TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. La morte prematura e inaspettata di un amico non lascia solo il senso di un improvviso vuoto incolmabile, la percezione dolorosa del venir meno di un colloquio in corso e di un rapporto non più rinnovabile, ma il rimpianto per una relazione che avrebbe potuto offrire ancora molto e che la sorte ha impedito sviluppasse tutte le sue potenzialità. Ho conosciuto Riccardo agli inizi del nuovo millennio, avvicinati dalla comune passione di voler capire le trasformazioni cui il mondo del lavoro era sottoposto dalla crisi della società industriale e delle forme del lavoro che l’avevano caratterizzata. Riccardo aveva una naturale predisposizione al ragionamento filosofico insieme all’amarezza di non aver potuto sviluppare come avrebbe voluto questo lato delle sue capacità. Il fatto che la mia formazione fosse filosofica e che mi interessassi delle questioni del lavoro, costituì la base del suo interesse per la mia attività, come per me lo furono le sue competenze di diritto, che mi aprivano ad una discussione sul lavoro nell’ottica concreta e attuale dei positivi rapporti giuridici.
Mi ricordo ancora con precisione uno dei primi colloqui che ebbi con Riccardo, mi sembra nel 2002, in cui mi confidò la sua principale preoccupazione rispetto alla dottrina: la necessità di un profondo rinnovamento dei suoi valori di riferimento e dei paradigmi teorici che la ispiravano insieme alla difficoltà che egli rinveniva, in genere, ad aprire questo tipo di discussione, sia per la sua oggettiva complessità, sia, soprattutto, per una insufficiente disposizione, allora, della cultura giuslavoristica a mettersi in discussione. Credo che la ricerca che Riccardo ha portato avanti su questo piano abbia raggiunto risultati significativi, di un aspetto dei quali vorrei cercare di fornire un breve resoconto incrociandoli col percorso che abbiamo fatto insieme. Il quale, benché svoltosi su piani di ricerca diversi, ha avuto punti in comune importanti ed anche una figura su cui ci siamo entrambi confrontati, Bruno Trentin. Cercherò quindi di ricordare Riccardo a partire da ciò che per alcuni anni ci ha entrambi coinvolti e che mi permetterà di approfondire il significato che ha avuto per lui, e anche per me, l’incontro con la riflessione dell’esponente sindacale della CGIL.
Nelle ultime pubblicazioni di Riccardo, che la malattia non gli ha impedito di comporre, come Minimal remarks on the concept of work (2021), oppure l’ Introduzione a Valori e tecniche del diritto del lavoro (2022) - che volle pubblicare nella collana sui problemi del lavoro che dirigo presso la Firenze University Press -, o il saggio di apertura dello stesso volume, I valori del diritto del lavoro, rinveniamo una formulazione matura della problematica che mi aveva presentato venti anni prima. Sinteticamente, di quali idee si tratta? Il punto centrale è il rilievo che le trasformazioni del lavoro avvenute negli ultimi decenni del Novecento hanno introdotto nella fisionomia del lavoro dipendente elementi inediti di attività e di autonomia del soggetto che lavora che obbligano a ridescrivere il valore fondamentale del diritto quale strumento di difesa della parte più debole nel rapporto di lavoro. Si tratta per Del Punta della presa d’atto di un mutamento che richiede al diritto di riconsiderare uno dei principi cui è ispirata la sua azione, senza sottovalutare la necessità di continuare a difendere la parte che nel lavoro subordinato continua ad essere quella più debole. In altre parole occorre, da una parte, di ricalibrare i valori del diritto del lavoro sulla base di una dialettica libertà/eterodirezione, autonomia/subordinazione che apra alla riproposizione della persona nel lavoro, in maniera da rendere più complesso e aperto alle differenze individuali il lato ispiratore del diritto senza fargli perdere la dimensione universale; e, dall’altra, di elaborare e rivedere le tecniche di intervento nella situazione di transizione in cui il lavoro e il diritto si trovano, senza rinunciare all’idea di un diritto positivo che sappia essere sensibile verso determinati, anziché altri, esiti futuri della vicenda dell’attività lavorativa e del mercato del lavoro. Si tratta di una problematica, che Del Punta condivide con altri studiosi italiani e stranieri del diritto del lavoro (rapporti su cui mi astengo totalmente di intervenire), che per essere approfondita richiede una impostazione complessiva oltreché alcune scelte di campo, sia teoriche, sia pratiche, che riduca la complessità della ricerca e renda possibile una proposta evidente e non solo una descrizione dei problemi. Ed è relativamente alla ricerca di questa impostazione che emerge l’attenzione di Riccardo verso Trentin, come avverrà, contemporaneamente e, come vedremo, con punti di contatto interessanti, verso Amartya Sen. Ebbene è su questo segmento della ricerca che, rispetto a Trentin, Riccardo ed io abbiano vissuto parallelamente, che intendo soffermarmi.

