TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA


1. Premessa.
Con i decreti che si commentano, il Tribunale di Milano, sezione misure di prevenzione, ha sottoposto ad amministrazione giudiziaria due note aziende operanti nel settore della logistica. Essi si segnalano non solo perché, in una prospettiva sociologica e criminologica, contribuiscono a svelare i lati oscuri di una realtà per molti quotidiana e familiare, qual è quella del trasporto e della consegna a domicilio delle merci , ma, da una visuale strettamente normativa, soprattutto per il fatto di essere espressione di un orientamento giurisprudenziale, particolarmente radicato nella sede giudiziaria ambrosiana , che ha progressivamente finito per individuare nella misura di cui all’art. 34 D. Lgs. 6 settembre 2011, n. 159 il principale strumento di contrasto alla criminalità di impresa e, in particolar modo, al caporalato e allo sfruttamento del lavoro.
Si tratta, in altri termini, di provvedimenti che, animati dall’apprezzabile intento di realizzare un ragionevole equilibrio fra istanze punitive proprie della repressione penale, da un lato, e logiche di riconduzione delle attività imprenditoriali nell’alveo dell’economia legale, dall’altro, si prestano ad illustrare plasticamente le ragioni della maggiore fortuna che il mezzo preventivo ha riscosso, anche al prezzo di alcune forzature interpretative, rispetto agli strumenti tipici del processo penale contro le persone fisiche e de societate .
2. I fatti.
Le vicende che stanno alla base dei provvedimenti in commento sono in buona parte sovrapponibili, e così di seguito riassumibili nei loro tratti essenziali. Entrambe le società destinatarie dei provvedimenti in esame avevano stipulato con cooperative e consorzi dei contratti fittizi di appalto al solo fine di coprire un reale contratto di somministrazione di manodopera illegale, in quanto realizzata al di fuori dei casi previsti dalla legge (artt. 4 e 18 D. Lgs. 10 settembre 2003, n. 276). Tale stratagemma era funzionale a creare le condizioni per consentire tanto alle società committenti, quanto alle appaltatrici di ottenere vantaggi economici illeciti . Le prime, infatti, erano in grado di praticare prezzi competitivi sul mercato, dal momento che riuscivano ad abbattere i costi connessi all’assunzione di manodopera e, allo stesso tempo, potevano indebitamente fruire di detrazioni IVA, indicando nella relativa dichiarazione, quali elementi passivi, fatture per operazioni in realtà soggettivamente inesistenti, emesse dalle società appaltatrici ; queste ultime, invece, spesso amministrate dagli stessi soggetti, personalmente o per interposta persona, omettevano il versamento delle imposte, ovvero compensavano il debito tributario con crediti inesistenti. Dalle indagini condotte dalle autorità inquirenti è, in particolare, emerso che dette ultime società costituivano, nei fatti, meri “serbatoi di personale” che venivano sistematicamente e periodicamente messi in liquidazione; i loro dipendenti venivano assunti da altre cooperative all’uopo costituite (c.d. transumanza dei dipendenti); mentre la liquidità residua – spesso derivante dall’omesso adempimento di obblighi fiscali o contributivi – veniva trasferita all’estero in paradisi fiscali e successivamente reimpiegata in vari modi .
A seguito di un esposto presentato dalle rappresentanze sindacali dei lavoratori coinvolti, gli inquirenti hanno, inoltre, potuto far luce sulle condizioni lavorative cui venivano sottoposti i corrieri. Si è scoperto, infatti, che molti di questi ultimi, pur formalmente dipendenti delle cooperative o dei consorzi appaltatori, lavoravano, di fatto, sotto il controllo diretto della società appaltante. Quest’ultima, per mezzo dei propri responsabili e capi area, poneva in essere condotte riconducibili, secondo l’impostazione fatta propria dall’organo proponente, a fenomeni di caporalato e di sfruttamento del lavoro (art. 603-bis c.p.) , e in particolare, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori, esigeva da loro il versamento di un corrispettivo per l’acquisto degli strumenti di lavoro; ometteva di fornire la prescritta formazione in tema di sicurezza; non riconosceva la tredicesima, né la retribuzione delle ferie; tratteneva indebitamente parte dello stipendio; imponeva una periodica migrazione degli autisti da una società cooperativa all’altra, per mezzo di dimissioni volontarie, con conseguente perdita degli scatti di anzianità; e infine, in taluni casi, retribuiva la prestazione lavorativa attraverso il sistema del cottimo , ovverosia sulla base del numero delle consegne effettuate .
