testo integrale con note e bibliografia

1. Evoluzione del job burnout

Fin dagli anni ‘70 del Novecento, le cosiddette helping professions, specie quelle di ambito sanitario ed educativo, sono state identificate come le più esposte al burnout cioè a quel fenomeno di esaurimento profondo e totale, attribuito a stress cronico mal gestito, che nell’undicesima International Classification of Diseases del 2019, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto come “sindrome” così specificamente attinente al contesto lavorativo (occupational phenomenon), che non dovrebbe essere applicata per descrivere esperienze in altre aree di vita.
Secondo il primo articolo pubblicato sull’argomento, nel 1974, da Herbert Freudenberger, il burnout o, come oggi più precisamente lo si identifica, il job burnout , consisteva in una sintomatologia da stress degli operatori dei servizi d’aiuto, conseguente ad un rapporto continuativo con un’utenza disagiata. Due anni più tardi, Christina Maslach lo qualificava con maggiore precisione quale malattia professionale degli operatori della cura, individuabile tramite tre condizioni concorrenti: senso di esaurimento o debolezza affettiva (emotional exhaustion), depersonalizzazione (depersonalization), ridotto senso di riuscita professionale o ridotta efficacia professionale (reduced personal accomplishment or professional efficacy), condizioni ribadite da Maslach nel testo del 1982, divenuto un classico della letteratura sull’argomento .
Maslach ha messo a punto anche il diffuso questionario MBI-Maslach Burnout Inventory, più volte aggiornato e integrato , per misurare il grado di presenza, negli ambienti lavorativi, dei tre fattori determinanti della sindrome, che si manifesta con numerosissimi sintomi quali nervosismo, irrequietezza, apatia, indifferenza, cinismo, ostilità degli operatori socio-sanitari, fra loro e verso terzi, al pari delle patologie da stress, da cui però si distingue, così come non coincide con le varie forme di nevrosi, perchè il burnout non è tanto un disturbo della personalità quanto del ruolo lavorativo . Il job burnout è il segnale di un malesssere diffuso in un ambiente di lavoro, si esprime attraverso uno o più individui ma va compreso ed affrontato come un problema che coinvolge l’intera organizzazione in cui si manifesta .
La pandemia da COVID-19 e il post-covid hanno incrementato enormemente per gli operatori della cura il rischio di incappare nel burnout , esponendoli a una tensione senza precedenti a causa del carico di lavoro eccessivo e prolungato, dell’isolamento, dell’incertezza sui protocolli di gestione clinica e sulle misure di sicurezza . Lo stesso smart working, praticato durante il lockdown in molti ambiti lavorativi, nonostante l’accattivante denominazione, ha operato come fattore di distress, funzionale all’istaurarsi della sindrome lavorativa del burnout .
L’osservazione attuale ci conferma il trend, già messo a fuoco alla fine del ‘900 , che vede estendersi ad altri contesti organizzativi come p. es. le aziende produttive, l’applicabilità del costrutto job burnout, tradizionalmente riferito alle helping professions e ai contesti socio-sanitari ed educativi .
Del resto, ben prima che la pandemia da Covid-19 enfatizzasse ogni tipo di stress, individuale e collettivo, il mondo dell’organizzazione del lavoro (di aiuto, di servizio, dell’educazione, della produzione, della comunicazione ecc.) era in fibrillazione.
Nel passaggio al XXI secolo, si andava, infatti, profilando il superamento della società disciplinare, descritta da Michel Foucault , da parte della società della performance (Leistungsgesellschaft) , la quale, secondo il filosofo coreano Byung-Chul Han, comporta l’interiorizzazione da parte dei soggetti di quella “costrittività organizzativa” , che favorisce l’insorgere del job burnout come una vera e propria malattia contagiosa , che si propaga nell’intera organizzazione aziendale, coinvolgendo non solo gli operatori ma anche gli utenti. Infatti, osserva Han, poiché la crescente richiesta di incremento della produttività cozza con i limiti intrinseci al paradigma disciplinare, che, impostato sul “non potere” obbligato dall’esterno, blocca e inibisce ogni ulteriore aumento di produttività, il suo rimpiazzo con il paradigma positivo della prestazione e del poter-fare è stato inevitabile. In tale paradigma il soggetto di prestazione sperimenta il venir meno dell’istanza del dominio esterno, ma ciò non lo conduce affatto alla libertà; piuttosto, secondo il nuovo paradigma performativo assunto dall’inconscio sociale,

«il soggetto di prestazione si abbandona alla libertà costrittiva o alla libera costrizione, volta a massimizzare la prestazione. L’eccesso di lavoro e di prestazione aumenta fino all’autosfruttamento […] Le malattie psichiche della società della prestazione [come il job burnout] sono appunto le manifestazioni patologiche di questa libertà paradossale» .

