TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Testo della sentenza Trib. di Lecco 31.10.2022

1. Il caso di specie.
Nel caso oggetto di esame un’azienda che produce carrelli elevatori procedeva alla soppressione di una posizione lavorativa di “tecnico esterno” all’esito di un processo di riorganizzazione.
Tale riorganizzazione era perseguita – stando alle motivazioni contenute nella lettera di licenziamento – attraverso l’abbandono della produzione di carrelli elevatori a motore diesel-benzina, che sino a quel momento avevano costituito il core business della società, e l’attuazione di una progressiva e completa transizione verso la produzione di carrelli elettrici.
E’ questa la ragione che conduce al licenziamento del tecnico, giunto, a detta della lettera di licenziamento, all’esito del “completo rinnovo degli impianti elettrici per la distribuzione della corrente ai vari componenti idraulici dei mezzi” e della “introduzione di complicati componenti elettronici di controllo”. Questo processo di transizione tecnologica rendeva inevitabile, secondo la prospettazione datoriale, il mantenimento in servizio del solo personale “con una estrazione scolastica derivante da studi relativi all’elettronica e all’informatica”.
Per l’effetto, si procedeva con la “soppressione dell’unica figura di tecnico esterno con competenze esclusivamente di tipo meccanico e con nessuna capacità … in campo elettrico ed elettronico”, ed il tecnico veniva licenziato per giustificato motivo oggettivo.

2. Le motivazioni della sentenza esaminata.
Il giudice della fase sommaria dichiarava l’illegittimità del licenziamento ed applicava la tutela reintegratoria. La decisione veniva confermata - anche sul piano della tutela applicata - con la sentenza, oggetto di analisi del presente contributo.
La pronuncia non si segnala tanto per l’analisi del primo degli elementi costitutivi del g.m.o. – ossia l’effettività della ragione economica – ritenuto insussistente per la genericità delle prove addotte dal datore a dimostrazione della transizione tecnologica e della riorganizzazione aziendale (questo aspetto naturalmente è ritenuto dal giudice del merito “di per sé sufficiente a determinare il rigetto del ricorso”).
La sentenza offre invece significativi spunti di riflessione nella parte finale, quando decide di “blindare” la decisione offrendo un’ulteriore motivazione idonea, ex se, a giustificare il rigetto del ricorso.
E così, dopo avere evidenziato l’assenza di prova in ordine al fatto che il dipendente possedesse soltanto competenze di tipo meccanico (e non elettronico) - circostanza che avrebbe potuto essere dimostrata attraverso la produzione delle schede di lavorazione compilate dal lavoratore - il giudice del merito approfondisce il tema del repêchage, ritenuto in via preliminare meritevole di un controllo “particolarmente rigoroso” vista la insussistenza di una situazione di crisi aziendale.
Il Tribunale precisa da subito che “la società non doveva limitarsi ad enunciare le mansioni dei vari dipendenti dell’organico aziendale, ma avrebbe dovuto spiegare per quale ragione gli altri lavoratori fossero da considerare più qualificati di lui” (ad esempio attraverso i titoli conseguiti o i percorsi di formazione).
Soprattutto – ed è questo l’aspetto che desta il maggiore interesse – afferma che “se è vero che in linea generale tra gli obblighi del datore di lavoro non rientra quello di curare la formazione professionale del dipendente per permettergli di eseguire correttamente la prestazione lavorativa, tuttavia nei casi in cui la professionalità del lavoratore sia considerata obsoleta, a seguito di una riorganizzazione dell’azienda, l’applicazione dei sopra richiamati principi di buona fede e correttezza implica che il datore di lavoro, prima di risolvere un rapporto, valuti non solo l’impossibilità del repêchage, ma anche l’impossibilità (o quantomeno l’antieconomicità) della riqualificazione professionale del dipendente (ad esempio attraverso corsi professionali o l’affiancamento con altri colleghi)”.
