è stato sottoposto ad un fuoco di fila sia per quanto attiene alla sua legittimazione teorica, in quanto sempre meno compatibile con gli imperativi economici, sia sotto il profilo della sua effettività, con il risultato di una debolezza applicativa senza precedenti» (p. 9) .
A fronte delle sfide che l’evoluzione della sfera socio-economica lancia ai sistemi regolativi del lavoro e allo Stato sociale, AP e VS affermano che «i giuslavoristi sono chiamati a uscire dalle secche di un pensiero debole, che ha caratterizzato la riflessione lungo la transizione post-fordista, per rispondere all’aspettativa ancora incompiuta della modernità: realizzare la giustizia sociale e garantire a tutti i lavoratori, siano essi subordinati o autonomi, così come a tutti coloro che il lavoro lo hanno perduto e lo stanno cercando, una nuova cittadinanza sociale, fatta di status normativi adatti ai bisogni che nascono nei luoghi della produzione e accompagnano la vita delle persone, libertà sociali e capabilities comprensive di beni economici, diritti e libertà fondamentali» (p. 16). Secondo AP e VS non si esce da quelle secche riproponendo letture restauratrici del diritto del lavoro dei “gloriosi trenta”, «come se il diritto del lavoro potesse inscriversi in uno schema assiologico-ontologico da contrapporre a visioni puramente economicistiche della società».
Questa premessa, di cui ho riportato solo pochi punti (il discorso che si svolge nelle pagine introduttive del libro è molto articolato) sta alle spalle e ritorna nelle dieci tesi, nelle quali AP e VS dichiarano di voler “provare” a «rileggere alcuni snodi fondamentali della materia, valorizzando la teoria del riconoscimento, in particolare nell’accezione normativa neo-hegeliana di Axel Honneth» . Alla base di questa riflessione vi è «soprattutto la consapevolezza che il diritto del lavoro, quale strumento che contribuisce alla regolazione dei rapporti sociali di produzione, si inscrive entro coordinate progettuali più ampie, che riguardano la visione di una società giusta, in cui le persone fruiscono di opportunità e capacità umane centrali, incardinate nei concetti di libertà sociale e di dignità umana» (p. 19).
A me pare ovvio che qualunque proposta di politica del diritto (del diritto del lavoro, nella specie) “si inscriva in coordinate progettuali più ampie”; meno ovvia, anzi anomala, mi pare invece la scelta dei nostri autori di fare riferimento alla teoria del riconoscimento (o della lotta per il riconoscimento), formulata anni fa dal neo-hegeliano Axel Honneth, come fondamento filosofico del progetto di rifondazione diritto del lavoro costruito nelle dieci tesi.
Quel settore della dottrina giuslavoristica che da anni rivendica l’autonomia del diritto del lavoro dall’economia, richiama il legislatore da una parte, gli interpreti dall’altra, ad opporsi alla dittatura delle “leggi del mercato” (che riducono il diritto del lavoro a puro strumento di quelle leggi); chiamano entrambi a riconsiderare le condizioni del bilanciamento tra diritti fondamentali e ragioni delle imprese, facendo pesare sul piatto della bilancia i valori costituzionali dell’eguaglianza, della libertà, della giustizia sociale. Questa dottrina ha dietro le spalle convinzioni politiche e visioni del mondo alla cui costruzione contribuiscono discipline economiche, filosofiche (morali e sociali), talora anche distanti tra di loro; queste discipline formano il back-ground culturale di riflessioni sul “dover essere” del diritto del lavoro che non mettono in discussione l’autonomia del discorso sul diritto, che si confronta con altre discipline, senza esserne ibridato .
Per quanto mi riguarda, penso che il diritto del lavoro (come insieme di norme e di iuris-prudentia) sia il frutto complesso e stratificato di diverse stagioni, e di diverse ragioni, economiche, politiche e sociali, e che non sia credibile una progettazione del dover essere di una disciplina giuridica ancorato ad un astratto fondamento «metagiuridico e specificamente etico-filosofico». E penso anche che la scienza giuridica (che studia il diritto, nella specie del lavoro) abbia una propria filosofia (parte, se si vuole, della filosofia della scienza) lontana dalla metafisica.