3. L’amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche e delle aziende ex art. 34 D. Lgs. 6 settembre 2011, n. 159.
Per una migliore comprensione dei passaggi principali dei provvedimenti emessi dal Tribunale di Milano pare opportuno dar conto, seppur in modo sintetico, dell’evoluzione della disciplina dell’amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche e delle aziende di cui all’art. 34 D. Lgs. 6 settembre 2011, n. 159.
La misura in esame rinviene il proprio più diretto precedente storico nella sospensione temporanea dell’amministrazione dei beni, così come introdotta, in seno agli artt. 3-quater e 3-quinquies l. 31 maggio 1965, n. 575, dal D.L. 8 giugno 1992, n. 306 conv. con mod. l. 7 agosto 1992, n. 356, che consentiva al Tribunale, in presenza di sufficienti elementi per ritenere che il libero esercizio di attività economiche, comprese quelle imprenditoriali, agevolasse l’attività delle persone nei confronti delle quali fosse stata proposta o applicata una delle misure di prevenzione di cui all’art. 2 l. 31 maggio 1965, n. 575, ovvero di persone sottoposte a procedimento penale per taluno dei delitti previsti dagli artt. 416-bis, 629, 630, 644, 648-bis e 648-ter c.p., di disporre la sospensione temporanea dall’amministrazione dei beni utilizzabili, direttamente o indirettamente, per lo svolgimento delle predette attività .
L’approvazione del D. Lgs. 6 settembre 2011, n. 159 ha poi determinato, pur lasciando invariati i presupposti, un circoscritto, ma significativo mutamento dell’istituto, che da misura sospensiva ha preso la denominazione di amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche .
Solo, però, con le modifiche apportate dalla l. 17 ottobre 2017, n. 161 , l’art. 34 D. Lgs. 6 settembre 2011, n. 159 ha assunto la sua formulazione vigente, in base alla quale, per quanto qui di interesse, può essere disposta l'amministrazione giudiziaria delle aziende o dei beni utilizzabili, direttamente o indirettamente, per lo svolgimento delle attività economiche quando, a seguito di accertamenti patrimoniali effettuati a vario titolo, sussistono sufficienti indizi per ritenere che il libero esercizio di determinate attività economiche, comprese quelle di carattere imprenditoriale, sia direttamente o indirettamente sottoposto alle condizioni di intimidazione o di assoggettamento previste dall'articolo 416-bis c.p. o possa comunque agevolare l’attività di persone nei confronti delle quali è stata proposta o applicata una delle misure di prevenzione personale o patrimoniale previste dagli artt. 6 e 24 D. Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, ovvero di persone sottoposte a procedimento penale per taluno dei delitti di cui all'art. 4, comma 1, lett. a, b e i-bis, del medesimo decreto, ovvero per i delitti di cui agli artt. 603-bis, 629, 644, 648-bis e 648-ter c.p., e non ricorrono i presupposti per l’applicazione del sequestro e della confisca di cui agli artt. 20 e 24 D. Lgs. 6 settembre 2011, n. 159.
La misura, ai sensi dell’art. 34, comma 2 D. Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, può essere adottata per un periodo non superiore all’anno con possibilità di proroga di ulteriori sei mesi e fino ad un massimo di due anni, qualora si evidenzi la necessità di completare il programma di sostegno e di aiuto dell’impresa amministrata e di eliminare le situazioni che avevano determinato l’applicazione dello strumento de quo, sulla base di quanto indicato nella relazione all’uopo redatta dall’amministratore giudiziario .
