Testo integrale con note e bibliografia

Questo che stiamo vivendo è un autunno decisamente caldo e non solo per il clima ma anche per i temi roventi legati al mondo del lavoro, fomentati dalle forze politiche tutte. Finalmente le sinistre fanno “qualcosa di sinistra”, direbbe Nanni Moretti. 

Molte le dichiarazioni rilasciate da parlamentari. Ma i più parlano senza avere alcuna cognizione di causa e la demagogia, da ambo le parti, tiene banco assoluto.

Il tema più caldo è il salario minimo. Da fissare per legge, secondo la proposta delleopposizioni (Italia Viva a parte); da lasciare nelle mani della contrattazione collettiva, secondo le forze di governo.

Ai tanti contributi che sono stati scritti e si scriveranno su questo argomento, aggiungo qualche riflessione e qualche provocazione.

Partiamo da un assunto di base: tutti siamo consapevoli che i salari in Italia sono bassi e in alcuni casi, pur nel rispetto della contrattazione collettiva, lasciano i lavoratori economicamente sotto la soglia di povertà (c.d. lavoro povero).

Su questo tema così delicato sia giuridicamente, sia, soprattutto, socialmente, farò delle semplificazioni per le quali mi scuso sin d’ora. La mia intenzione infatti non è quella di proporre un saggio giuridico, altri lo faranno meglio di me, ma di fornire alcuni spunti di riflessione che devono servire a portarci fuori da questa fase del tutto ideologica/demagogicao – coniando un neologismo – “idemagogica”, che non risolve di certo il problema legato al salario sufficiente.

Procediamo con ordine. L’art. 36 Cost. enuncia il principio della sufficienza retributiva, ma nessuna legge ha mai stabilito quale dovesse essere il limite al di sotto del quale la retribuzione diventa insufficiente per “assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Tutto è stato lasciato nelle mani della magistratura che, in maniera suppletiva, ha stabilito un principio di diritto secondo il quale è sufficiente quella retribuzione che non sia inferiore a quella prevista dalla contrattazione collettiva, comparativamente maggiormente più rappresentativa, del settore merceologicodi appartenenza dell’impresa. E questo è il problema centraleperché nessuno sa quali sianoi soggetti maggiormente rappresentativi (sindacati dei lavoratori e organizzazioni imprenditoriali) titolati a negoziare contratti di riferimento per la retribuzione sufficiente.

Da qui nasce il fenomeno del c.d. “dumping contrattuale” che, in otto anni, ha visto la contrattazione collettiva nazionale proliferare talmente tanto da portare il numero di contratti nazionali da 498 (2010) a 884 (settembre 2018). Questi i dati non recentissimi diffusi dal Cnel e, al 30 giugno 2023, sempre il Cnel, nel suo 17° Report,

ha comunicato che i contratti collettivi nazionali sono ben 1.037. Quindi in 13 annisi è giunti al 208,23%. 

In alcuni settori si registrano incrementi inimmaginabili. Solo alcuni esempi deiCcnl più diffusi:

Ccnl Commercio da 91 a 213 (234,07%)

Ccnl Meccanici da 11 a 31 (281,82%)

Ccnl Edilizia da 28 a 68 (242,86%).

In questi anni abbiamo visto nascere diverse nuove organizzazioni sindacali e soprattutto imprenditoriali. Sottoscrivere un contratto collettivo nazionale dà tanti vantaggi: si incassano e si gestiscono quote per gli enti bilaterali, si costituiscono fondi di assistenza e previdenza, si possono istituire commissioni di certificazione dei contratti di lavoro di conciliazione delle controversie di lavoro, e così via. Si badi bene però: ci sono contratti collettivi stipulati dalle “presunte” OO.SS. maggiormente comparativamente più rappresentative che non hanno nulla da invidiare ai c.d. contratti pirata. Quindi pirata è chi toglie o non protegge diritti, indipendentementese è rappresentativo o meno.

Infatti, dallo studio portato a termine dalla Fondazione Consulenti del Lavoro di Milano, è emerso che su 71 CCNL analizzati, presi dall’archivio CNEL, di cui 62 sottoscritti dai sindacati confederali e 9 sottoscritti dai non confederali, emerge che:

almeno il 56% dei contratti ha dei livelli contrattuali inferiori a 9 euro se non consideriamo gli scatti e il TFR; 
almeno il 50% dei contratti ha dei livelli contrattuali inferiori a 9 euro se consideriamo uno scatto e non il TFR;
almeno il 35% dei contratti ha dei livelli contrattuali inferiori a 9 euro se consideriamo uno scatto ed anche il TFR.

Questo a conferma che i bassi salari si trovano in tutti i contratti collettivi indipendentemente dalle organizzazioni sottoscrittrici.