Mi perdoneranno perciò gli autori se nel commentare le loro tesi procederò accantonando i riferimenti filosofici da essi scelti, cercando invece di cogliere, nelle tesi su cui soffermerò la mia attenzione, il nocciolo duro del discorso dei giuristi AP e VS sul diritto, per concentrare su questo la mia riflessione.

2. Le Tesi: accordi e disaccordi
Non passerò in rassegna tutte e dieci le tesi. Poiché, prescindendo dai presupposti filosofici, condivido buona parte delle proposte di politica del diritto formulate dai nostri autori, mi pare che soffermarmi sulle tesi su cui ho qualche punto di dissenso possa fornire un più utile contributo alla discussione.
Nelle prime due tesi, strettamente collegate fra loro, sono più ampiamente sviluppate le intenzioni enunciate dagli autori nella premessa. Tenendo fede alle mie premesse, mi soffermo solo sulle conclusioni che mi è parso di poterne ricavare, perché a queste conclusioni sono collegate molte delle proposte formulate nelle tesi successive.

2.1. Le Tesi I e II
Nella prima Tesi («Per una nuova “giustificazione” del diritto del lavoro») dedicata alla appunto “giustificazione” (mercantile, industriale, e civica) del diritto del lavoro AP e VS svolgono ampiamente la critica alla fase neo-liberale del diritto del lavoro già impostata nella premessa, dove, dopo aver “constatato” che il pensiero critico è rimasto avvolto nella nebbia , hanno anche affermato che gli appelli, da parte di un settore della dottrina giuslavoristica, per un diritto del lavoro più sensibile alle esigenze dell’economia e del mercato sono stonati, sia dal punto di vista metodologico, sia dal punto di vista assiologico .
Premesso che sono d’accordo sulla subalternità, negli ultimi venti anni, del diritto del lavoro al dominio del pensiero economico neo-liberale, mi paiono appropriate alcune osservazioni formulate da Riccardo Del Punta, nella sua garbata recensione critica . Anche io penso che «la cultura giuslavoristica abbia continuato come sempre a macinare i suoi temi critici, controbattendo […] agli attacchi provenienti dai settori maggioritari (anche se non unanimi) della riflessione economica», e che dunque il pensiero critico dei giuslavoristi non sia stato “avvolto dalla nebbia”. Sono ancora d’accordo (con Del Punta) sulla necessità di distinguere, evitando di presentare tutto il diritto del lavoro dagli anni novanta del secolo scorso in poi come frutto di un neoliberismo selvaggio: ma è pur vero che la scelta di AP e VS di operare grandi sintesi per arrivare a formulare una tesi coerente con la teoria che essi pongono a fondamento della riscrittura del diritto del lavoro lascia ben poco spazio all’analisi.
Ridotta al nocciolo, la prima tesi può essere letta come il progetto, che gli autori definiscono “normativo” (io direi “prescrittivo”, come opposto a “descrittivo”), di un nuovo compromesso “civico/industriale”, che porta con sé una nuova “giustificazione” (che traduco in: ragion d’essere o funzione) del diritto del lavoro «e con essa una concezione dell’impresa connotata dall’inserimento nella governance aziendale di obiettivi sociali o ambientali al pari dell’attività di business». Espresso nel linguaggio che è più familiare ai giuslavoristi, quello che viene proposto è un nuovo bilanciamento, che porti il diritto del lavoro a (ri)trovare il suo stretto collegamento con l’art. 1 Cost., dove il lavoro è il «fondamento della Repubblica», ricostruendo il nesso originario tra lavoro e Repubblica, e quindi tra lavoro e democrazia (non solo politica ma anche industriale) .
Fin qui, nella sostanza, sono d’accordo, anche se resta da chiarire chi sia (o chi siano) i destinatari di questo “progetto normativo”: il legislatore, il giudice, persino la dottrina?