 

2. Si tratta di un processo pubblico, ben inteso, di cui la prima tappa è stata la partecipazione di Riccardo ad un convegno che promossi nel 2003 (come direttore dalla rivista «Iride») insieme ad altre organizzazioni, sul tema «Libertà, sviluppo, lavoro». Al convegno, cui tra gli altri parteciparono, Remo Bodei, Bruno Trentin, Luciano Gallino, Paolo Sylos Labini, Massimo Livi Bacci, Carlo Trigilia, Marco Revelli, Salvatore Veca, Riccardo tenne una relazione su «Diritti e libertà del lavoro: quali tutele per il lavoro che cambia» . Si tratta di un saggio impegnativo, anche come lunghezza, su cui mi soffermo analiticamente perché contiene i principali filoni della ricerca che Del Punta svilupperà negli anni successivi. In esso l’autore, con una impostazione storica e teorica pone essenzialmente i seguenti problemi e avanza una proposta di ricerca per la loro soluzione: a) Il diritto del lavoro si afferma nel Novecento, nell’epoca della società industriale e del fordismo, cioè del lavoro e della produzione di massa, e si caratterizza per la creazione di un «regime di protezione – propriamente “tutoria” – dall’esterno» per il lavoro subordinato, in cui si concentra una doppia debolezza: «una debolezza economico-sociale» ( il lavoratore ha di norma bisogno di lavorare […] più di quanto l’imprenditore abbia bisogno di assumere lui») e una «debolezza di condizione giuridica» (per un «contratto che conferisce a una parte un “potere di direzione” sull’attività lavorativa – ergo sulla persona – dell’altra»).
b) A partire dagli anni ottanta inizia, saldandosi ai modelli neoliberisti, la «critica economica del diritto del lavoro», che apre «l’epoca della “flessibilità”»: «una sorta di vendetta del mercato nei confronti di una disciplina che era nata contro il mercato», la quale ora veniva, paradossalmente, accusata di essere causa di disoccupazione. Riconosciuta l’esigenza di un incremento del «tasso di flessibilità del sistema», Del Punta nota come in questa fase la «normativa lavoristica ha cominciato lentamente a veder mutare il proprio DNA: da normativa di mera e “unilaterale” tutela dei diritti dei lavoratori dipendenti a normativa di governo dei rapporti economico-sociali», facendo assumere alle norme lavoristiche «funzioni collaterali di “accompagnamento” alla missione produttiva dell’impresa». A prova di questo giudizio l’autore ricorda la promulgazione dalle leggi n. 196 del 1997, n. 61 del 2000 e n. 276 del 2003. Ma si tratta di una flessibilità introdotta senza realizzare una riforma organica, priva di «adeguati contrappesi sociali» e al prezzo di una «certa marginalizzazione del tradizionale ruolo del sindacato». In questa maniera si determina una nuova contraddizione tra efficienza economica e diritti, ovvero del «mercato vs. persona». Tuttavia Del Punta afferma che la necessità, a condizioni di piena «reciprocità», di un «dialogo fecondo fra diritto del lavoro ed economia del lavoro sia oramai ineludibile». Altrettanto lo è il riconoscimento della tensione tra crescenti forme di individualizzazione del lavoro e tutele, dialettica risolvibile sul piano di una maggiore autonomia del lavoratore a negoziare le proprie condizioni di lavoro.