Quanto alle attribuzioni di quest’ultimo, si prevede che egli eserciti tutte le facoltà spettanti ai titolari dei diritti sui beni e sulle aziende oggetto della misura e, nel caso di imprese esercitate in forma societaria, i poteri spettanti agli organi di amministrazione e agli altri organi sociali secondo le modalità stabilite dal Tribunale, tenuto conto delle esigenze di prosecuzione dell’attività di impresa .
Si tratta, quindi, di un istituto pensato per sottrarre le aziende dall’influenza criminosa e riallinearle al contesto economico legale in due ipotesi differenti. Fermo restando, infatti, che in ogni caso non devono sussistere i presupposti per l’adozione di una misura di ablazione patrimoniale (sequestro o confisca), l’amministrazione giudiziaria può essere disposta: quando l’attività economica sia direttamente o indirettamente sottoposta alle condizioni di assoggettamento o di intimidazione di cui all’art. 416-bis c.p. (c.d. ipotesi dell’impresa vittima), ovvero quando essa possa agevolare l’attività dei soggetti rientranti nelle categorie indicate dallo stesso art. 34 D. Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, sopra richiamate (c.d. ipotesi dell’impresa agevolatrice) .
Concentrando l’attenzione su quest’ultima fattispecie, in quanto destinata a venire in rilievo nel caso in esame, va sottolineato come essa presenti qualche profilo di sovrapposizione con altri strumenti lato sensu penalistici. Come sottolineato in dottrina, l’agevolazione di un soggetto proposto per una misura di prevenzione ovvero indagato di delitto potrebbe, infatti, integrare condotte penalmente rilevanti a titolo di favoreggiamento personale o reale (artt. 378 e 379 c.p.), ovvero di concorso nel reato principale (art. 110 c.p.), con conseguente possibilità di sottoporre l’imprenditore a misura di prevenzione o a procedimento penale, e l’azienda, ricorrendo tutte le condizioni previste, al commissariamento giudiziario ai sensi dell’art. 45 D. Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 .
Proprio al fine di distinguere le ipotesi di responsabilità penale da quella di agevolazione rilevante ex art. 34 D. Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, la giurisprudenza di merito – e in particolare quella milanese – ha elaborato un criterio discretivo imperniato sul titolo soggettivo della rimproverabilità della condotta dell’ente . Al riguardo si sostiene che, per l’applicazione dell’amministrazione giudiziaria, l’attività agevolatrice debba essere censurabile solo sul piano della colpa, consistente nella «violazione di normali regole di prudenza e buona amministrazione imprenditoriale che la stessa società si sia data (magari dotandosi di un codice etico) o che costituiscano norme di comportamento esigibili sul piano della legalità», senza che però venga raggiunto lo stadio della consapevolezza piena della relazione di agevolazione, essendo tale ultimo caso riconducibile, «nella cornice dolosa del diritto penale, ad ipotesi concorsuali o, quantomeno, favoreggiatrici» .
In altri termini, la giurisprudenza ritiene applicabile l’amministrazione giudiziaria, nell’ipotesi della c.d. impresa agevolatrice, ove la condotta di agevolazione da parte della società – da valutare alla luce dei comportamenti posti in essere dalle persone fisiche dotate di potere di decisione, rappresentanza e controllo – sia negligente, imprudente, ovvero imperita. In siffatto contesto l’adottabilità della misura de qua , si presta, infatti, a rappresentare lo strumento necessario e sufficiente per un intervento giudiziale in grado di costruire modelli di governance imprenditoriale tali da prevenire «futuri incidenti di commistione attraverso la realizzazione di condotte, anche dei singoli, che non possano essere censurate su un piano della negligenza e dell’imperizia professionale» .
4. L’applicazione della misura nel caso di specie: la valutazione sull’esistenza dei presupposti.
Pare giunto il momento di concentrare l’attenzione sulle valutazioni fatte dal Tribunale di Milano nei provvedimenti in commento. Al riguardo vale la pena innanzitutto segnalare come all’interno delle motivazioni dei decreti – dopo un richiamo alle coordinate interpretative fissate in alcuni precedenti specifici – si siano ritenuti sussistenti, in ambedue le vicende in esame, i presupposti per l’applicazione dell’amministrazione giudiziaria, ovverosia l’assenza delle condizioni per l’adozione di una misura preventiva e la condotta di agevolazione dei soggetti indicati nell’art. 34 D. Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, dedicando la maggior parte delle riflessioni proprio a quest’ultimo aspetto.