Ma il mio accordo si ferma qui. Perché, leggendo la seconda Tesi («Diritto del lavoro e valori») e arrivando al suo nocciolo, trovo al centro del progetto (che consente – ad avviso degli autori – di uscire dalle “secche del pensiero debole”), la libertà (sociale) delle persone basata sul riconoscimento intersoggettivo e reciproco (è, al fine, l’idea della solidarietà sociale cooperativa). Il nesso originario tra lavoro e democrazia è declinato nei termini del nesso tra lavoro e libertà sociale: «Noi riteniamo – scrivono AP e VS – che il principale valore del diritto del lavoro sia la libertà […]. Bisogna però intendersi sul significato del termine libertà: certamente non si tratta della libertà negativa di matrice liberale, ma della libertà sociale che unisce – con un fil rouge – l’imperativo kantiano del rispetto, il principio hegeliano del riconoscimento intersoggettivo e l’idea neo-repubblicana di “non dominio”» (p. 49) .
“What else?” verrebbe da domandarsi a fronte di riferimenti culturali di tale portata (Kant, Hegel, poi Honneth e Pettit). Ma dato che non si tratta di una miscela di caffè, mi domando piuttosto “anything else?”. E rispondo: in buona misura sì, perché l’intento degli autori di rifondare il diritto del lavoro su di un nuovo compromesso civico/industriale è basato sul pregiudizio (la teoria del riconoscimento), frutto di un’idea (la solidarietà cooperativa) sulla quale – per formazione culturale – ho a mia volta dei pregiudizi. E infatti io continuo a pensare che il valore centrale del diritto del lavoro (nel suo collegamento con il lavoro fondamento della Repubblica) sia l’eguaglianza; e poiché parliamo di diritto, metto al centro l’eguaglianza giuridica, meta-diritto che fissa i criteri per la distribuzione eguale, ragionevole, e razionale dei diritti civili e politici (di libertà) e dei diritti sociali . Ma di questo parlerò oltre, in una brevissima riflessione conclusiva.

2.2. Le Tesi III e V
Non vado oltre; mi soffermo invece su altre due tesi nelle quali l’affermazione di cui ho riportato sopra la citazione è calata nella dimensione della critica al diritto vigente.
Nella III Tesi («Il campo di applicazione del diritto del lavoro tra universalismo e selettività») sono ricapitolate in breve le proposte di superamento della dicotomia autonomia/subordinazione (più ampiamente sviluppate da AP altrove) . A mia volta le ricapitolo con qualche citazione.
La prospettiva di un diritto del lavoro « “oltre” la subordinazione induce a considerare un nuovo modo di intendere la funzione della materia, riarticolandone i presupposti e le finalità» ; «la strategia di un dosaggio di universalismo e selettività è in grado di rispondere più efficacemente al bisogno di rivedere i meccanismi di funzionamento del diritto del lavoro nelle sue componenti di razionalità strumentale ed assiologica, garantendo al contempo un’evoluzione del lavoro verso dimensioni più prossime a quelle realmente autonome della libertà dal dominio» (p. 61) . L’estensione modulare delle tutele a figure di lavoro autonomo economicamente dipendenti e bisognose di protezione «trova sicuro fondamento normativo e assiologico nella nostra Costituzione […]. Il “principio lavorista” posto a fondamento della Repubblica riguarda anche il lavoro autonomo con tali caratteristiche, in una logica di tutela sia degli aspetti personalistici, sia dei profili collettivi di rappresentanza degli interessi» (p. 63).
Questo sforzo di superare le «barriere logiche o valoriali per decidere chi ha diritto ai diritti» (p. 63) mi pare apprezzabile (e non solo per la felice espressione che ho lasciato nel corsivo voluto dagli autori: un implicito omaggio a Rodotà), così come apprezzabile mi pare la proposta di riformare e potenziare la legge n. 81/2017, nella prospettiva di estendere le tutele legali e contrattuali collettive ai lavoratori autonomi, nella direzione di una espansione (selettiva) della protezione contrattuale e sociale.