Ad aggravare gli effetti di esaurimento e depersonalizzazione, indotti dall’interiorizzazione dell’istanza prestazionale e dal conseguente autosfruttamento , contribuisce anche, specie nei lavoratori più giovani e più motivati, quello che Arlie Russell Hochschild ha pionieristicamente individuato come “lavoro emozionale” , consistente nell’impegno di negoziazione interiore che si deve sostenere per adeguare ciò che si prova a ciò che l’organizzazione vuole che si mostri di provare. Tale lavoro emozionale ormai non è più richiesto alle sole helping professions, ma è fortemente caldeggiato ovunque si persegua la customer care, la customer satisfaction e il lavoro di squadra, cioè ovunque si applichino i nuovi modelli organizzativi neo-capitalisti per l’incremento della produttività.
In questo modo, il lavoratore o il professionista, che ha interiorizzato il paradigma sociale della prestazione e la connessa auto-costrittività organizzativa, si trova completamente alla mercè dell’organizzazione, la quale si ritiene che debba essere a tal punto capillarmente efficace ed efficiente, da sostituirsi, fino ad impedirla del tutto, a quella spontanea empaticità della relazione interpersonale che, ripristinando il vivo contatto interumano, offre agli operatori in esaurimento ricariche di umanità .

2. Ripristinare la viva esperienza intersoggettiva nel lavoro

Solo di recente si sta prendendo coscienza del corto circuito tra organizzazione del lavoro e prestazione lavorativa che, nella società della performance, sempre più spesso si verifica, a partire dalle helping professions ma in tendenziale estensione a tutte le situazioni lavorative. Sempre più evidente diventa quanto l’unilaterale focalizzarsi sulla dimensione tecnico-economica del lavoro e della relazione sociale produttiva, richiesto dal neo-capitalismo della globalizzazione, vada risultando gravemente controproducente proprio per il conseguimento di quei fini di incremento produttivo, per i quali lo si pone in essere.
Rilevanti sono, infatti, le conseguenze sull’ambiente organizzativo del job burnout che, oltre a impedire ai singoli di lavorare in modo sereno, può ostacolare sensibilmente il lavoro creativo e produttivo con i colleghi e con i clienti; tanto più che le persone colpite spesso non si dimettono, ma danneggiano l’organizzazione riducendo il loro impegno nel raggiungimento degli obiettivi organizzativi .
Dalla neutralizzazione della viva relazionalità interumana da parte di un’organizzazione del lavoro, che la considera di ostacolo all’incremento della produttività e della funzionalità lavorative, si sviluppa e si consolida, infatti, quel mismatch tra l’individuo e l’organizzazione che è considerato la principale causa del job burnout , al quale, tra l’altro, risultano più predisposti coloro che, in forza del loro idealismo, costituiscono le risorse di maggior valore in un’organizzazione .
Nel contesto dell’attuale orientamento interazionista delle scienze sociali, prevale, nella ricerca della prevenzione e della cura del job burnout, un modello di approccio integrato che considera che il job burnout nasce e si sviluppa solo attraverso l’effetto combinato di caratteristiche individuali, fattori interpersonali, ambientali e sociali, che interagiscono tra loro.
Si privilegia, tuttavia, un approccio empirico-pragmatico volto a cogliere la specificità dei contesti e delle singole situazioni all’interno delle quali può insorgere il fenomeno . Ciò è ovviamente legittimo e necessario ma non dovrebbe andare a scapito di un inquadramento di più vasto respiro, che è altrettanto auspicabile e indispensabile sia per le dimensioni epocali e la radicalità che la disaffezione al lavoro organizzato sta assumendo sia per l’esigenza di trovare una via d’uscita dal job burnout che non elimini un sano job engagement , indispensabile per ogni produttività che non voglia auto-esaurirsi.
Da questo punto di vista, la visione di Byung-Chul Han ci viene nuovamente in aiuto. Egli fa notare, infatti, che se nella società della prestazione, il soggetto sperimenta quel “non-essere-più-in-grado-di-poter-fare”, che lo conduce a «un’autoaccusa distruttiva e all’autoaggressione», questo senso di incapacità esaurente, che richiama i tre fattori codificati del job burnout, l’emotional exhaustion, la depersonalization/cynism e il reduced personal accomplishment o reduced professional efficacy, può anche evolversi in «una stanchezza del fare e del poter fare» , provvidenziale perché per suo tramite si riapre lo spazio delle relazioni spontanee e perciò si riprende la via della rinascita produttiva individuale e collettiva.
Quella che può subentrare all’esaurimento da prestazione lavorativa non stigmatizzato è, infatti, come nota ancora Byung-Chul Han sulla scorta di Peter Handke , una “stanchezza fondamentale” che «annulla l’isolamento egologico e fonda una comunità che non ha bisogno di parentele», perché vi «si risveglia un particolare ritmo che conduce a un’armonia, a una prossimità, a una vicinanza priva di ogni vincolo familiare, funzionale» .
Si prefigura, così, proprio come effetto dell’ascolto del messaggio profondo che proviene dall’esaurimento da lavoro, la possibilità di una società “completamenta stanca” e perciò del non-fare, nel cui contesto la società dell’azione può trovare ospitalità, mentre si rigenera per tornare a quell’ «adoperarsi in vista di un più di essere rispetto all’essere che si è già» , che è proprio dell’autentica prassi e di cui si avvantaggia enormemente anche la produttività sostenibile del lavoro, economicamente e organizzativamente ridotto, inventato dalla modernità .
È così, d’altro canto, ritirandosi temporaneamente nello spazio del non-fare, che molti lavoratori dipendenti hanno reagito all’eccesso di stressors nel lavoro, procurato dalla pandemia da COVID-19 e perdurante nell’immediato post-covid. Il fenomeno della Great Resignation parla da sé , insieme alla mole di dimissioni volontarie o richieste di pre-pensionamento che sta interessando gli operatori della sanità, specie dei servizi di emergenza, e gli insegnanti!
Perseguire il benessere del dipendente è diventata ora una priorità delle aziende, che hanno bisogno sia di trattenere le proprie risorse sia di attrarre talenti . Ma qual è il fattore basilare e irrinunciabile del benessere umano?