c) Assai interessante è l’impostazione teorica che l’autore propone per la necessaria ridefinizione delle tutele, ormai non più pensabili secondo la tradizione giuslavoristica novecentesca. Dopo un approfondimento, culturalmente assai stimolante, delle nuove condizioni economiche, della crisi dell’idea di lavoro (a partire dagli anni ottanta «il lavoro ha continuato a “definire” l’identità sociale, soprattutto in quanto fonte di reddito, ergo di consumo, ma ha contribuito sempre meno a “fondarla”»), della messa in discussione dello stesso concetto di modernità -, Del Punta, ai fini della ridefinizione delle tutele, assume il concetto di “fine del fordismo”, perché «la lente del postfordismo» consente di scorgere «come la spinta verso la flessibilità non sia priva […] di una contropartita sistemica, rappresentata da una tendenza evolutiva dei modelli organizzativi d’impresa nella direzione di una maggiore valorizzazione del ruolo del lavoratore come soggetto (attivo, consapevole, “formato”) dell’organizzazione», ciò che rivela il «nesso sistemico tra postfordismo e individualismo». A partire da questa ottica, che Ricardo approfondisce anche discutendo un mio articolo pubblicato nel 2002 che lo aveva interessato , perviene a definire i termini essenziali della ridefinizione ricercata attraverso una distinzione tra tutele nel mercato del lavoro e tutele nel rapporto di lavoro che sottolinea lo slittamento dei termini della questione dal posto di lavoro alla persona che lavora: «Sembra per la prima volta proporsi, da molte parti, una riconversione generale delle tutele, che dovrebbero focalizzarsi sulla tutela del lavoratore sul mercato del lavoro, piuttosto (ma sul “piuttosto”, come vedremo c’è controversia) che dentro il rapporto di lavoro (subordinato)». La distinzione, infatti, per Del Punta non va intesa nel senso di uno «scambio» tra più tutele nel mercato e meno tutele nel rapporto di lavoro, ma piuttosto di un ridisegno del «quadro complessivo delle tutele». Una ridefinizione a cui l’autore dedica alcune importanti pagine del saggio nelle quali, a mio giudizio, la parte più interessante è quella dedicata alle tutele nel rapporto di lavoro. Queste vengono pensate a partire dalla tutela del lavoro in generale e non solo subordinato: «L’implicazione della persona nel lavoro – in qualsiasi lavoro – comporta l’attribuzione a tutti i lavoratori di un nucleo inalienabile di diritti fondamentali, che discende direttamente dal loro status di cittadini». Rispetto a questi diritti, per l’elenco dei quali Del Punta cita la Carta di Nizza (2000), il lavoro «rappresenta soltanto una condizione di particolare esposizione al rischio”, di cui il lavoro subordinato costituisce la forma di maggiore esposizione. Altri criteri con cui articolare a partire da una idea di lavoro in generale, le due tradizionali fattispecie di lavoro (autonomo e subordinato), che comunque Del Punta intende mantenere, è la «dipendenza economica», che per l’autonomo è quella dal committente, rispetto al quale occorre la «certezza» del pagamento; mentre per il subordinato occorrono «dispositivi di sostegno e assistenza all’autonomia negoziale e disposizioni relativamente al licenziamento che, «al di là dell’inattaccabilità (in quanto diritto “fondamentale”) del principio della necessaria giustificazione», solleva il «dilemma se mantenere la vigente tutela ripristinatoria ovvero procedere verso una tutela di natura esclusivamente economica». Infine la questione delle «relazioni collettive», giacché la contrattazione collettiva risulta ancora una «risorsa cruciale», specie nella forma dei due livelli (nazionale e aziendale), come è necessario un rinnovamento dell’azione sindacale sia nel senso di un suo «rafforzamento istituzionale» (rappresentanza), sia «attraverso la ricerca di forme di rappresentanza nuove e più adeguate a una realtà del lavoro sempre più diversificata».
Nelle conclusioni del saggio Del Punta definisce l’orizzonte teorico della propria ricerca caratterizzandolo per una riproposizione, anche sulla scia di Amartia Sen, del valore della Quindi definizione dei diritti sulla base di un’idea in generale di lavoro, individualizzazione delle attività e rapporto tra lavoro e libertà costituiscono, nell’epoca del postfordismo e della flessibilità, il frame teorico da cui partire per una ridefinizione delle tutele di un «lavoratore-uomo, in carne e ossa» - che vada oltre quello subordinato, inteso come una «figura quasi metaindividuale» -, e che «deve essere assistito nella sua legittima aspirazione a farsi - direi secondo l’insegnamento di J.S. Mill - “soggetto” della propria vita» e aspirante a attuare una «capacità di scelta» nella «sfera delle sue decisioni economiche». Quindi una libertà sostanziale che non si contrappone a quella formale, ma anzi che la presuppone e la specifica come diritto alle pari opportunità.