Ora, se in 75 anni dal varo della nostra Costituzione non è stato possibile stabilire i criteri della rappresentanza (colpa, a parere di chi scrive, soprattutto delle parti sociali), delle due l’una: o si impone ai sindacati la registrazione con l’assunzione di uno statuto a base democratica (ex art. 39 Cost.) in modo da poter sottoscrivere contratti a valenza universale, oppure bisogna stabilire per legge un salario minimo. 

Le formule possono essere tante per salvaguardare la contrattazione collettiva. Non

c’è nulla di scandaloso se si prevedesse che il salario sufficiente è quello previsto dalla contrattazione collettiva, maggiormente comparativamente più rappresentativa, ma che comunque non può scendere sotto una determinata soglia (7, 8, 9, 10 euro poco importa)

Nessuno si è scandalizzato: 

a) quando le ferie sono state fissate per legge in 4 settimane per anno nel 2004.Questa previsione normativa non ha tolto la possibilità alla contrattazione collettiva di prevedere maggiori giornate di ferie rispetto alla legge oppure farcrescere i permessi per riduzione dell’orario di lavoro o per compensare le aboliteex festività civili e religiose;

b) quando l’orario normale di lavoro settimanale è stato rimesso nelle mani dellacontrattazione collettiva e, solo in assenza di disposizioni contrattuali, la legge neha stabilito la durata normale in 40 ore settimanaliIdem dicasi per il limite allavoro straordinario e per i riposi;

c) quando la retribuzione minima ai fini contributivi e pensionistici è stata stabilitaper legge, sin dal lontano 1989.

La retribuzioneminima per legge soltanto ai fini previdenziali è davvero paradossale. La retribuzione contrattuale può ad esempio prevedereun salario giornaliero di € 40,00 (1.040,00 euro mensili, dati dal prodotto di 40,00 € x 26 giorni), ma la contribuzione previdenziale deve essere calcolata e versata su un salario non inferiore a € 53,95 (1.402,70 euro mensili, dati dal prodotto di 53,95 € x 26 giorni.Così prevede la legge). In sostanza abbiamo già un minimo retributivo orariopari a € 8,09 euro (53,95 € x 6 giorni settimanali: 40 ore settimanali) ma soloper pagare la contribuzione (soprattutto ai fini pensionistici visto che la maggiore aliquota contributiva stabilita per tuttii lavoratori è pari al 33% di cui il 9,19 a carico del lavoratore il quale, dopo una determinata soglia, versa una contribuzione aggiuntiva dell’1% che non gli procura alcun beneficio pensionistico).

Come dire al lavoratore: stai tranquillo che durante la tua vita lavorativa guadagnerai pure poco, però in pensione ti ci mando con un reddito più elevato.

Basterebbero quindi due righe di legge per estendere questa norma anche ai fini retributivi e non solo contributivi.

Tra l’altro non siamo certo di fronte a retribuzioni elevate (per fortuna la maggior parte dei CCNL prevedono retribuzioni superiori). Una retribuzione oraria di € 8,09 equivale ad una retribuzione annua di € 16.827,00 (€ 1.294,38 mensili per 13 mensilità) che, al netto della contribuzione (considerando l’esonero contributivo attualmente previsto) e delle imposte, porta ad una retribuzione netta di € 15.206,48 (€ 1.169,73 mensili per 13 mensilità). Ma con questa soglia minima di retribuzione almeno superiamo, sia pur di poco, quella di povertà.

Di esempi se ne potrebbero fare tanti altri, ma solo e sempre sul salario minimo si alzanole barricate. Capisco il sostegno alla contrattazione collettiva, il sofisticato dibattitogiurisprudenziale e dottrinale che avvolge la questione, ma i bisogni primari vannosoddisfatti e subito, senza filosofeggiare.

Oltre al salario minimo dovremmo preoccuparci di garantire tutele di base uniformi a tutti i lavoratori, indipendentemente dal settore merceologico di appartenenza dell’azienda e dal contratto collettivo applicato. Il lavoratore che cambia azienda pensando ad una sua progressione economica, se non fa una attenta comparazione dei CCNL applicati al suo rapporto di lavoro, potrebbe ritrovarsi con minori tutele, anche di tipo economico.

Si pensi alla diversità dei periodi di comporto per malattia, degli indennizzi della malattia stessa, alla diversità in materia di permessi per ex festività e riduzione orario (in alcuni contratti non sono neanche previsti) e così via. A volte si è attratti da poche decine di euro in più di retribuzione senza tenere in debita considerazione le altre condizioni contrattuali, che – nel bilanciamento complessivo – potrebbero addirittura azzerare i vantaggi salariali della nuova occupazione.

Il lavoratore non può e non deve diventare un esperto in amministrazione del personale, a lui vanno garantite tutele di base uniformi. Una persona gravemente malata non può vedersi fuori dall’azienda dopo sei mesi o dopo tre anni solo perché di diverso rispetto ad un altro lavoratore ha un contratto collettivo e non la malattia.

Consentitemi di continuare con le provocazioni.