Sulla prospettiva di maggior respiro che emerge in questa Tesi mantengo invece le riserve che ho espresso altrove . Mi preme tuttavia precisare che anche a voler restare con i piedi per terra (la terra del diritto positivo) non si può non constatare che non solo si sono spostati i confini che ancora separano il lavoro subordinato dal lavoro autonomo, ma sono cambiati i criteri che possiamo utilizzare per distinguere. A mio giudizio c’è spazio per riprendere in mano la teoria della doppia alienità anche al fine di allargare l’area della protezione giuslavoristica , continuando tuttavia a distinguere, senza avventurarsi sulla strada della modulazione delle tutele nella quale avverto rischi di affievolimento delle tutele per alcuni piuttosto che prospettive di crescita della protezione per tutti.
Qualche breve riflessione sulla V Tesi («La dimensione della libertà nel rapporto individuale») mi aiuta a spiegare meglio le ragioni della diffidenza con cui mi sono accostata alla III Tesi. Anche nel caso della V Tesi ci troviamo di fronte a riflessioni già note ai lettori delle opere perulliane e dunque non starò qui a riassumerle.
La libertà come “non dominio” teorizzata da Philip Pettit, che parrebbe una libertà negativa ma è invece definita senz’altro da AP e VS come libertà positiva, fa da filo conduttore della IV Tesi dedicata alla riflessione sui poteri del datore di lavoro calata, se così posso dire, nell’analisi degli artt. 4 St. lav. e 2103 c.c. sulla quale in sostanza concordo.
Il concetto di libertà “non dominio” torna, nella V Tesi, a fare da supporto alla teorizzazione della “soggettivazione regolativa”: l’espressione (che immagino possa far sussultare chi si occupa di analisi del linguaggio giuridico) denota, secondo gli autori, una tecnica che si aggiunge, senza sostituirle, alle norme inderogabili di legge o di contrato collettivo «e ai rapporti di integrazione e deroga tra loro esistenti», «realizza cambiamenti liberatori, una maggiore autodeterminazione dei soggetti e nuove capacità individuali», «contribuisce a realizzare un progetto normativo di riconoscimento intersoggettivo, che affranca il lavoratore dall’assoggettamento gerarchico per sviluppare nuove e più ampie sfere di libertà personale, che rendano il lavoratore un attore della trasformazione sociale e della propria auto-realizzazione». Ridotta ai minimi termini, la “soggettivazione regolativa” è l’accordo individuale tra prestatore e datore di lavoro che regola una parte significativa delle condizioni di lavoro. Germi della metamorfosi in senso bilaterale della subordinazione (la subordinazione negoziata) sono già presenti – secondo gli autori – nella disciplina (a regime) del lavoro agile.
L’idea di AP e VS è quella di sviluppare la «ragionevole utopia» di realizzare un vincolo di subordinazione non ostativo alla realizzazione di valori personalistici: professionalità, capabilities , wellbeing nei luoghi di lavoro; una “subordinazione democratica” (ossimoro?) in cui il lavoratore sia effettivamente libero di scegliere i contenuti di quanto viene negoziato. Ciò che richiede, gli autori ne sono consapevoli, una profonda trasformazione dei rapporti di lavoro subordinato a partire dal superamento della gerarchia nell’impresa, passando attraverso la riorganizzazione spazio-temporale della prestazione di lavoro, per arrivare alla valorizzazione della professionalità e delle competenze soggettive.
Gli autori pensano che sia compito della contrattazione collettiva creare la cornice normativa della soggettivazione regolativa. La valorizzazione delle diversità soggettive attraverso discipline singolari rappresenta – secondo AP e VS – una sfida vitale per le organizzazioni sindacali che si confrontano con la necessità «di un pluralismo regolativo capace di rispondere alle diverse istanze dei rappresentati» (p. 89).