In tale prospettiva, con riferimento ad entrambe le società proposte, i giudici milanesi sostengono che esse, stipulando fittizi contratti di appalto con consorzi e cooperative dediti ad una sistematica evasione dell’IVA e alla conseguente “ripulitura” dei proventi così illecitamente ottenuti, avrebbero posto in essere condotte agevolatrici le attività dei rappresentanti legali di detti enti, i quali risultano indagati per i reati di cui agli artt. 648-bis e 648-ter c.p.
Sul piano della rimproverabilità soggettiva, si sostiene, inoltre, che le società committenti avrebbero colposamente alimentato il meccanismo fraudolento, non avendo esse adottato presidi organizzativi interni tali da prevenire il rischio di agevolazione di soggetti che «fondano l’intera attività economica su illeciti di carattere strutturale» . Omissione che, secondo l’impostazione fatta propria dal Tribunale di Milano, sarebbe motivata dall’adesione dei vertici aziendali a logiche di massimizzazione del profitto, anche al prezzo di una mancanza di controllo nei confronti dei propri fornitori.
Con specifico riguardo alla vicenda che vede coinvolta B. S.p.A., si sottolinea altresì come anche in questo caso l’assenza – o la superficialità – colposa dei presidi di verifica dei contratti di appalto stipulati con le società fornitrici di manodopera abbia agevolato queste ultime, permettendo loro di procedere, impunemente, a sottopagare i lavoratori, a non rispettare i contratti di lavoro, a non versare i contributi e a omettere gli adempimenti fiscali previsti dalla legge – condotte in relazione alle quali risultano pendenti procedimenti penali per il reato di cui all’art. 603-bis c.p. – .
5. (segue): principio di proporzionalità e modalità esecutive della misura.
Accertati i presupposti applicativi, il Tribunale di Milano passa alla definizione delle concrete modalità esecutive della misura, sotto la guida del canone di proporzionalità che, instaurando una relazione di corrispondenza fra situazione concretamente accertata e afflittività dello strumento applicando, rappresenta un principio di sistema dell’ordinamento costituzionale italiano . In questa prospettiva si sostiene che l’art. 34 D. Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, là dove precisa che l’amministratore giudiziario può esercitare i poteri spettanti agli organi di amministrazione e agli altri organi sociali secondo le modalità stabilite dal Tribunale, consentirebbe un intervento giudiziale nell’amministrazione societaria modulabile in ragione del grado di infiltrazione delittuosa; del settore societario contaminato in rapporto alle dimensioni della società; della necessità di tutela della continuità aziendale e dell’occupazione; nonché degli specifici obiettivi di bonifica dell’azienda.
Così, accanto a forme di impossessamento quasi integrale dell’impresa, il dato normativo di riferimento consentirebbe al giudice – secondo questo schema di pensiero – di modellare la misura in modo tale da consentire un controllo giudiziale sugli organi gestori in relazione a determinati rami di attività appositamente individuati, lasciando l’ordinario esercizio di impresa in capo alla governance societaria .
In applicazione di tali princìpi interpretativi, la scelta del Tribunale di Milano è ricaduta, in ambedue i casi, su di una conformazione dello strumento preventivo in chiave di dispositivo orientato all’affiancamento e non alla sostituzione del management aziendale, nella prospettiva della riconduzione delle società nell’alveo dell’economia legale, ovverosia, detto diversamente, volto alla rimozione delle situazioni di fatto e di diritto che hanno determinato l’adozione della misura.