Qualcuno sostiene che i salari minimi vanno aumentati riducendo la tassazione. Certamente, ridurre la tassazione (per tutti, vorrei sperare) sarebbe cosa buona e giusta, ma ricordo che sui salari bassi, intorno ai venti/venticinquemila euro annuali, la tassazione è già quasi inesistente. E poi, perché mai i salari dei lavoratori privati dovrebbero essere aumentati dallo Stato? Sulle tecniche di ridistribuzione del reddito ci sarebbe da discutere, ma la questione si farebbe oltremodo complessa considerato che nelle mani di pochi sono concentrati la maggior parte dei profitti.

Qualcun altro si domanda chi pagherebbe gli aumenti retributivi che deriverebbero

dalla previsione del salario minimo legale.La risposta non è difficile: l’imprenditore. 

Ma così facendo molte aziende chiuderebbero, si replicherebbe. Ce ne faremo unaragione; rimarrebbero in vita solo le aziende che hanno il coraggio di competere rimanendo nella legalità e nell’eticità. 

Ci sarebbero ancora più disoccupati, mi si obietterebbe. Non ne sono così sicuro, perché i disoccupati sarebbero assunti in altre aziende dello stesso settore, che vedrebbero crescere la loro attività. Altra obiezione: con l’introduzione del salario minimo legale aumenterebbero i prezzi dei prodotti e quindi si alzerebbe l’inflazione. Anche questo non mi convince. Valgono le considerazioni precedenti,anche perché di competitors che offrono gli stessi prodotti e applicano i contratticollettivi “non pirata” ce ne sono già sul mercato. Anzi, si smetterà di offrire i prodotti con sconti eccessivi, perché questo sistema danneggia solo l’ultimo anello della catena, e cioè il lavoratore che si vede costretto ad accettare salari sempre più bassi.

Analizziamo il caso Mondialpol. La procura di Milano a metà agosto ha revocatoil provvedimento di controllo giudiziario imposto all’azienda per presunto caporalato e sfruttamento dei lavoratori. Ricordo che Mondialpol è una delle aziende leader nei servizi di vigilanza privata, con quasi 210 milioni di euro di fatturato e 4.742 dipendenti. 

Ma perché il provvedimento giudiziario è stato revocato? Perché la società si è impegnata ad innalzare i salari degli addetti ai servizi di sicurezza non armata del 20% dalla data del primo settembre 2023, in «un percorso progressivo che porterà a un aumento del 38% alla scadenza del Ccnl prevista per il primo aprile 2026». La decisione - ha spiegato sempre la società nel comunicato - è stata presa «per pervenire all’obiettivo della sempre maggiore professionalizzazione e fidelizzazionedegli addetti e così concretizzare salari più equi rispetto al contesto economico attuale del settore». «La nostra azienda - ha commentato Fabio Mura, ceo Mondialpol Service S.p.A. - ha sempre riconosciuto il contenuto del contrattonazionale, anzi, spesso lo abbiamo anticipato introducendo di nostra iniziativa miglioramenti salariali e operativi». «Abbiamo individuato nella posizione della magistratura - ha aggiunto - la via per sostenere i lavoratori al fine di superare un momento economicamente difficile e, da qui, la decisione di aderire a queste indicazioni è stata immediata». Adesso «stiamo condividendo l’iniziativa con tuttii nostri fornitori di servizi - ha concluso – così da garantire salari non inferiori a quelli da noi riservati al nostro personale dipendente».

Che cosa emerge dal caso Mondialpol: 1) che la società rispettava i minimi della contrattazione collettiva (ritenuta dai giudici una retribuzione di sfruttamento); 2) che l’intervento della magistratura ha portato l’azienda ad incrementare la retribuzione del 38%; 3) che Mondialpolper ora non licenzia nessuno; 4) che la società si avvarrà di fornitori che rispetteranno politiche retributive adeguate, innestando così un evidente circolo virtuoso ed espungendo dalla propria catenale aziende non conformi. Mi chiedo: ma dobbiamo sempre attendere che la magistratura intervenga in via suppletiva? Quante sono le aziende come la Mondialpol non poste sotto controllo giudiziario e che quindi non adegueranno i salari ai propri dipendenti? Non sarebbe meglio se in questa materia ci fosse una regolamentazione che dia certezza del diritto al fine di evitare sacche di elusione e di irregolarità?

Ricordo, per concludere, che nel PNRR è previsto che entro il 2026 le aziende devono

essere accompagnate al rispetto dei parametri ESG e quindi al rispetto di tuttigli stakeholders, ma soprattutto dei lavoratori, con politiche di sicurezza e salute,welfare aziendale, diversità e inclusione, benessere, formazione e sviluppo, politiche retributive, lotta alla povertà. Come ci arriveremo a quella scadenza?

Bisogna quindi fare sintesi tra le diverse tesi e giungere ad una soluzione che ponga rimedio al c.d. lavoro povero e risolva il problema della retribuzione sufficiente,dando certezza al mercato del lavoro e aglioperatori del diritto.

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