Il ragionamento termina con un richiamo critico alla cultura “lavoristica” novecentesca incardinata sulla centralità e dignità del lavoro e corrispondente all’ «articolo 1 della nostra Costituzione». Infatti secondo Del Punta «la focalizzazione sulla libertà del lavoro ha altresì come corollario una sorta di svuotamento simbolico del lavoro», laddove i contenuti simbolici svuotati sarebbero appunto quelli “lavoristici” elaborati dal movimento operaio otto-novecentesco e ruotanti attorno alle idee di una progressività sociale e quindi individuale-collettiva del lavoro il quale, secondo l’autore, «se riguardato dalla prospettiva della libertà e delle vite individuali» risulterà che «esso è, prima di ogni altra cosa, la fonte di produzione di un reddito, e, quindi, sostanzialmente, un’attività economica qualitativamente affine a ogni altra attività economica». Per cui è il reddito a dover essere « primariamente tutelato», e se la «tutela si focalizza sulla persona ne sarà oggetto il lavoro come mezzo e non il lavoro come fine». Quanto alla «realizzazione di sé attraverso il lavoro» si tratta di una dimensione privata, cioè «personale e esistenziale», rispetto alla quale la «società» e l’ «ordinamento giuridico debbono rimanere , in linea di principio, estranei»; rimanendo tuttavia a carico dell’ «azione politico-legislativa» che le «condizioni» in cui il lavoro viene prestato «siano (non soltanto compatibili col rispetto della persona, ma anche) le più favorevoli possibili a tale attribuzione di senso», fermo restando che una «valorizzazione del lavoro non può assumersi come “superiore” a qualsiasi altra attribuzione di senso, piaccia o no al pur glorioso articolo 1 della nostra Costituzione».

3. Tra il 2009 e il 2022 Del Punta si confronta più di una volta con le tesi di Bruno Trentin. Nel 2009 in occasione di un convegno che promossi, insieme alla CGIL toscana ed altre organizzazioni, sulla figura di Trentin dal titolo Lavoro e libertà , a cui, tra gli altri, parteciparono E. Collotti, A. Pepe, F. Totaro, E. Rullani, M. Carrieri, G. Ruffolo, G. Epifani, A. Gramolati, S. Pezzotta e in cui Riccardo tenne una relazione dal titolo Crisi del fordismo e liberazione del lavoro in Bruno Trentin. Nel 2016 con un testo intitolato I confronti impossibili: note su Bruno Trentin, il jobs Act e la sinistra, compreso nel volume Il lavoro dopo il Novecento. Da produttori ad attori sociali. “La città del lavoro di Bruno Trentin per un’ “altra sinistra” . Infine nel 2022 con una recensione per LDE della nuova edizione di B. Trentin, La libertà viene prima pubblicata da FUP nel 2021 . E’ molto interessante vedere come reagisce il quadro tracciato nel 2003 all’ incontro ravvicinato con Trentin. Un confronto che metterei sullo stesso piano di quello, parallelo, che Riccardo stabilisce negli stessi anni con Amartya Sen, che qui non tratteremo.
I punti essenziali su cui Del Punta sviluppa la propria interpretazione di Trentin - dalla cui riflessione egli riconosce che si «sprigiona il magnetismo di un pensatore di razza» - sono la crisi del fordismo, la questione della democrazia industriale, la necessità della flessibilità e il rifiuto della precarietà, il rapporto tra libertà , lavoro e persona, la concezione dei diritti, della sinistra e del sindacato. In sostanza Del Punta individua in Trentin una figura impegnata in maniera originale, e con una coerenza pronta a pagare il prezzo dell’isolamento, per il rinnovamento teorico e politico della sinistra (politica e sindacale) all’indomani della crisi dei termini in cui il lavoro si era affermato nel Novecento, cioè dopo la crisi del fordismo. E quindi un alleato nella ricerca di un rinnovamento della cultura del lavoro che egli portava avanti sul piano del diritto e che Trentin sosteneva sul quello politico e sindacale. Come Riccardo riconosce più di una volta la formazione sua e quella di Trentin sono assi diverse, liberale la sua e marxista quella di Trentin, ciò che suggerisce a Del Punta una certa prudenza nell’accogliere determinati risultati della proposta di Trentin; ma anche il riconoscimento che il terreno su cui entrambi si muovono è sostanzialmente lo stesso e l’individuazione dei problemi analoga, anche se con accenti diversi nelle proposte per la loro soluzione.
