testo integrale con note e bibliografia

Sono radicate nel fronte sindacale italiano, condiviso anche dal sindacato dei paesi del Nord Europa, le preoccupazioni legate all’intromissione del legislatore sui minimi salariali. Argomento tradizionale, con radici storiche molto lontane nel tempo, è quello che denuncia un pericolo di svuotamento dell’azione contrattuale, con un sostanziale impoverimento di coloro che guadagnavano sopra il minimo di legge.
Più nel dettaglio, il ragionamento parte dall’idea che qualora il legislatore prevedesse un salario minimo, questo diventerebbe il nuovo riferimento obbligato della retribuzione costituzionalmente adeguata, in luogo del salario, più alto, previsto dai contratti collettivi . La contrattazione nazionale di categoria si ritroverebbe così di colpo svuotata di quella che è stata fin qui la sua principale funzione, appunto la determinazione di minimi salariali inderogabili . Il che si riverbererebbe immediatamente sul campo di applicazione del contratto collettivo di categoria, la cui applicazione (quasi) generalizzata è stata fin qui in buona parte garantita dall’impossibilità per il datore di lavoro di svincolarsi dal rispetto dei minimi tabellari, in ragione dell’operazione giurisprudenziale condotta sull’art. 36 Cost. Così, l’effetto diretto ed immediato conseguente ad una “decostituzionalizzazione” dei minimi previsti dai contratti collettivi, rischierebbe di risolversi in una fuga dal suo ambito di applicazione. Basterebbe, infatti, al datore di lavoro, per essere in regola con la Costituzione, garantire il solo salario minimo legale . Per arginare tale fenomeno, le parti sociali dovrebbero, a loro volta, cercare di negoziare retribuzioni più basse, vicine al minimo di legge, così da mantenere il contratto collettivo “competitivo” .
Il disturbo recato dal salario minimo si spingerebbe, poi, fino a coinvolgere la dinamica interna delle negoziazioni collettive salariali anche sotto un ulteriore aspetto: il saggio minimo di legge rischierebbe di rappresentare un benchmark per la delegazione datoriale, utile a contenere le rivendicazioni sindacali . Situazione che condurrebbe in ultima istanza ad un danno all’immagine delle parti sociali, con un declino inesorabile del tasso di adesione sindacale.
Tutto questo impatterebbe inevitabilmente negativamente sui livelli salariali. Tanto che, si denuncia, i benefici che si auspicherebbe di ottenere con l’introduzione di un salario minimo legale inderogabile in termini di tutela dei lavoratori poveri sarebbero solo apparenti. Di fatto si giungerebbe ad una riduzione delle retribuzioni di coloro che guadagnavano sopra il minimo e finanche ad un peggioramento generalizzato delle condizioni di lavoro per via di una contrattazione collettiva ed un sindacato indeboliti.
Come già sostenuto in altra sede , si tratta di timori che non si condividono. In particolare, il ragionamento di coloro che si schierano apertamente contro la misura, tanto sul fronte scientifico che su quello politico-sindacale, non considera quella che pare invece la corretta sistemazione costituzionale del salario minimo nell’ambito dei principi introdotti dall’art. 36 Cost. La previsione per mano del legislatore di una retribuzione oraria minima si porrebbe, infatti, in chiave di implementazione del solo principio di sufficienza, corrispondente all’esigenza solidaristica di garanzia di un livello minimo di sussistenza a favore di tutti i lavoratori (c.d. living wage). Ancora non realizzerebbe la giusta retribuzione voluta dall’art. 36 Cost., che dev’essere anche proporzionale , ancorata, cioè, alla dinamica dello scambio contrattuale, tenendo contemporaneamente conto delle caratteristiche del lavoro svolto, in termini di quantità e qualità (professionalità e capacità necessarie, impegno profuso dal lavoratore, concretamente contestualizzate nel contesto del mercato del lavoro) . Di questo resterebbe responsabile la contrattazione collettiva che manterrebbe così l’investitura costituzionale di principale autorità salariale.
Se partiamo da questo presupposto, saltano tutti passaggi logici che dovrebbero condurre allo scenario paventato dagli oppositori del salario minimo legale. A venir meno è, innanzi tutto, il pericolo di fuga del datore di lavoro dalla contrattazione collettiva. Il contratto collettivo di categoria rimarrebbe il riferimento privilegiato della retribuzione costituzionalmente adeguata, che non può prescindere dal rispetto della proporzionalità, comunque affidata alla contrattazione collettiva. Pertanto, anche ammesso che l’impresa possa e voglia prescindere dai benefici condizionati all’applicazione dei contratti collettivi, la giurisprudenza manterrebbe intatti gli spazi di intervento in chiave di adeguamento verso i minimi stabiliti dalla contrattazione collettiva, se, ovviamente, superiori a quelli di legge. Il pericolo di fuga dalla contrattazione collettiva rimarrebbe, pertanto, né più né meno quello attualmente presente. Tanto eliminerebbe anche l’esigenza per le parti sociali di negoziare retribuzioni più basse, vicine al minimo legale, per mantenere il contratto “competitivo”.
