Testo integrale con note e bibliografia

Una discussa misura per le famiglie
L’art. 40 del D.l. n. 48/2023, nel testo dopo la conversione in legge, mantiene la rubricazione di “misure fiscali per il welfare aziendale”.
Non pare essere argomento centrale del decreto lavoro, essendo perlopiù inglobato nelle misure, pur importanti, del capo IV destinate “al sostegno dei lavoratori e per la riduzione della pressione fiscale”.
La finalità dichiarata delle disposizioni dell’art. 40, così come si ricava dal dibattito parlamentare e dalle dichiarazioni di esponenti politici dell’Esecutivo, prima, durante e dopo la stesura del Decreto e della sua conversione in legge, era quella di creare incentivi a favore della natalità, al fine di fronteggiare la crisi demografica in atto nel nostro Paese . Se indubbiamente l’intervento in commento rappresenta un’agevolazione per famiglie con figli, ci si può subito chiedere, tuttavia se possa in qualche modo collegarsi alla natalità un intervento limitato “al periodo di imposta 2023”, promulgato a maggio ed in bilico fino alla legge di conversione, il che comporta l’impossibilità anche solo ipotetica di mettere in cantiere un figlio, né in modo biologico e tantomeno con i tempi di un’adozione, purtroppo ancor più lunghi di una gestazione. Rimane così null’altro che una misura al più volta ad un sostegno alle famiglie, anche se con i limiti che vedremo.
Non daremo conto qui del complesso iter parlamentare e dei tentennamenti e delle oscillazioni che si sono registrate sulla manovra in argomento, la quale, pur consistendo in un’agevolazione pura e semplice di natura fiscale, non ha incontrato i favori che ci si poteva aspettare in via generale: non dalle imprese, che si sono viste ribaltare addosso il peso e gli oneri dell’applicazione della misura, non dai sindacati dei lavoratori, che mal gradiscono una politica fiscale lasciata all’iniziativa e alla libera determinazione delle aziende, non dai tecnici, i quali hanno subito palesato difficoltà interpretative che hanno reso necessario un intervento di Agenzia delle Entrate (circolare 23/E del 1° agosto 2023) a dissipare alcuni dubbi; tanto che le riflessioni che seguiranno devono in parte a tale circolare la forma assertiva e non dubitativa.

La disposizione di legge
La norma prevede l’innalzamento per il 2023 della soglia di cui all’art. 51 comma 3 del TUIR - che era di 258,23 euro e che tale rimane per tutte le altre categorie di lavoratori- ad euro 3.000 per i genitori con figli a carico dal punto di vista fiscale. Trattasi, più che di vero e proprio welfare, dei cosiddetti fringe benefits generici, una sorta di pseudo-franchigia storicamente destinata a non far confluire nel reddito di lavoro dipendente, regali, iniziative o piccoli servizi di modico valore destinati ai lavoratori, tanto che, al superamento della soglia predetta, tutti i valori in questione vengono considerati reddito imponibile ai fini fiscali (e ai fini contributivi, in forza dell’armonizzazione della base imponibile operata dal D.lgs. n. 314/1997).
Il richiamo alle mere “condizioni” previste dall’art. 12 TUIR, comma 2 è quanto mai opportuno; l’articolo infatti indica i limiti economici per considerare i familiari fiscalmente a carico (reddito fiscale annuo non superiore a 2840,31 euro, aumentato a 4000 euro per figli di età non superiore a 24 anni). Un mero riferimento al comma 2 in generale avrebbe invece innescato un cortocircuito logico: il comma, infatti, richiama i commi precedenti ove sono indicati i familiari a carico, dai quali, tuttavia, sono stati recentemente espunti i figli fino a 21 anni, in seguito all’introduzione dell’assegno unico universale che copre i figli entro quell’età.