Viene quindi affermato che rientra nell’obbligo di ripescaggio anche la verifica della possibilità di riqualificare il lavoratore: soltanto ove la formazione si riveli “impossibile”, o “antieconomica”, sarà possibile procedere con il licenziamento del lavoratore.

3. L’oggetto dell’obbligo di ripescaggio nell’evoluzione giurisprudenziale. Brevi cenni.
Lo snodo più rilevante della decisione, in sostanza, ruota attorno alle interazioni tra l’obbligo di repêchage e lo ius variandi di cui all’art. 2103 c.c. Il tema sarà oggetto prossimamente di un focus di Lavoro Diritti Europa e rende opportuna una preliminare rivisitazione del perimetro dell’onere di ripescaggio nell’evoluzione giurisprudenziale.
Con riferimento all’ambito territoriale, è stato affermato che l’onere del datore di lavoro di dimostrare l’impossibilità di una diversa utilizzazione del lavoratore va assolto in riferimento a tutte le sedi dell’attività aziendale, essendo sufficiente la limitazione dell’offerta alla sede cui il lavoratore licenziato era addetto soltanto nel caso di preliminare rifiuto del medesimo a trasferirsi altrove . L’orientamento non specifica tuttavia le modalità attraverso cui dovrebbe emergere il rifiuto del lavoratore alla nuova collocazione e quindi se sia individuabile, oppure no, un vero e proprio onere del datore di lavoro di prospettare/ordinare un trasferimento al lavoratore.
Sul piano dell’individuazione dei soggetti destinatari dell’onere, la ricerca di un possibile reimpiego non include la ricollocazione presso altre società appartenenti al medesimo gruppo di imprese , a meno che sia configurabile un unico centro di imputazione dei rapporti giuridici, nel cui caso l’obbligo di repêchage riguarda tutte le imprese del gruppo e non soltanto l’impresa dalla quale il lavoratore formalmente dipende .
Infine, quale requisito da apprezzarsi “in negativo” o a posteriori, l’obbligo di ripescaggio può dirsi rispettato laddove per un congruo periodo successivo al licenziamento non vengano effettuate assunzioni in relazione alla qualifica posseduta dal lavoratore . Si tratta evidentemente di una cartina di tornasole della correttezza della verifica in ordine all’assenza di posizioni astrattamente ricopribili da parte del lavoratore. E così - se poco dopo il recesso per g.m.o. vi è stata una assunzione di un profilo analogo a quello del lavoratore licenziato – si può inferirne che il repêchage non è stato eseguito correttamente .

4. L’estensione dell’obbligo di repêchage e le sue interazioni con l’art. 2103 c.c.
Un aspetto delicato, nonché prodromico all’esame delle interazioni del repêchage con l’obbligo di formazione di cui all’art. 2103 c.c., riguarda innanzitutto l’ambito oggettivo delle mansioni in cui il lavoratore debba essere ricollocato, e quindi di stabilire entro quali limiti il datore di lavoro debba attivarsi per reperire al lavoratore posizioni lavorative diverse a quella soppressa.
Prima della riforma attuata con il D. lgs. 81 del 2015 – in armonia con il dettato di cui all’art. 2103 c.c. vigente ratione temporis - il datore di lavoro era tenuto ad offrire al lavoratore soltanto mansioni professionalmente equivalenti, essendo comunque valido in subordine il c.d. “patto di demansionamento” quale extrema ratio alternativa al licenziamento. Nel tempo, la Suprema Corte ha iniziato poi ad estendere l’obbligo di repêchage anche alle mansioni inferiori, purché compatibili con il bagaglio professionale del lavoratore .
L’estensione del ripescaggio alle mansioni inferiori, pur appesantendo l’onere della prova gravante sul datore di lavoro, non implicava comunque un obbligo di formazione aggiuntivo in capo all’azienda, operando comunque il parametro della congruità con il bagaglio professionale del lavoratore quale limite alla profondità (ed alla anti-economicità) del ripescaggio. Per l’effetto, un obbligo di formazione connesso al repêchage non poteva ricavarsi direttamente dal dato normativo.