Quanto, poi, all’effetto benchmark, recato dalla presenza di un saggio legale di salario minimo, il problema appare alla luce dell’esperienza comparata non troppo preoccupante: avendo cura di fissare una misura del salario legale realmente corrispondente ad un minimo, con un “mordente” non superiore al 10/11% dei lavoratori subordinati , o anche inferiore, come nel Regno Unito, dove si attesta intorno al 4/5% , la contrattazione collettiva salariale molto probabilmente lo ignorerebbe, eccezion fatta, forse, per le qualifiche più basse, nei settori tradizionalmente meno generosi.
Basti a tale proposito menzionare il caso tedesco. Come noto, in Germania, quando è entrato in scena il salario minimo legale (gennaio 2015), la copertura della contrattazione collettiva era scesa sotto il 50%, dopo un costante declino iniziato con la riunificazione tedesca. Le ragioni di tale declino sono ricollegabili, innanzi tutto, ad un indebolimento del sindacato, con un tasso di adesione sceso intorno al 18%, complice la diffusione dei c.d. mini-jobs e, più generale, di quel processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro, prodotto delle riforme Hart intervenute negli anni 2003-2005. Da qui, l’incapacità del sindacato, particolarmente pronunciata nei settori dei servizi, di portare i datori di lavoro al tavolo della contrattazione collettiva o di costringerli all’applicazione di un contratto collettivo. Esiste sin dal 1949 in Germania un meccanismo per l’estensione dell’efficacia dei contratti collettivi che passa per un atto del Ministro del lavoro. Un’opportunità usata molto di rado per via degli stringenti requisiti (soprattutto di copertura dei contratti collettivi).
Tutto questo ha condotto ad una situazione dei salari che, all’indomani dell’entrata in vigore della legge sul salario minimo, si presentava piuttosto preoccupante. A metà del decennio scorso la Germania presentava una delle proporzioni di lavoratori poveri più alta d’Europa: circa un lavoratore su quattro aveva una retribuzione al di sotto della soglia del 60% del salario mediano, con disparità salariali macroscopiche tra lavoratori coperti dalla contrattazione collettiva e l’altra metà invece non inclusi.
Anche in Germania i giudici hanno cercato colmare la mancanza di prescrizioni legali sui minimi, tamponando il problema dei bassi salari attraverso un meccanismo simile a quello elaborato dalla nostra giurisprudenza sull’art. 36 Cost. L’appiglio normativo è rappresentato da una norma del codice civile (BGB), riferita ai negozi giuridici contrari al buon costume o a contenuto usuraio. Tuttavia, gli spazi di manovra per i giudici tedeschi si sono rivelati alquanto limitati, di fatto riservati solo ai casi più eclatanti. Tanto che poco hanno potuto nella prevenzione della diffusione dei bassi salari, alla luce dei dati, sopra menzionati, sulla povertà lavorativa.
Ed è dunque nel quadro appena delineato che nel 2014 è stata approvata la “legge di sostegno alla contrattazione collettiva” che ha incluso, appunto, la previsione di un salario minimo intercategoriale fissato per la prima volta direttamente dalla legge in euro 8,50 orari. Stando alle analisi prodotte in quasi un decennio, la presenza di un salario minimo legale non ha prodotto alcun indebolimento della contrattazione collettiva e del sindacato. Anzi ha contribuito ad un generale innalzamento dei livelli salariali, anche contrattuali collettivi, con una drastica diminuzione della proporzione di lavoratori poveri.
Tutto lascerebbe, dunque, pensare che nel contesto di una legislazione sui minimi salariali, la contrattazione collettiva non verrebbe spogliata del suo ruolo, mentre le esigenze sociali connesse alla determinazione della giusta retribuzione ne uscirebbero ulteriormente rafforzate: la contrattazione collettiva salariale troverebbe un supporto nella soglia minima legale, che premendo sulle retribuzioni di cui alle qualifiche più basse, porterebbe ad un innalzamento anche di quelle superiori, per mantenere i differenziali tra i diversi inquadramenti; la contrattazione pirata non potrebbe da parte sua più scendere sotto la soglia della decenza salariale.
I sindacati più rappresentativi ne uscirebbero generalmente valorizzati, diventando, nell’ambito dell’apposito organismo destinato a “suggerire” la misura del minimo salariale legale, co-titolari del potere di decidere le politiche sociali ed economiche che stanno dietro la determinazione della misura del salario minimo intercategoriale. Insomma, il sindacato recupererebbe quel ruolo “macroeconomico” che proprio chi esprime perplessità verso l’introduzione di un salario minimo legale, ritiene essergli stato via via tolto, a partire dall’Accordo quadro del 2009.

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