Nel testo del 2009, Crisi del fordismo e liberazione del lavoro in Bruno Trentin, Riccardo inizia da uno dei temi centrali del suo bilancio da giuslavorista del 2003, la «frammentazione del mercato del lavoro», notando come questo problema «sia stato trasformato e profondamente rivitalizzato» dalla riflessione di Trentin. Che cosa intende con questo giudizio? Sinteticamente, che tale frammentazione è parte integrante della crisi del fordismo, cioè di una costruzione economica e sociale fondata sulla forma più alienante di lavoro; e che la questione centrale è di vedere, con lo sguardo di un’ «altra sinistra» (Trentin), se in tale crisi vi sono le possibilità di un rilancio della sinistra e non solo il crollo di un mondo in cui pure il lavoro aveva realizzato irrinunciabili conquiste di civiltà (Welfare, diritti, tutele, ecc.). Un rilancio, rileva Del Punta, citando passi essenziali di La città del lavoro, possibile solo non rimanendo chiusi negli obiettivi della «sinistra istituzionale», centrati sulla rincorsa salariale o sulla credenza di un oggettivo valore progressivo dello sviluppo delle forze produttive, se non sulla razionalità del fordismo; ma invece impegnandosi a rilanciare la lotta per la «codeterminazione» (Trentin) delle condizioni di lavoro e della democrazia industriale, dopo che la negazione della persona nel lavoro fordista ha lasciato lo spazio ad una nuova centralità della persona che lavora. Quindi, questa l’idea di Trentin che Del Punta abbraccia, la crisi del fordismo come occasione e sfida per una nuova sinistra e per nuove pratiche di democrazia industriale che aprano ad una nuova conflittualità (partecipata) tra capitale e lavoro, e non, invece, come occasione di una chiusura meramente difensiva dei traguardi ottenuti nella società industriale. Anche per quanto riguarda, più precisamente, il mercato del lavoro (frammentazione e precarietà) - nel quale come ricordiamo devono concentrarsi per Del Punta le nuove tutele della persona che lavora - la riflessione di Trentin va nella stessa direzione, perché prende atto, scrive Riccardo, della necessitò economica di una «certa dose di flessibiità», quale «portato inevitabile, e ormai in qualche misura fisiologico, dei tempi della rivoluzione tecnologica e della globalizzazione». Anche se flessibilità non significa, ovviamente, precarietà. Si avvertono invece, anche se non del tutto esplicitate, differenze tra i due sul concetto di lavoro. Ricordiamo che Del Punta nel testo del 2003, sulla base di una netta distinzione tra la finalità del reddito e la finalità esistenziale di autorealizzazione, rifiuta ogni “lavorismo”, anche quello presente nell’Art 1 della nostra Costituzione. Ebbene nel testo del 2009 sembra ritenere che una nuova forma di “lavorismo” (in sostanza una valorizzazione impropria del lavoro) possa rinvenirsi in Trentin, sia nella sottolineatura del nesso tra lavoro e conoscenza, sia nella tesi, su tale sottolineatura soprattutto fondata, della libertà nel lavoro. Infatti in Trentin, scrive Del Punta, l’analisi dei profondi cambiamenti intervenuti nell’ambiente produttivo sono individuati a «cominciare dalla risorsa ormai fondamentale (e circa la quale le citazioni di Reich si sprecano) della conoscenza, oggetto di grande enfasi, come è risaputo, da parte di Trentin in connessione con la sua mitizzazione del lavoro come leva della libertà delle persone», una libertà, aggiunge Del Punta, di cui è «lecito, beninteso, domandarsi che cosa sia» visto che si tratta di «una libertà senza liberalismo». Ma negli anni successivi, come vedremo, questo tipo di riserve non vengono più sollevate.