Sennonché, il nuovo testo dell’art. 2103 c.c., estendendo lo ius variandi a tutte le mansioni ricomprese nel medesimo livello contrattuale di inquadramento, sembrava suggerire un allargamento, nei medesimi termini, dell’operatività dell’obbligo di repêchage. Con la possibilità di configurare, unitamente all’ampliamento dell’ambito di operatività dello ius variandi - esteso alle “mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte” - anche un obbligo di formazione per fornire alla risorsa gli insegnamenti necessari per ricoprire diligentemente e con perizia il nuovo ruolo individuato e assegnato all’esito del ripescaggio.
Il dato si ricavava direttamente dal nuovo tenore dell’art. 2103 c.c., che stabilisce che “il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione alle nuove mansioni”.
Si delineavano così nuovi (e più ampi) scenari per l’obbligo di ripescaggio, da considerarsi come il “naturale precipitato dell’ampliamento delle mansioni esigibili in via ordinaria dal lavoratore” , nonché come l’altra faccia della medaglia dell’ampliamento dei poteri datoriali contenuti nell’art. 2103 c.c.
Sennonché, se i primi commentatori declinavano con una certa sicurezza una maggiore ampiezza del repêchege - esteso a tutte le mansioni riconducibili al livello ed alla categoria professionale di riferimento – rispetto alla affermazione di un vero e proprio obbligo formativo si registrava una maggiore prudenza. E così, appariva più ragionevole distinguere se le nuove mansioni libere assegnabili al lavoratore in alternativa al licenziamento avessero richiesto o meno una apposita formazione: solo nel caso in cui questa non fosse risultata necessaria si sarebbe configurato in capo al datore di lavoro un obbligo di repêchage alternativo al licenziamento .
Una prima adesione alla soluzione che legava a doppio filo l’obbligo di ripescaggio all’art. 2103 c.c. giungeva dal Tribunale di Milano . Il Giudice adito, in quel caso, sottolineava che la novella determinava – anche sul piano dell’obbligo di ripescaggio – il “superamento della nozione di equivalenza delle mansioni, per cui il lavoratore può essere adibito ad altre mansioni purché riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte oppure corrispondenti all’inquadramento che abbia successivamente acquisito, con aggravamento dell’onere della prova in tema di repêchage”.
Il nuovo testo dell’art. 2103 c.c. era quindi suscettibile - seppur potenzialmente - di incidere sulla profondità dell’obbligo di ripescaggio, ed aveva quale possibile corollario la configurazione di un obbligo di formazione sul datore di lavoro nel caso di licenziamento per g.m.o. Si pensi all’ipotesi in cui all’esito della riorganizzazione residui la possibilità di collocare il lavoratore su profili professionali non esattamente omogenei a quello di appartenenza, ma comunque rientranti nello stesso livello (e categoria legale) ed ottenibili attraverso un percorso di formazione non eccessivamente dispendioso.
Si trattava comunque di una soluzione sostanzialmente inedita, e sino a quel momento mai sondata adeguatamente nella elaborazione giurisprudenziale.
In passato, infatti, seppur con riferimento a fattispecie antecedenti la riforma del jobs act, il Supremo Collegio aveva affermato che “ai fini dell'obbligo del "repechage", non vengono in rilievo tutte le mansioni inferiori dell'organigramma aziendale ma solo quelle che siano compatibili con le competenze professionali del lavoratore, ovvero quelle che siano state effettivamente già svolte, contestualmente o in precedenza, senza che sia previsto un obbligo del datore di lavoro di fornire un'ulteriore o diversa formazione del prestatore per la salvaguardia del posto di lavoro” .