Personalmente ho molti dubbi in proposito: l’apertura, da parte del legislatore e della stessa contrattazione collettiva, di uno spazio non piccolo alla negoziazione individuale delle condizioni di lavoro incoraggia, a mio giudizio, la fuga dalla protezione sindacale, che ha una persistente ragion d’essere nella necessità di negoziare collettivamente con i datori di lavoro le condizioni collettive (non individuali) di lavoro. La “soggettivazione regolativa” mi pare possa portare all’estremo l’articolazione contrattuale, fino a farla atterrare nella negoziazione individuale.
Peraltro, sempre a mio giudizio, la negoziazione individuale crea l’illusione del superamento della soggezione gerarchica: illusione, perché nello scambio contrattuale che è alla base del rapporto di lavoro le posizioni delle parti sono asimmetriche, e così restano nel rapporto. Certo, è immaginabile che sia possibile (e da perseguire) il rafforzamento dell’autonomia nella subordinazione; ma non si può perdere di vista l’essenza dello scambio contrattuale tra chi mette a disposizione la sua personale attività, e chi paga in denaro la possibilità di disporre di questa attività. Correggere l’asimmetria e ridurne l’impatto sulla persona del lavoratore è la funzione del diritto lavoro che ha come epicentro l’eguaglianza nei diritti e nei fatti (vale a dire l’art. 3, commi 1 e 2, Cost.).
Insomma, la soggettivazione regolativa può avere un senso per lavoratori capaci di auto-proteggersi: quei lavoratori “intelligenti” su cui ci ha piacevolmente intrattenuto Pietro Ichino. Io però di lavoratori intelligenti in senso ichiniano ne vedo ben pochi: penso agli operai che in questi giorni stanno mettendo la mia città di fronte alla realtà della lotta sindacale dura, avanguardia delle tensioni sociali che ci aspettano; penso alle donne che fanno le pulizie con contratti di lavoro part-time (involontario) (quando va bene); penso al lavoro nella Gig economy, per come ancora è nella grande maggioranza dei casi. Penso a questo e a molto altro, e mi domando in quale credibile misura l’utopia della “soggettivazione regolativa” e dello sviluppo delle capabilities possa riguardare tutti loro: il proletariato che si va allargando, ridefinendo i confini di classe.

2.3. Le Tesi su cui non mi soffermo (VI, VII, VIII, IX)
Come avevo preannunciato non mi soffermo sulle Tesi sulle quali non mi sembra di avere niente di rilevante da dire (dato e non concesso che sia rilevante quanto ho detto sin qui). Mi limito a segnalare qualche punto.
Nella Tesi VI , premesso che condivido quanto AP e VS scrivono in ordine alla necessità di una legge sulla rappresentanza sindacale, mi lascia invece perplessa la parte dedicata alla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese. Sono d’accordo sulla urgenza di metter mano a questo capitolo rimasto non scritto nel nostro diritto del lavoro. Non mi convincono invece, per le ragioni che ho cercato di spiegare nella premessa a queste note, le argomentazioni che portano AP e VS a definire il diritto alla codeterminazione come diritto della persona, ma anche e soprattutto come «diritto di libertà sociale, fondato sul riconoscimento» (p. 98).
La Tesi VII propone una serie di considerazioni e di riflessioni sulla flexicurity (ma prima sul basic income di cui ho avuto anche io occasione di occuparmi) , in cui mi ritrovo finalmente a mio agio e che condivido.
Decisamente interessante, e a mio parere condivisibile, anche la prospettiva adottata nella Tesi VIII per rapportarsi al problema dello sviluppo sostenibile, riequilibrando le logiche del diritto del lavoro, sia dal punto di vista assiologico (principio costituzionale di tutela del lavoro), sia dal punto di vista che gli autori definiscono “metodologico” (ma che metodologico non è, perché attiene ai contenuti e non al metodo) del contemperamento tra «sfere sociali e valori in conflitto».