4. Ma il testo forse più interessante, ed anche il più complesso, del dialogo tra Del Punta e Trentin è I confronti impossibili: note su Bruno Trentin, il jobs Act e la sinistra (2016) in cui il giuslavorista cerca di rinvenire nella riflessione del sindacalista elementi in grado di aprire ad una valutazione problematica, non semplicemente critica, della riforma del diritto e del mercato del lavoro operata dal governo Renzi. Si tratta di un testo controfattuale scritto per ricavare elementi di approfondimento attraverso un confronto tra Renzi e Trentin definito sin dal titolo “impossibile”. L’autore cerca di strappare alla contingenza e allo scontro politico immediati tematiche che riflettono svolte “epocali” e richiedono la messa in campo di categorie e giudizi di tipo strategico, in grado di sottrarsi sia alla mera difesa di conquiste trascorse, sia alla loro tabula rasa. In altre parole, Del Punta si chiede quale significato acquisti la riforma governativa alla luce delle riflessioni di Trentin sulla storia della sinistra e sulla fase di trasformazioni che l’economia, il lavoro e il diritto del lavoro stanno secondo lui attraversando. E’ nel quadro delle analisi di Trentin, e non in quello del dibattito in corso, che Riccardo colloca la riforma governativa e cerca di trarre indicazioni per l’analisi dei problemi da una collocazione del tutto “impossibile”, prima di tutto perché meramente teorica. L’operazione, infine, è utile a Del Punta anche per approfondire la valutazione delle idee di Trentin in particolare su due punti, quelli relativi all’impresa e alla libertà del lavoro.
Iniziamo col confronto impossibile. Sulle questioni in gioco la posizione di Trentin è molto chiara, e vale la pena di riportarla direttamente citando La libertà viene prima. Innanzitutto sul concetto di «impiegabilità»: «di fronte al venir meno della stabilità del posto di lavoro e alla fine, per molti lavoratori, del contratto a tempo indeterminato», si può riflettere – scrive Trentin – sulla «acquisizione da parte della persona del lavoratore di una impiegabilità […] sostanziata da un investimento dell’impresa, del lavoratore e della collettività in una formazione permanente e in una politica di riqualificazione, capace di garantire in luogo del posto fisso prima di tutto un’occasione di mobilità professionale all’interno dell’impresa» e offrire al lavoratore un «nuova sicurezza» con cui «affrontare» con «maggiore forza contrattuale, il mercato del lavoro» . Poi, sulla questione della flessibilità e della precarietà, legate alla ricerca di nuove tutele e diritti del lavoro subalterno rispetto alle nuove esigenze dell’economia e dell’impresa postfordiste: secondo Trentin se, da una parte, «l’introduzione delle nuove Tecnologie dell’informatica e delle comunicazioni con i mutamenti dei rapporti fra domanda e offerta […] impone senza alcun dubbio, come imperativo legato all’efficienza dell’impresa, un uso flessibile delle forze lavoro»; dall’altra «è bene però distinguere la flessibilità del lavoro come ideologia e la flessibilità del lavoro come realtà» , ovvero la precarizzazione come strumento di sottomissione e di ricatto, e non di governo, della flessibilità.
Laddove appare evidente che l’ «impiegabilità» di Trentin ha molti punti in comune con l’idea di Del Punta, che abbiamo trovato nel testo del 2003, di tutele nel mercato anziché nei rapporti di lavoro; come appare evidente che se Del Punta pensava a forme di flexicurity e invece Trentin optava per un nuovo contratto e un nuovo patto sociale, questi strumenti avevano numerosi punti in comune con i modelli di flexicurity avanzati in sede EU e sperimentati nelle democrazie del nord Europa.
Quindi «i confronti impossibili» di fatto aprono un piano di riflessioni assai utile tra le analisi di Trentin e un diritto del lavoro alla ricerca di nuovi valori e paradigmi al di là dei legittimi atti governative e degli scioperi proclamati in opposizione. Nei quali comunque è in gioco un valore per Trentin intoccabile: che non si licenzia senza giusta causa oggettiva. Un punto dirimente tra chi sta dalla parte del lavoro e chi intende perpetuarne la sottomissione .
Il testo del 2016 termina con due osservazioni critiche di Del Punta nei confronti di Trentin che a suo giudizio avrebbe mantenuto due aree di riflessione «vaghe» su impresa e libertà.

