TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Premessa– Tra gli studiosi che hanno alimentato il dibattito sulla riconducibilità al perimetro della direttiva Ue 2019/1152 del diritto di informazione sull’utilizzo di sistemi decisionali o di monitoraggio interamente automatizzati di cui all’art. 1-bis d. lgs. n. 152/1997 (inserito dal d. lgs. 104/2022) si avvertiva come prioritaria la questione di conformità al dettato costituzionale . Che tale dibattito fosse, primao poi, intercettato nelle vicende giudiziarie, anche dopo la conversione in legge del d.l. n. 48/2023 (d’ora in poi decreto lavoro), era nell’ordine delle cose prevedibili.In occasione della proposizione di una serie di procedimenti ex art. 28 St. lav. - e in particolare in quelli sfociati nei decreti del Tribunale di Palermo del 20 giugno 2023 e del Tribunale di Torino del 5 agosto 2023 - la questione di legittimità costituzionale per eccesso di delega del d. lgs. 104/2022 è stata giudicata manifestamente infondata oltre che irrilevante . E ciò vuoi perché la direttiva europea riserva agli Stati membri uno spazio per l’inserimento di condizioni di miglior favore, vuoi perché con l’introduzione dell’art. 1-bis gli obblighi informativi sono stati ribaditi e precisati dal legislatore interno.
Del pari prevedibile lo sviluppo di contrasti sulla definizione dell’ambito oggettivo di applicazione dell’obbligo informativo, contrasti divenuti incandescenti all’indomani del decreto lavoro che ha inteso alleggerire gli adempimenti datoriali, limitandoli ai casi di utilizzo di sistemi “integralmente” automatizzati. Così l’anelito alla trasparenza che aveva ispirato la delimitazione dell’obbligo nei primi apporti interpretativi non viene smorzato neppure dall’intervento correttivo . I percorsi all’uopo battuti, pur nel comune obiettivo di ridimensionare la portata della previsione normativa, sono stati vari: dalla riferibilità dell’automatismo all’intero procedimento o anche solo a una delle fasi di gestione del rapporto di lavoro; alla (mancata) ridefinizione delle caratteristiche del sistema che continua a essere configurato come “deputato a fornire indicazioni” e non come esclusivo decisore; alla valorizzazione delle ricadute probatorie a carico del datore di lavoro che, in un eventuale giudizio, dovrà dimostrare dove e come interviene l’elemento umano nell’ambito del processo decisionale automatizzato .
Sorprende invece che a fronte di tali sofisticate elaborazioni ermeneutiche (come pure della vistosa divaricazione di vedute circa le ricadute dell’inadempimento dell’obbligo sulla legittimità dell’atto di gestione del rapporto di lavoro ), non si sia affinata una riflessione adeguata sul significato delle singole tappe in cui risulta articolato il dovere informativo. Eppure la disamina dell’informativa sul rapporto di lavoro di cui all’art. 1 e delle diverse fasi della comunicazione delle notizie nell’impianto dell’art. 1-bisoffre un osservatorio privilegiato per la ricostruzione della varietà funzionale dell’obbligo informativo, assestata su un monolitico principio di trasparenza.
Il presente contributo si occuperà, pertanto, solo dei profili relativi alle logiche sottostanti i flussi informativi come “scadenzati” nelle previsioni normative, accantonando le distinte problematiche della doppia dimensione (individuale e collettiva) del diritto di informazione e della relativa equivalenza contenutistica, che, almeno sul piano logico, presentano una propria autonomia. L’obiettivo sarà perseguito identificando il nesso tra i vari tasselli informativi e la funzione cui risultano preordinati: la trasparenza innanzitutto (nelle sue diverse sfaccettature e nella dimensione sia statica sia dinamica), la prevedibilità (intesa come programmazione del tempo di lavoro e limitazione del relativo potere datoriale di modifica) e la spiegabilità come orizzonte verso cui tendono le informazioni, ulteriori rispetto a quelle trasmesse di default, che possono essere richieste direttamente dal lavoratore o per il tramite delle rappresentanze sindacali. Talelinea di lettura viene suggerita e avvalorata dall’analisi in controluce dell’architettura regolativa di matrice europea che funge al contempo da guida interpretativa per disambiguare alcuni aspetti della disciplina nazionale e da sbocco intorno al quale saldare i vari frammenti normativi.