3. La viva relazione interpersonale ricostituente alla base del benessere nel lavoro

È lo sconcerto, suscitato dall’emergere di casi di job burnout tra le helping professions a spingerci sulle tracce della radice dell’umano benessere nel lavoro organizzato. Come può accadere, infatti, che l’umanità degli operatori si depauperi, fino a bruciarsi del tutto, proprio nell’esercizio delle professioni più filantropiche, di quelle che si fanno carico della cura dell’uomo nel completo ossequio alla ragione scientifica universale, teorica e pratica?
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo risalire alla natura della filantropia, costrutto moderno che «ottenne espressione filosofica e formulazione soprattutto nei circoli positivisti, a cominciare da A. Comte», al quale si deve il termine «altruismo» . Poiché «ama il singolo solamente come “esemplare” del genere “uomo”» , peraltro ridotto a somma di individui interscambiabili e sostituibili, sulla base del meccanicismo moderno esteso ai rapporti psicologici e sociali, la filantropia prescrive di salvaguardare l’umanità, attenendosi esclusivamente ai dettati della pura ragione scientifica, l’unica che, organizzando i saperi e le pratiche secondo la più completa impersonalità e oggettività, può garantirci l’universale valore umano dei nostri atti, preservandoci anche dall’ ombra del soggettivismo.
Tuttavia, è proprio dall’instaurarsi, a livello dei criteri dell’ organizzazione sociale e del lavoro, di una tale unilateralità oggettivante, che si produce quella conseguenza estraniante, elementare ed ovvia, e forse per questo poco considerata, per cui anche la migliore visione e più efficace organizzazione producono effetti disumanizzanti, se applicate a prescindere e in disconnessione dalla personale e attiva partecipazione motivazionale di ciascun agente umano, così ridotto, invece, a entità depersonalizzata e meramente esecutiva.
Da buoni eredi della filantropia moderna, anche noi, però, per ogni livello di trattamento dell’umano, professionale e non, preferiamo disimpegnarci soggettivamente per rivolgerci a strumenti oggettivanti: saperi e prassi di efficacia operativa statisticamente confortata, scienze (umane, mediche, economiche, politiche) protocollate, codici etici, procedure organizzative standardizzate.
Il risultato paradossale è che più affrontiamo con questi mezzi il disagio antropologico da job burn-out, più la problematica permane, anzi, si espande, come se fossero i rimedi stessi che applichiamo a rendere «saturato lo spazio, in cui prendono forma le relazioni concretamente vissute», togliendo la «consistenza reale dell’incontro, sempre diverso e sempre avventuroso, con l’altro» e veicolando, perciò, la diffusione dello specifico male, che affligge il lavoro, di cura e non solo, e provoca nell’operatore il distacco dall’umano suo e degli altri.
Poca attenzione prestiamo a «sentire l’altro» in noi (=empatia o intro-patia) , sebbene, proprio in tale funzione di “metterci nei panni degli altri”, l’antropologo evoluzionista Michael Tomasello abbia identificato il fattore moltiplicatore del meccanismo biologico della trasmissione culturale, che ha filogeneticamente consentito al genere homo di evolversi nel tempo relativamente breve di 1.800.000 anni fino al livello dell’homo sapiens e poi di progredire, in soli 200.000 anni, dall’età della pietra all’oggi dei computers. Tuttora, del resto, l’essere coinvolti in relazioni empatiche consente ai neonati umani di svilupparsi in pochi mesi dalla condizione di individui sottocorticali allo stato di soggetti culturali. Gli uomini, infatti, non solo imparano dagli altri, come i primati non umani, ma hanno la possibilità specie-specifica di incrementare esponenzialmente le loro competenze cognitive e affettive, apprendendo “attraverso” gli altri, al cui invisibile mondo intenzionale possono accedere per arricchire la propria esperienza e anche trovare ristoro all’esaurimento morale.
La stessa antropologia e sociologia novecentesche, con Bronislaw Malinowski ed esponenti della School of Chicago, hanno evidenziato che l’osservazione distaccata, posta alla base delle scienze, è insufficiente quando si ha a che fare con l’umano. In questo caso, essa va non solo contestualizzata nell’ambito della “osservazione partecipante”, secondo la locuzione coniata dal sociologo americano Joseph Lohman nel 1936, ma addirittura, seguendo l’aggiornamento che dell’espressione ha offerto James Clifford , va immersa nella “osservazione con-partecipata” che è creatrice di quel comune contesto comunicativo di significati condivisi.