5. L’ultimo testo di Riccardo su Trentin è l’ampia recensione scritta all’inizio del 2022 per «Lavoro Diritti Europa», 1/22, sulla la nuova edizione FUP di La libertà viene prima. Mi sembra di poter dire che questo testo rappresenta la stesura di una sorta di alleanza tra la ricerca di Del Punta e le tesi fondamentali di Trentin: «Rileggere il saggio del 2004 di Bruno Trentin su La libertà viene prima. La libertà come posta in gioco nel conflitto sociale […] è tuttora di grande stimolo per il giuslavorista […] interessato a riflettere sulle trasformazioni dell’identità del diritto del lavoro in questo lungo periodo di transizione», e per il quale la «novità dell’approccio trentiniano […] risiede nel fatto che la concezione dei diritti è resa compatibile […] con una visione del lavoratore non considerato semplicemente come contraente debole da proteggere (anche se il bisogno di proteggerlo dagli abusi del dominio imprenditoriale c’è sempre), bensì come soggetto capace di iniziativa e di autonomia, ed eventualmente di creatività. Nel che il giuslavorista può rintracciare utili spunti per un rinnovamento del tradizionale paradigma del diritto del lavoro». E se teniamo contro del programma che Del Punta traccia nel 2003, proprio centrato sulla necessità per il diritto del lavoro di andare oltre, senza negarle, le mere tutele della parte più debole del contratto, è difficile sottovalutare il significato di questi riconoscimenti che egli manifesta nei confronti della riflessione di Trentin. Ed a questo proposito occorre anche aggiungere subito, perché non è affatto secondario, che in questa occasione Riccardo fa convergere la sua ricerca sull’approccio delle capabilities di Amartya Sen con la ricerca della libertà nel lavoro di Trentin, proprio a partire da una affermazione di questi contenuta in La libertà viene prima riportata per intero nella recensione: «Anche per stare meglio, credo direbbe Amartya Sen, la libertà e la conoscenza vengono per prime» .
La recensione contiene anche una illustrazione positiva dei principali temi del libro come l’interpretazione della crisi del fordismo quale occasione per un rinnovato progetto della sinistra; l’analisi dei diritti (formazione, informazione, pari retribuzione a parità di lavoro, pensionamento volontario) come base per una persona attiva e solidale nel lavoro; l’idea di un lavoro più libero, creativo e capace di una partecipazione nell’impresa. Fino ad arrivare ad una condivisione dell’idea di Trentin degli «elementi di socialismo» da promuovere sulla base della crescita della persona, e non di un «modello di società», come «ciò che rimane del socialismo» dopo la fine della “classe operaia”: «Questa evocazione pragmatica di “elementi di socialismo” – scrive Del Punta - chiude il cerchio del disegno di società trentiniano, del quale conoscenza, libertà e persona rappresentano la triade di valori portanti, ciascuno dei quali presupposto degli altri. L’affermazione politica di tali valori prefigura un percorso in fondo al quale Trentin scorgeva, da visionario realistico, la possibilità di una vera rivalutazione del lavoro umano, che riscattasse la falsa partenza del Novecento, e che offrisse a ciascuna persona un orizzonte di liberazione».

6. La convergenza, forte, che Del Punta stabilisce tra la propria ricerca per un rinnovamento del diritto del lavoro a partire da una nuova idea, attiva, della persona che lavora, la ricerca di Sen sulle capabilities e la ricerca di Trentn ha, mi sembra, un importante significato. In particolare per quanto riguarda il significato della riflessione di Trentin, perché apre ad un dialogo tra il diritto del lavoro nell’epoca del postfordismo e una riflessione ed esperienza che provengono dal sindacato e dalla sinistra, precisamente da un settore di queste organizzazioni non chiuso nella mera difesa dei risultati ottenuti durante il fordismo. In questo senso la ricerca di Del Punta, attraverso lo stile analitico e lo spirito realista che la caratterizza, si pone indubbiamente tra le posizioni più innovative e coraggiose del dibattito che contraddistingue il giuslavorismo italiano. Ma contemporaneamente rappresenta anche una sfida significativa per il rinnovamento della stessa cultura della sinistra politica e sindacale che non rimane che augurarsi possa essere raccolta.

 

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