2. L’informazione funzionalizzata alla trasparenza – Se il d. lgs. n. 104/2022 ha codificato per la prima voltail diritto di informazione sull’utilizzo dei sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati, l’equivalenza informazione-trasparenza,o meglio, la funzionalizzazione dell’informazione alla trasparenza, non rappresenta una novità nel panorama nazionale . Al di là della trasposizione della direttiva 91/533/Ce e degli scenari aperti dalla proposta di direttiva relativaal miglioramento delle condizioni di lavoro nel lavoro mediante piattaforme digitali , la trasparenza figura protagonista nel regolamento generale sulla protezione dei dati ove assume una valenza trasversale . Pur non offrendo una definizione del principio della trasparenza, il GDPR ne illustra il significato confermando che la sua realizzazione “impone che le informazioni e le comunicazioni relative al trattamento di tali dati personali siano facilmente accessibili e comprensibili e che sia utilizzato un linguaggio semplice e chiaro. Tale principio riguarda, in particolare, l’informazione degli interessati sull’identità del titolare del trattamento e sulle finalità del trattamento e ulteriori informazioni atte ad assicurare un trattamento corretto e trasparente con riguardo alle persone fisiche interessate e ai loro diritti di ottenere conferma e comunicazione di un trattamento di dati personali che li riguardano” . Come dire che alla trasparenza risultano funzionali tanto il contenuto effettivo delle informazioni destinate all’interessato, quanto la qualità, l’accessibilità e la comprensibilità delle stesse. Proprio la trasparenza, cioè, permea di sé gli specifici doveri informativi a carico del titolare e del responsabile del trattamento e si invera in misure appropriate nella forma e nel modo, oltre che nella tempistica .
Al contempo, nel GDPR il modello di trasparenza non risulta statico, ma a geometria variabile: al pacchetto di regole generali operanti in presenza di un trattamento di dati non automatizzato, si affianca una serie di previsioni più stringenti per i casi di trattamento di dati automatizzato e, in particolare, per le ipotesi di processo decisionale basato unicamente sul trattamento automatizzato . In tali casi, infatti, i doveri informativi assumono contenuti più intensi e articolati: il titolare del trattamento deve comunicare all’interessato “l’esistenza di un processo decisionale automatizzato, compresa la profilazione […] e, almeno in tali casi, informazioni significative sulla logica utilizzata, nonché sull'importanza e le conseguenze previste di tale trattamento per l’interessato” . Se, quindi, il processo decisionale è automatizzato, l’obbligo del titolare del trattamento si dilata giungendo a coprire le principali caratteristiche considerate per approdare alla decisione, la fonte di tali informazioni e la loro importanza, nonché le possibili conseguenze di tale trattamento decisionale sull’interessato . Se poi il processo decisionale è automatizzato, ma non soddisfa la definizione di cui al GDPR, è comunque buona prassi che il titolare del trattamento comunichi all’interessato tali informazioni, oltre a quelle sufficienti a rendere il trattamento corretto e soddisfare tutti gli altri requisiti in materia di informazione di cui agli articoli 13 e 14 . Insomma nel GDPR l’obiettivo della trasparenza si realizza attraverso un modello informativo a struttura progressiva: si parte da quello basilare in presenza di qualsivoglia trattamento di dati, si prosegue con le informazioni che è opportuno trasmettere quando il processo decisionale risulta automatizzato ancorché non perfettamente collimante con la definizione regolamentare, fino a pervenire al cumulo delle informazioni generali con quelle rafforzate al cospetto di decisioni automatizzate in senso stretto.
Non troppo dissimile l’impostazione della previsione nazionale sugli obblighi informativi relativi alle condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro di cui al d. lgs. n. 152/97. Alle notizie sul rapporto di lavoro, sempre e comunque oggetto di comunicazione “all’atto dell’instaurazione del rapporto”, si accompagnano (per riprendere l’eloquente rubrica dell’art. 1-bis) gli “ulteriori” obblighi informativi in caso di utilizzo di sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati. Questi ultimi infatti, come risulta chiaramente dal tenore letterale della disposizione, si sommano alle informazioni in ogni caso trasmesse prima dell’inizio dell’attività lavorativa. Anche qui, dunque, opera l’equazione informazione-trasparenza e anche qui la realizzazione dell’obiettivo della trasparenza viene modulato dal punto di vista contenutistico in ragione dell’innesto di un fattore di complessità, nella specie rappresentato dall’utilizzo di sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati. Certo, la trasparenza ex art. 1-bis risulta funzionale alla correzione dell’asimmetria di potere tra i protagonisti della relazione contrattuale, laddove nel GDPR il flusso informativo risulta preordinato alla tutela della protezione dei dati personali. E nondimeno, l’una come l’altra previsione costituiscono espressione di un più generale diritto fondamentale di matrice europea .