Le condizioni soggettive per poter fruire della misura in questione sono pertanto due:
- percepire un reddito di lavoro dipendente o assimilato , così come espresso dalla circolare AE 23/E-2023; la precisazione di prassi è importante perché l’espressione dell’art 40 del D.l. n. 48/2023 (che parlava esplicitamente di “lavoratori dipendenti” e “datori di lavoro”) avrebbe fatto propendere per l’esclusione di tutte le figure che subordinate non sono, mentre invece in senso prettamente fiscale l’art. 51 TUIR si applica anche a tutti i percettori previsti dall’art. 50 TUIR (in particolare, amministratori, sindaci, collaboratori coordinati e continuativi in genere, stagisti e tirocinanti, membri del Parlamento etc.);
- avere dei figli che percepiscano nell’anno 2023 un reddito non superiore ai limiti predetti (euro 4000 se figli non maggiori di 24 anni, euro 2840,31 se di età superiore); a tal proposito, non incide l’effettiva messa a carico fiscale dei figli presso il sostituto d’imposta (come è noto, infatti, si possono avere differenti ripartizioni fra i coniugi), quindi indipendentemente da essa ciascun genitore può godere per intero del plafond 2023 di 3000 euro, come confermato dall’Agenzia delle Entrate. Per figli si intendono anche gli adottati ed affidati e i figli “nati fuori dal matrimonio riconosciuti” .
La norma prevede altresì due condizioni procedimentali:
- ogni lavoratore deve comunicare al proprio datore di lavoro (inteso in senso lato quale erogante, quindi anche società, committente, ospitante, dominus etc.) il codice fiscale dei figli che gli permetterebbero di accedere alla misura in questione; tale condizione appare necessariamente preliminare alla considerazione della misura, tuttavia in taluni casi si tratterà di una dichiarazione “under construction”, che infatti comporterà la verifica (a fine anno 2023) del permanere della condizione reddituale del figlio, poiché in caso di superamento il lavoratore dovrà provvedere a rettificare la dichiarazione e l’erogante a rettificare in conguaglio gli importi detassati/decontribuiti;
- i “datori di lavoro” (in senso lato) danno attuazione alla misura dandone informativa alle rappresentanze sindacali unitarie , laddove presenti; l’A.E., nella circolare ricordata, prevede la possibilità che l’informativa possa essere data anche non in forma anticipata ma “entro la chiusura del periodo d’imposta”, essendo una misura che estende i suoi effetti sull’intero anno 2023.
E’ in particolare la seconda condizione – evidentemente un cedimento (rectius, un contentino) alle forze sindacali, che avrebbero voluto subordinare tale misura, o le ipotesi analoghe che erano circolate in merito, alla stipula di accordi collettivi – a destare qualche perplessità, che nemmeno la circolare di Agenzia delle Entrate chiarisce (essendo peraltro una disposizione fuori dal proprio perimetro interpretativo, che è quello fiscale).
In effetti, è del tutto ignoto il contenuto da dare alla comunicazione, che (stando alla lettera della norma) potrebbe anche solo limitarsi alla volontà aziendale di dare spazio alla misura, senza precisare i termini ed i contenuti della propria azione. Qui si evidenzia pienamente, in realtà, l’oscillazione della norma, che da un lato conferisce all’erogante una facoltà di contenuto assolutamente discrezionale, come vedremo, salvo poi sancire l’obbligo di informarne le rappresentanze sindacali. Peraltro, anche il contenuto stesso della comunicazione, qualora inteso in senso analitico, potrebbe violare più di un diritto alla riservatezza del singolo percipiente, sia in generale sia con riferimento a quelle figure che non rientrano in alcun modo nel perimetro di azione delle RSU. Tra l’altro, il riferimento esplicito alle RSU “laddove presenti” tenderebbe a considerare escluse dall’obbligo di comunicazione in argomento tutte le altre rappresentanze più o meno informali presenti in azienda ma che non abbiano dato vita all’elezione formale prevista per il caso dagli accordi interconfederali.

L’oggetto della misura e la sua applicazione.
Con una tecnica non nuova – era infatti già stata sperimentata nel 2020 (soglia raddoppiata a 516,46 euro ), nel 2021 (soglia portata a 600 euro ) ma soprattutto nel 2022, dove la soglia si era attestata ai 3000 euro - il legislatore interviene sul limite del welfare generico, o per meglio dire dei benefits, al superamento del quale, si ricordi, tutti i valori erogati, compresi quelli sotto soglia (che quindi non funziona come franchigia ma come limite non plus ultra), sono imponibili sia per fisco che per contribuzione.