A tal fine viene assegnato all’amministratore giudiziario il compito di analizzare i contratti in corso con le società fornitrici di manodopera con l’obiettivo di procedere ad una loro revisione e, per l’effetto, ridurre progressivamente il ricorso all’esternalizzazione della forza lavoro; di sottoporre a verifica e, se del caso, a implementazione l’idoneità dei modelli organizzativi di cui all’art. 6, comma 2 D. Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 a prevenire il coinvolgimento delle società proposte in ulteriori attività illecite e, in particolar modo, in condotte riconducibili allo sfruttamento lavorativo e al riciclaggio o reimpiego illecito di risorse da parte delle appaltatrici; e, infine, a rafforzare i presidi di controllo interno, sulle procedure di scelta dei fornitori, ed esterno, ovverosia sul rispetto da parte di questi ultimi della normativa di settore, nonché degli obblighi fiscali e previdenziali nell’ottica di tutela dei lavoratori.
Con specifico riferimento alla misura applicata a B. S.p.A., il Tribunale ha poi cura di specificare che l’intervento dell’amministratore giudiziario si deve sostanziare in plurime e diverse attività, e in particolare nell’affiancamento della società nella bonifica dei settori societari inquinati, estendendo l’osservazione a tutti i siti lavorativi per verificare se esistano altre forme di sfruttamento di manodopera e di transumanza dei lavoratori; nell’assunzione di informazioni necessarie ai fini di un’eventuale estensione del perimetro di azione dell’amministrazione giudiziaria; e nello svolgimento di una funzione di temporaneo «”tutoraggio” del consiglio di amministrazione della società, volta ad assicurare la piena efficacia e l’implementazione delle eventuali modifiche al modello di organizzazione, gestione e controllo previsto dal d. lvo. n. 231/2001 nello specifico settore di intervento della misura» .
6. I provvedimenti sotto obiettivo: molte luci.
Volendo ora passare a una analisi critica delle decisioni in commento, non si piò non cogliere, nelle posizioni assunte dal Tribunale nel caso di specie, accanto a molte luci, anche qualche ombra.
Partendo dalle prime, va innanzitutto messo in evidenza come i provvedimenti in rassegna rappresentino il segnale della capacità della magistratura, e di quella milanese in particolare, di portare alla luce forme di sfruttamento lavorativo di difficile emersione perché nascoste dietro il vetro opaco dell’abuso dell’esternalizzazione di funzioni o di processi produttivi, pratica sempre più frequente nell’esperienza economico-imprenditoriale contemporanea . In questo senso, le due pronunce confermano l’esistenza di una forte connessione fra condotte riconducibili al reato di cui all’art. 603-bis c.p. e ipotesi di evasione fiscale e/o contributiva, tanto che entrambe le vicende in esame prendono le mosse proprio da indagini relative a illeciti in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto previsti dal D. Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 . Tale legame – insieme con altri fattori – contribuisce, peraltro, a rinsaldare l’idea che il caporalato sia un fenomeno che, trascendendo la dimensione dell’illecito perpetrato dalla singola persona fisica, finisce per costituire l’anello più basso di una catena produttiva che, allungandosi talvolta fuori misura, favorisce la realizzazione delle condizioni atte tanto alla sottoposizione della manodopera a condizioni di sfruttamento, quanto all’aggravamento della difficoltà nell’identificazione delle responsabilità penali individuali per l’imposizione di rapporti di lavoro vessatori e per le elusioni degli obblighi fiscali . Di qui l’opportunità di adottare, nella strategia di contrasto, un approccio bifocale, che tenga conto, oltre che della necessità di repressione della criminalità, anche delle esigenze di salvaguardia della continuità aziendale e dell’occupazione.
In questa prospettiva si comprende – passando ad un secondo profilo di pregio dei provvedimenti in commento – l’importanza della lettura evolutiva data alla misura dell’amministrazione giudiziaria da parte del Tribunale di Milano: oltre che sul piano della ricostruzione della natura dello strumento in parola in chiave di «moderna messa alla prova aziendale […] finalizzata ad affrancare l’impresa da relazioni (interne ed esterne) patologiche» , di cui si è già detto , l’approccio della magistratura lombarda si lascia apprezzare anche sul terreno della concreta sagomatura delle modalità applicative, imperniata, fra l’altro, sull’adozione di un efficace modello di organizzazione, gestione e controllo ex art. 6 D. Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 .