5. Aspetti critici della configurazione dell’obbligo di formazione quale onere collaterale dell’obbligo di repêchage.
L’affermazione dell’obbligo di formazione nell’ambito del repêchage – declinato chiaramente nella sentenza commentata - pone all’interprete una serie di questioni, imponendo di verificare come inserire l’onere formativo nel g.m.o. senza significative aporie applicative, e senza una eccessiva compressione dell’art. 41 della Costituzione.
I parametri offerti dal Tribunale di Lecco non sembrano garantire sufficienti margini di certezza all’operatore. Si pensi al criterio della “impossibilità” di fornire la formazione : seguendo letteralmente questa indicazione, il datore sarebbe onerato di formare (anche ex novo) qualunque risorsa, anche per un arco temporale ampio e significativo, con il solo limite della materiale impraticabilità del processo di riqualificazione. Per l’effetto, l’impossibilità potrebbe di fatto non aversi mai, oppure aversi (ma non si tratterebbe comunque di impossibilità materiale) soltanto laddove la posizione lavorativa disponibile e compresa nell’area di inquadramento sia conseguibile attraverso un percorso di formazione totalmente avulso dal bagaglio professionale del lavoratore licenziato. I margini di incertezza sarebbero comunque notevoli.
Anche l’altro criterio, quello dell’antieconomicità, si rivela solo apparentemente meno problematico, essendo un elemento di valutazione anch’esso sfuggente e non adeguatamente specifico (e quindi pericoloso sotto il profilo della certezza). Nella clausola generale dell’antieconomicità potrebbe rientrare un processo di riqualificazione di fatto incompatibile con l’assetto organizzativo aziendale, o ancora uno che rende inutilizzabile il lavoratore per un ampio arco temporale, o ancora un processo di riqualificazione destinato a paralizzare (o rallentare) per un tempo significativo una funzione aziendale, o ancora un processo di formazione così dispendioso da determinare un risultato economico relativo. L’ampio ventaglio di scenari rende evidente l’incertezza che scaturisce dalla soluzione del Tribunale di Lecco.
Gli aspetti problematici, tuttavia, non si esauriscono qui. V’è da chiedersi, infatti, se l’obbligazione di formazione alle nuove mansioni sia un’obbligazione di mezzi o di risultato: in altre parole, se il datore di lavoro debba garantire il risultato formativo, o se possa invece, dopo averlo adempiuto con diligenza, licenziare il dipendente che nonostante l’erogata formazione risulti comunque incapace di svolgere le nuove mansioni . Il licenziamento per g.m.o. rischia però, in questi termini, di divenire un percorso ad ostacoli oltre che incerto, anche intollerabilmente insidioso.

6. La ragionevolezza come strumento correttivo delle incertezze applicative connesse alla configurazione di un obbligo di formazione nell’ambito del repêchage.
Nel quadro sopra delineato l’operatore deve trovare delle soluzioni per ridurre (almeno in parte) i profili di incertezza connessi ad un obbligo di tal fatta, consentire il migliore bilanciamento possibile degli interessi contrapposti ed infine valutare la tenuta di questa soluzione interpretativa sul piano sistematico.
Viene in rilievo - quale strumento per indagare tutte le finalità sopra indicate - il criterio della ragionevolezza.
L’ampiezza dell’obbligo di ripescaggio, arricchito dell’obbligo di formazione, così come delineato dal Tribunale di Lecco, sembra infatti riecheggiare l’istituto dei ragionevoli accomodamenti - nel quale la ragionevolezza è l’elemento centrale - nonché l’art. 10 comma 3 della legge 68/1999 che disciplina il licenziamento del lavoratore divenuto inabile e stabilisce che il rapporto possa essere risolto soltanto “… nel caso in cui, anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro, la predetta Commissione accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’azienda”.
Così come nell’obbligo di repêchage delineato per l’ipotesi del licenziamento del disabile, anche il Tribunale di Lecco non esaurisce il ripescaggio in un fatto meramente negativo, quale l’assenza di posti disponibili in mansioni equivalenti od inferiori, richiedendo al datore di lavoro un comportamento attivo e positivo, dato dalla riqualificazione del lavoratore.