Si tratta di una fattispecie composita, vero mare magnum, consistente in tutti i beni o i servizi (non in danaro) a qualsiasi titolo erogati al lavoratore e che ricomprende davvero una categoria molto vasta, che va dai beni aziendali (e non) concessi al lavoratore (spiccano in particolare le autovetture, specie ad uso promiscuo , e i fabbricati) o ad esso ceduti - si pensi agli spacci aziendali con beni gratuiti o a prezzi fortemente scontati, a servizi erogati (come il servizio di compilazione gratuita del 730 o come il maggiordomo aziendale ed altri servizi c.d. “salvatempo”), o anche eventi (la gita o la cena aziendali, i regali durante le festività etc.) - che per loro natura costituirebbero ad ogni effetto retribuzione (in natura) imponibile, salvo restare nella risicata soglia delle vecchie 500.000 lire (oggi 258,23 euro).
E questo apre un primo tema, che riguarda l’esigenza del superamento del limite stabilito a metà anni 90’ e rimasto inalterato nel tempo, a dispetto dell’aumentato costo della vita dovuto a fenomeni inflattivi ed all’introduzione dell’euro, tanto da diventare troppo stretto per svolgere la sua funzione originaria, cioè quella di non andare a considerare fiscalmente piccole attenzioni normali di contenuto risibile rivolte ai lavoratori.
In questo senso, le rivalutazioni di soglia effettuate nel 2020 e 2021 (e nei primi mesi del 2022) sembravano aver imboccato la strada, tutto sommato accettabile, del mero adeguamento economico, sia pure “concesso” anno per anno e non trasformato in misura stabile.
La vera svolta è stata invece data a fine 2022, ove l’elevato innalzamento della soglia (3000 euro, oltre dieci volte tanto) e la possibilità che il benefit fosse convertito in cash con il semplice rimborso delle bollette energetiche e di utenza domestica ha creato effetti distorsivi già evidenti l’anno scorso ma di cui il legislatore del D.l. n. 48 non ha voluto tener conto. Ne esporremo i due principali rimandando l’osservazione di altri profili critici al paragrafo finale.
In primis, l’elevazione esponenziale della soglia non solo ha snaturato la funzione del comma 3 dell’art. 51 ma ha fatto ricadere nel suo perimetro dazioni che si davano pacificamente per tassate e che già godevano del beneficio fiscale (e contributivo, ricordiamolo) di una forfettizzazione dell’imponibile rispetto al valore reale del bene goduto e concesso un uso (autovetture e fabbricati sono l’esempio più eclatante, anche se non l’unico). Ciò ha comportato l’effetto automatico di una defiscalizzazione generalizzata, ma rivolta perlopiù solo a chi già godeva di tali beni (per non parlare delle difficoltà gestionali che in sede di conguaglio incontrano le aziende e i loro consulenti), senza un particolare effetto aggiuntivo/incrementale (se non il risparmio fisco-previdenziale). Cosa che si appresta a succedere anche nel 2023, sia pure per la platea più limitata della genitorialità.
Il secondo aspetto è dato dalla monetarizzazione (di fatto) del benefit: se prima infatti il contenuto valore-soglia attutiva questo effetto, sicchè dare 250 o, negli ultimi anni, 5/600 euro in buoni spesa e benzina o gift card, se non sussistevano altri servizi, rimaneva nei termini di una regalia che non incideva più di tanto nelle valutazioni aziendali, avere elevato in modo così alto (si parla in termini di netto percepito - sia sotto forma di rimborso bollette che di buoni spesa generici – di quasi due stipendi netti di un lavoratore comune) poteva ben spostare gli equilibri di talune politiche retributive aziendali, soprattutto perchè il valore viene del tutto sganciato da una messa a disposizione di beni in natura o servizi (il rimborso delle bollette è denaro contante, come di fatto lo è anche la consegna di buoni spesa). Si noti al riguardo che la stessa Agenzia delle Entrate nella circolare 23/E -2023 sancisce la possibilità di sostituzione dei premi di risultato (già detassati al 5 %) con beni e servizi o somme erogate o rimborsate per le utenze, sia pure se il contratto di secondo livello lo preveda (quasi tutti lo fanno ).