E proprio questo innesto di elementi appartenenti all’esperienza della responsabilità da reato degli enti sul corpo della prevenzione patrimoniale non solo risulta legittimo, considerata l’ampiezza dei poteri attribuibili all’amministratore ai sensi dell’art. 34, comma 3 D. Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, ma anche opportuno nell’ottica di trarre utili insegnamenti dalle best practices elaborate nell’ambito della costruzione e della valutazione giurisprudenziale di idoneità dei modelli di organizzazione nei processi de societate , con conseguente massimizzazione della valenza preventiva della misura .
Così, limitandoci in questa sede ad indicare linee generali di intervento funzionali alla costruzione di un modello idoneo a prevenire il rischio di commissione di condotte penalmente rilevanti ex art. 603-bis c.p., tanto da parte degli organi delle società proposte, tanto dai fornitori, l’esperienza maturata nel contesto della responsabilità amministrativa degli enti ai sensi del D. Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 induce a ritenere che l’operazione di mappatura dei rischi debba concentrarsi, in via principale, sul settore delle risorse umane, e in particolare sulla selezione e sull’assunzione del personale, nonché sul processo di approvvigionamento, dedicando una speciale attenzione al controllo della qualifica e della reputazione dei fornitori e dei partners commerciali . A quest’ultimo riguardo, poi, l’attenzione dovrebbe essere posta non solo sulla regolamentazione dei rapporti con le società appaltatrici , ma altresì sulla disciplina delle «condizioni di lavoro, anche in relazione a manodopera di terzi che svolge attività presso i siti aziendali sulla base di contratti di appalto» .
7. (segue): e qualche ombra.
Come accennato, i provvedimenti in commento presentano anche alcune zone d’ombra sulle quale vale la pena soffermarsi.
In particolare, dall’esame del decreto relativo al caso che vede coinvolta B. S.p.A., e nello specifico della parte ove si dà conto dell’esposto presentato dalle rappresentanze sindacali dei lavoratori, sembrerebbe, infatti, che la società non si limitasse ad una mera agevolazione colposa dell’attività di sfruttamento perpetrata dai fornitori di forza lavoro, ma – in taluni casi – esercitasse de facto prerogative datoriali nei confronti dei lavoratori (pur formalmente dipendenti da altri soggetti intermediari) . Si vuol dire, in altri termini, che non sarebbe implausibile pensare di ricondurre l’agito della società nel caso di specie, anziché all’ipotesi dell’impresa semplicemente agevolatrice, a quella del soggetto beneficiario ultimo (e consapevole) della prestazione lavorativa offerta in condizioni di sfruttamento.
Si è consapevoli di muoversi su un terreno estremamente scivoloso. Al riguardo, è noto come, con riferimento a situazione analoghe a quella appena descritta, non vi sia unità di vedute circa il corretto strumento di contrasto da mettere in campo, se è vero che la stessa dottrina risulta divisa fra coloro i quali ritengono che in simili evenienze, vi siano tutte le condizioni richieste per portare a un’incolpazione diretta, o per concorso, dei vertici aziendali per il delitto di cui all’art. 603-bis, comma 1, n. 2 c.p. e dell’ente ex art. 25-quinquies D. Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 , con conseguente possibilità di utilizzare i congegni ablativi in tali sedi previsti , e quanti, al contrario, con un approccio più rigoristico, escludono che possa rinvenirsi nel nostro sistema penale «una fattispecie autonoma per colui che benefici consapevolmente del lavoro in condizione di sfruttamento» .
Stando così le cose, si finisce per comprendere la soluzione interpretativo-applicativa assunta dal Tribunale di Milano riguardandola a guisa di un tentativo di superare, anche al prezzo di una leggera forzatura dei fatti, la difficoltà ermeneutica ed investigativa di individuare, in un contesto fortemente caratterizzato da fenomeni di frammentazione del processo produttivo e di outsourcing, un centro di imputazione del rimprovero penale, al fine di dare una risposta alla richiesta di tutela del caso concreto.

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