Sulla Tesi IX («Diritto del lavoro e globalizzazione») non ho altro da dire, se non che fornisce una ricostruzione appagante della dimensione internazionale dei problemi indotti dalla globalizzazione, soprattutto sul piano della tutela dei diritti fondamentali.
La Tesi X , partendo dalla “lezione” del Covid-19, che ha rimesso al centro il lavoro, come bene comune da valorizzare, contiene il “Manifesto” politico (di politica del diritto del lavoro e non solo) dei nostri autori. Un Manifesto ricco di belle idee. Ne ricordo qualcuna: la riforma in senso universalistico/selettivo (come proposto a suo tempo da Marco Barbieri) degli ammortizzatori sociali; la revisione della disciplina del lavoro agile per farne davvero un new way of working; una nuova logica giuridica della localizzazione, ispirata all’idea del reshoring, basata su catene corte del valore; una maggiore giustizia sociale sul territorio, orientando l’azione economica verso la soddisfazione di valori radicati in un contesto “glocale”. E poi ancora: dare risposta all’innovazione tecnologica imponendo la formazione «come elemento causale del contratto di lavoro, con una valenza giuridica pari a quella dell’obbligo di sicurezza», e affrontare il cambiamento climatico ponendosi «l’obiettivo di rendere il lavoro umano compatibile con le istanze sovrane della Terra».
Vale la pena di riportare la frase che conclude la Tesi X e con essa il libro: «il diritto del lavoro deve diventare parte, assieme al diritto dell’ambiente, di un nuovo “interfaccia” tra società e Natura, capace di monitorare i cambiamenti ecosistemici retroagendo sui comportamenti umani, allo scopo di promuovere un processo permanente di aggiustamento ai tempi biologici, necessario alla salvaguardia della vita dell’homo faber sulla Terra» (p. 150).
Wow! Ma mi guardo intorno, penso a quello che sta succedendo, e mi domando quanto siderale sia la distanza che ci separa dalla giustizia eco-sociale ipotizzata da AP e VS.

3. Conclusioni. Il silenzio sull’eguaglianza (ovvero l’undicesima Tesi mancante)
Sono arrivata in fondo al mio commento al libro di AP e VS, passando in rassegna, a volte entrando nel merito, e a volte tenendomi in superficie, le dieci tesi sul diritto del lavoro.
E l’eguaglianza che fine ha fatto?, mi domando.
Evocata più volte, certamente implicita nei concetti di libertà positiva (libertà sociale e libertà non dominio), e necessariamente nell’idea del riconoscimento intersoggettivo e della «paritaria e reciproca soddisfazione dei bisogni di soggetti cooperanti», l’eguaglianza (valore giuridicamente consacrato nell’art. 3 Cost.) rimane nel libro priva di una riflessione dedicata.
Non dico con questo che AP e VS avrebbero dovuto affrontare, ancora una volta, la questione del conflitto tra libertà individuale (negativa) ed eguaglianza, ormai da tempo accantonato; dico che sarebbe stata utile ai lettori, ma anche agli autori, una riflessione sul rapporto tra l’eguaglianza e quella libertà sociale che pongono come portato del fondamento filosofico del diritto del lavoro, individuato nella teoria del riconoscimento (nella rielaborazione di Honneth).
AP e VS dicono, in premessa, di voler rileggere gli “snodi fondamentali” del diritto del lavoro. Scendendo dall’empireo della speculazione filosofica, e atterrando sul piano del ragionamento giuridico, una Tesi XI sul diritto antidiscriminatorio avrebbe affrontato appunto uno snodo fondamentale del diritto del lavoro. Il lavoratore, in questo libro, è un soggetto neutro, una persona astratta e priva di identità, non una persona in carne ed ossa. Se gli autori avessero usato la lente del diritto antidiscriminatorio avrebbero potuto restituire alle persone che lavorano la loro dimensione individuale, collocandola però nel contesto delle loro relazioni collettive. Si sarebbero così aperte prospettive importanti per chi ha la capacità di immaginare non la riforma, ma la rifondazione del diritto del lavoro.

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