Perchè non si può parlare di welfare e quali criticità nasconde la manovra
In ogni caso, oltre a quanto già sottolineato, la manovra dell’art. 40 del Decreto legge evidenzia altri profili di discutibilità.
Il primo è legato, come già accennato, alla più assoluta discrezionalità dell’azienda, una discrezionalità sia generale (cioè se destinare o meno ai lavoratori in tutto – entro il limite - o in parte il valore dei 3000 euro), ma anche particolare, cioè la possibilità di differenziare fra lavoratore e lavoratore l’eventuale valore da destinare (ad esempio, a chi 3000, a chi 1000, a chi nulla). Il che è perfettamente in linea con la ricordata finalità originaria del comma 3: regali o servizi possono ben avere, infatti, una differenziazione o personalizzazione, che entro il limite contenuto precedente non creava alcuna particolare disparità di trattamento, mentre tale sperequazione risulta più sensibile quando le somme cominciano a rivestine una certa significanza quantitativa.
Qualche autorevole commentatore ha osservato che in termini di welfare vi è stato un ribaltamento del metodo (dal beneficio al beneficiario), ma a ben vedere questo non è dato dall’aver privilegiato la posizione genitoriale rispetto ad altre: anche nel welfare più genuino, infatti, la categorizzazione dei lavoratori o l’individuazione delle provvidenze può ben avvenire in termini non orizzontali – cioè legati a fattori oggettivi – ma verticali (cioè riferiti a bisogni o caratteristiche personali o particolari, purchè ciò rispetti una qualche collettivizzazione e non si traduca in interventi ad personam ). Il vero ribaltamento metodologico è stato quello - nel forzare la mano al comma 3 (snaturandolo appunto) - di esasperare il potere decisionale aziendale; unendo tale fattore alla monetarizzazione, il danno concettuale al welfare (e alle politiche aziendali che lo generano) è bell’e che fatto, anche perché si allontana la finalità di utilità sociale a cui ci si dovrebbe in qualche modo ancorare quando ci si riferisce al concetto più genuino di welfare. Il che porta, anche per le altre ragioni sopra ricordate, a dover parlare più correttamente di benefits.
La seconda criticità è la sperequazione a livello trasversale operata nel mercato del lavoro, che osservata nel 2022 è stata riproposta allo stesso modo nel 2023, non facendo tesoro dell’esperienza precedente. Partendo infatti da una volontà evidente di sostegno economico (l’anno precedente a livello generale per via della crisi energetico-economica derivata dall’aggressione dell’Ucraina, nel 2023 concentrando invece l’attenzione sul fattore genitoriale) dobbiamo chiederci se tale finalità sia stata perseguita e soprattutto se abbia raggiunto le quote di lavoratori che ne avrebbero maggiormente necessitato. Di fatto, come avvenuto nel 2022, anche per il 2023 a beneficiare delle provvidenze dell’art. 40 sono stati e saranno perlopiù i lavoratori di aziende che possono permettersi politiche di welfare e sostegno economico, cioè lavoratori che nella maggior parte dei casi economicamente parlando stanno già (almeno abbastanza) bene. Piuttosto improbabile, infatti, sarebbe pensare che all’interno della fascia di lavoro povero o addirittura sfruttato (di cui tanto si dibatte attualmente, anche in termini di salario minimo) trovi il benchè minimo spazio la concessione di benefits. Insomma si rischia di dare a chi già ha, con un carico che non è solo aziendale ma che (attraverso il risparmio fiscale) investe anche la collettività. Il tutto, poi, considerando che il raddoppio (nel caso in cui entrambi i genitori abbiano un reddito di lavoro dipendente o assimilato e, come succede di solito, appartengano alla stessa fascia sociale e lavorativa) acuisce ancor di più la sperequazione.