4. Conclusione

A svolgere un ruolo cruciale nella prevenzione e nell’affronto del rischio di job burn-out che incombe sul mondo del lavoro di aiuto e produttivo, è dunque l’empatia ovvero quella relazione, spontanea e immediata, con cui le persone entrano in contatto. Nella società della prestazione essa è, purtroppo, spesso vissuta nelle forme degradate o disturbate del contagio empatico o dell’empatia esteriorizzata e doverosa , quando non se ne è addirittura persa l’accessibilità coscienziale in conseguenza paradossale del fatto per cui «l’esistenza degli altri, l’essere insieme, la pluralità è diventato un dato di senso comune» , mentre è vero il contrario perché «occorre istituire sempre di nuovo il senso dell’essere-in-comune così come dell’essere-in-relazione» .
L’organizzazione del lavoro può promuovere tale continua nuova istituzione dell’essere-in-relazione e predisporre al suo interno tempi e spazi in cui ospitare il compimento e la metabolizzazione di quegli atti empatici che preservano dal job burnout.
Direttive in questo senso sono già state diramate nelle aziende . Sono anche state prese iniziative, p. es. impostando tempi di prestazione meno convulsi, consentendo una gestione autonoma degli orari che favorisca un maggiore equilibrio vita-lavoro, limitando i turni prolungati, implementando l’autogestione dei team e addirittura «la formazione dei responsabili sulla leadership empatica, che li incoraggi a interagire regolarmente con i dipendenti piuttosto che durante i check-in superficiali» .
Dal punto di vista del curriculum formativo, la ripresa di consapevolezza della capacità empatica p.es. tra i professionisti delle helping professions sarà favorita da un piano di studi culturalmente ricco, oltrechè altamente specializzato. Potranno trovarvi spazio, accanto alle scienze umane e mediche, anche discipline umanistiche, quali quelle filosofiche, antropologiche, storico-letterarie e di belle arti: il loro apprendimento moltiplicherà, infatti, il contatto con esperienze vissute e con la ricerca del senso umano di esse; inoltre, la pratica del bello promuoverà il contenimento della razionalità strumentale, oggi dilagante. Molto importante sarà anche l’ampliamento della configurazione dei rapporti docente-discente nella forma del “fare-con”, in cui cioè insegnamento e apprendimento non si riducano alla sola mediazione intellettuale, ma attraverso l’esempio possano investire una più ampia dimensione umana.
Ciò che però è davvero indispensabile è che qualunque iniziativa o direttiva non resti confinata, finalisticamente, nell’ambito strategico del mero aumento della produttività, cioè ancora una volta su scopi esclusivamente materiali e oggettivi. Questi potranno certamente arrivare ma come conseguenza di una ultima funzionalizzazione dell’organizzazione del lavoro a tutti i livelli (proprietari, manager, lavoratori, professionisti, stakeholders), al benessere umano e alla generatività non illusoria, che ne deriva.

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