Proviamo quindi a raffrontare le due ipotesi, utilizzando quale strumento di verifica e comparazione proprio il criterio della ragionevolezza (nelle varie declinazioni).
Nell’ipotesi del licenziamento del disabile, si è ritenuto che gli adattamenti - che concretano il comportamento positivo richiesto al datore di lavoro - devono essere ragionevoli, non devono ledere le posizioni lavorative degli altri prestatori di lavoro e devono evitare oneri organizzativi eccessivi per l’azienda, stante l'esigenza del mantenimento degli equilibri finanziari dell'impresa .
Il criterio della ragionevolezza si ricollega quindi alla buona fede oggettiva – richiamata proprio dal Tribunale di Lecco – che implica l’obbligo di preservare gli interessi dell’altra parte purché ciò non comporti un apprezzabile sacrificio del proprio interesse. Pertanto, potrebbe ritenersi ragionevole il percorso di riqualificazione che non incida significativamente sulla organizzazione aziendale, e che non comporti un eccessivo onere finanziario per il datore di lavoro. Ma ancora una volta, l’incertezza operativa sembra presentare delle maglie troppo larghe, che la ragionevolezza non stringe in maniera adeguata.
Si è altresì ritenuto di vagliare il criterio di ragionevolezza attraverso il c.d. test di proporzionalità, utilizzato anche dalla Corte di Giustizia , dalla CEDU e dai giudici nazionali per controllare l’uso dei poteri datoriali anche attraverso una valutazione di minor impatto possibile, così che la realizzazione di un diritto avvenga nel modo che garantisca la minor lesione o compressione possibile del diritto altrui. Sempre il test di proporzionalità impone di verificare che la lesione subita da un diritto sia proporzionata ai benefici che derivano da quella azione.
Ne deriva, dall’operazione sopra indicata, la necessità di operare un bilanciamento caso per caso, valutando volta per volta se il vantaggio collegato al percorso di formazione sia pari alla compressione inferta alla organizzazione aziendale.
Sennonché, in questo punto la valutazione di ragionevolezza si arresta di fronte alle indicazioni fornite dal Supremo Collegio, che proprio in materia di g.m.o. con la sentenza n. 25201/2016 ha affermato che il bilanciamento tra gli interessi è già stato operato dalla norma, ed in favore della libertà d’impresa. La pronuncia aveva segnato il superamento del precedente indirizzo interpretativo che richiedeva comunque un bilanciamento in concreto nel singolo caso tra l’esigenza di stabilità del rapporto di lavoro e libertà di iniziativa imprenditoriale, con la conseguenza per cui la stabilità del rapporto di lavoro poteva essere sacrificata solo in presenza di situazioni sfavorevoli . Per l’effetto del nuovo orientamento, la valutazione caso per caso in ordine alla possibilità di svolgere un percorso di formazione si scontra, oltre che con esigenze di certezza del diritto, anche con l’arresto della Corte di Cassazione di cui sopra.
Ed infatti nel caso dei ragionevoli accomodamenti il maggiore sacrificio della libertà imprenditoriale e l’incertezza connessa allo svolgimento di una valutazione caso per caso sono giustificati dalla natura degli interessi giuridici contrapposti, e dal fatto che – nel caso del licenziamento del disabile - rientra in gioco anche la salvaguardia della dignità sociale del lavoratore afflitto da una infermità che incide sulla sua capacità lavorativa.
E’ quindi la particolare natura degli interessi in gioco a giustificare e rendere tollerabili i significativi margini di indeterminatezza sottesi alla nozione di ragionevoli accomodamenti. E a rendere l’incertezza applicativa “ragionevole”.
Nel caso del g.m.o. invece, le aporie applicative collegate alla declinazione dell’obbligo formativo in tema di repêchage - come declinato dal Tribunale di Lecco - rischiano di essere difficilmente superabili, residuando comunque irrisolti (e forse irrisolvibili) margini di incertezza.

 

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