Non si capisce, ad esempio, in tema di sostegno alla genitorialità perché non pensare piuttosto ad una maggiorazione (anche temporanea) dell’assegno unico, che per le modalità di determinazione e la calibrazione anche sul reddito familiare, avrebbe avuto una destinazione più “chirurgica” ed efficace, ed in ogni caso universale.
Un terzo profilo discutibile, a ben vedere, è dato dalla utilità residuale della misura, se si considera che i genitori sono coloro che, in caso di messa a disposizione di provvidenze da parte dell’azienda, sono fra i soggetti che più possono accederne, sia perché il nucleo familiare fa “massa critica” rispetto alla maggior parte delle poste di welfare che erano già fruibili (si pensi, solo per fare qualche esempio fra i tanti, all’assistenza sanitaria, o alle iniziative culturali e ricreative) sia perché in forma specifica vengono rimborsate (TUIR, art. 51, comma 2, lettera f-bis) le somme spese per servizi di educazione ed istruzione, dall’età prescolare ai master universitari, compresi servizi integrativi (mensa, trasporto, accoglienza pre/post-scuola), borse di studio, frequenza di centri estivi. Vi è quindi una duplicazione, diremmo quasi un’insistenza, verso soggetti che già nella maggior parte dei casi, se destinatari di welfare, riuscivano a fruirne con pienezza (come è evidente a chi opera sul campo).
L’ultima criticità che vorremmo segnalare è a livello culturale. Se escludiamo le aziende di medio-grande dimensione e/o quelle con una politica del personale mirata ed attenta (non sempre le cose vanno di pari passo), l’incremento esponenziale del welfare aziendale, quasi quintuplicato dal 2016 ad oggi, non fa il paio con la medesima sensibilità sociale delle imprese. Per buona parte di esse il concetto di fondo che sta alla base del welfare di concezione aziendale è completamente ribaltato: l’azienda non ha dei benefici fiscali perché fa del bene (nel senso che attua la promozione umana del lavoratore attraverso provvidenze che abbiano la cosiddetta “utilità sociale”) ma fa del bene (anzi, talvolta fa semplicemente “qualcosa”, nel senso che manovra dei benefit) unicamente in forza del vantaggio fisco-previdenziale che ne deriva.
Se la leva fiscale resta comunque un ottimo argomento promozionale del welfare aziendale, non è e non ne può essere la ragione ultima, tuttavia ancora oggi sentiamo spesso parlare di welfare soltanto in termini di vera e propria “pianificazione fiscale”. È ovvio che poi, se è il legislatore stesso a concentrare l’attenzione sul benefit e sulla defiscalizzazione, utilizzandoli come sinonimi del welfare, non sta lavorando alla creazione di una visione di attenzione alla risorsa umana.
Manca del tutto, nella misura dell’art. 40, una qualsiasi progettualità del welfare (l’analisi dei bisogni, la regolamentazione, la capillarità degli interventi) si tratta di un beneficio caduto dall’alto, senza nessun percorso o finalizzazione specifica. Ma questo non è solo uno spreco di risorse (a vantaggio dei pochi che ne beneficiano), è un danno culturale che impoverisce in un colpo solo l’esigenza di evoluzione della mentalità imprenditoriale, la cultura del lavoro come responsabilità e collaborazione e finanche il ruolo di partecipazione che si esplica nelle relazioni industriali o, nelle aziende più piccole, come semplice cooperazione e condivisione spontanea.
In tal modo il welfare rimane un puro e semplice elemento economico, integrativo della retribuzione, sganciato da qualsiasi finalità che non sia quella di soppesarne il valore in termini di convenienza, una sorta di bonus aggiuntivo; ed in tal senso, ancora una volta, destinato a quelle categorie di persone che un potere di trattativa nel mercato del lavoro già ce l’hanno. Un welfare assolutamente slegato dal bisogno (sia pure inteso in senso lato) diventa mero pacchetto remunerativo più o meno composito: nulla di sconvolgente, ma c’è quantomeno da chiedersi se in tale dimensione sia sostenibile l’agevolazione fiscale oggi prevista.

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