Al contempo, per rafforzare la trasparenza, il legislatore interno ha introdotto un obbligo di informazione scritta delle modifiche impattanti sulle informazioni inizialmente trasmesse, sempre che comportino variazioni delle condizioni di svolgimento del lavoro . Una previsione, questa, tesa a garantire la trasparenza non solo nella dimensione statica, ma anche nel suo aspetto dinamico: i diritti di informazione fotografano le condizioni di lavoro così come si presentano prima dell’inizio dell’attività lavorativa e come cambiano nel corso del rapporto . Il che pare significare come solo un’informazione aggiornata e/o integrata risulti sintonica con l’obiettivo di trasparenza di matrice eurounitaria.
Resta, infine, da decifrare il senso dell’obbligo di comunicazione delle informazioni “in modo trasparente, in formato strutturato, di uso comune e leggibile da dispositivo automatico” di cui al co. 6 dell’art. 1-bis. Si tratta di una sfaccettatura della trasparenza che attiene alla modalità di trasmissione delle informazioni: in tanto cioè la trasparenza può ritenersi correttamente perseguita in quanto l’obbligo sia stato adempiuto in maniera comprensibile. Come dire che la comprensibilità non costituisce un obiettivo a sé stante, bensì un’ennesima declinazione della trasparenza che, come accennato a proposito del GDPR, connota la forma e i modi di comunicazione delle informazioni, non meno dei contenuti.

3. L’informazione funzionalizzata alla prevedibilità – Benché rientri tra gli obiettivi della direttiva 2019/1152, la prevedibilità del lavoro non pare assicurata appieno dal legislatore nazionale . Se è vero, infatti, che la disciplina europea mira a garantire la programmabilità del tempo di lavoro (e di conseguenza la sottrazione di una porzione del tempo di vita al potere datoriale di esigere mutamenti temporali della prestazione) è altrettanto vero che il d. lgs. n. 104/22 accede a una nozione tutta domestica di lavoro prevedibile. A parità di strumento funzionale alla realizzazione dell’obiettivo, i percorsi informativi italiano ed eurounitario appaiono sintonici soltanto con riguardo ai casi in cui l’organizzazione del lavoro è interamente o in gran parte prevedibile. Qui, infatti, con formulazioneampiamente coincidente, si statuisce che il lavoratore deve essere informato della durata normale della giornata o della settimana di lavoro nonché delle eventuali condizioni relative al lavoro straordinario e alla sua retribuzione e, se del caso, di eventuali condizioni relative ai cambi di turno . Per converso al cospetto di un rapporto di lavoro, caratterizzato da modalità organizzative in gran parte o interamente imprevedibili, che non contempla un orario normale di lavoro programmato, si registra una netta divaricazione tra l’approccio sovranazionale e quello interno . Ora, non si può certo fare di tutta l’erba un fascio dal momento che alcune previsioni europee rimettono la loro concretizzazione al legislatore nazionale (basti pensare al periodo minimo di preavviso a cui il lavoratore ha diritto prima dell’inizio di un incarico ), ma non si può negare che la disciplina italiana non ha inteso sfruttare compiutamente gli assist europei diretti a garantire l’effettività (e la pienezza) del diritto alla programmabilità degli impegni lavorativi . In questa prospettiva, dunque, può ritenersi che se il principio di trasparenza trova nel canale informativo un idoneo strumento di consapevolezza, la programmabilità e prevedibilità delle condizioni di lavoro richiederebbero ben altro che una comunicazione dimidiata da una trasposizione minimale.

4. L’informazione al di là della trasparenza: uno sguardo all’orizzonte tra de iure condito e de iure condendo– Una volta chiarito che l’obiettivo della trasparenza si realizza mediante diritti di informazione di “terza generazione” , caratterizzati dalla dimensione anche dinamica delle notizie stesse, e che il GDPR fungeda guida interpretativa della disciplina nazionale, va decifrata la previsione interna che riconosce al lavoratore (direttamente o per il tramite delle rappresentanze sindacali) il diritto di accedere ai dati e di richiedere ulteriori informazioni concernenti gli obblighi da adempiere prima dell’inizio dell’attività lavorativa (co. 3, art. 1-bis). Ai due tasselli corrispondono distinte posizioni giuridiche che non vanno tra loro confuse.
Tanto per cominciare il diritto di accesso ai dati presuppone un sufficiente grado di soddisfazione delle informazioni trasmesse dal datore di lavoro. Come nel GDPR l’accesso ai dati personali figura quale antecedente logico di altri diritti previsti a tutela dell’interessato (e cioè il diritto alla rettifica, alla cancellazione dei dati trattati, alla limitazione del trattamento o ancora il diritto di opporsi al trattamento posto in essere in violazione delle norme di legge), così anche nella previsione nazionale, tale momentoprelude ad altro, e in particolare, secondo una recente lettura, a una nuova forma di controllo sull’esercizio dei poteri datoriali automatizzati . Inoltre il diritto di accesso ai dati trattati di cui alla previsione domestica non pare soggiacere a particolari vincoli formali, né motivazionali, come del resto l’analogo diritto consacrato nel GDPR.Quest’ultimo, infatti,è stato interpretato dal Garante per la protezione dei dati personali nel senso dell’autosufficienza della richiesta da parte dell’interessato (che non è tenuto a motivare l’istanza) e dal Comitato europeo per la protezione dei dati (in sigla EDPB) nel senso che, alla luce della versione definitiva delle Guidelines on data subjectrights 1/2022, vanno esclusi requisiti di forma nella scelta del canale di comunicazione attraverso il quale entrare in contatto con il responsabile del trattamento .
Autonomo rispetto all’accesso figura il diritto del lavoratore di richiedere ulteriori informazioni concernenti gli obblighi da adempiere prima dell’inizio dell’attività lavorativa. Le indicazioni normative sul punto risultano alquanto minimali: il co. 3, art. 1-bis si limita a fissare un termine entro il quale il datore di lavoro o il committente sono tenuti a rispondere (ossia trenta giorni) e a prescrivere la relativa forma scritta. Eppure qualche elemento in più può ricavarsi in via deduttiva. Innanzitutto la prescrizione di un vincolo formale a carico dell’obbligato lascia intendere che pure la richiesta vada inoltrata per iscritto (tanto anche ai fini del computo del termine legale di risposta): a differenza della richiesta di accesso, qui la gamma di ulteriori informazioni si profila ampia e una specificazione scritta vale a ridimensionare possibili fraintendimenti circa l’ambito oggettivo dell’approfondimento informativo. In secondo luogo la richiesta di notizie aggiuntive sottende l’insoddisfazione circa il contenuto di quanto inizialmente trasmesso e lascia affiorare la dinamica potenzialmente progressiva dei diritti di informazione.Tornando più specificamente ai profili informativi suscettibili di approfondimento, il tenore letterale della previsione sembra suggerirne il perimetro nella misura in cui rinvia a quel bacino di notizie comunicate in prima battuta ed elencate al co. 2. Tra queste spiccano gli scopi e le finalità dei sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati, la logica e il funzionamento di tali sistemi, le misure di controllo adottate per le decisioni automatizzate e gli eventuali processi di correzione. Proprio muovendo da questa delimitazione ci si può interrogare sul significato dell’integrazione informativa; è lecito cioè domandarsi se qui l’informazione funga da ponte verso un obiettivo contiguo, ma non sovrapponibile alla trasparenza. Tale questione, in verità, non è nuova, e c’è da scommettere sull’utilità dei precedenti e delle soluzioni in corso di elaborazione per ipotesi simili.
Muovendo dal GDPR, non è questa la sede per ricostruire in dettaglio la querelle dottrinale circa la possibilità di ricavare dalle relative previsioni un diritto alla spiegazione del processo decisionale automatizzato, ma se ne può offrire una breve sintesi, fatalmente viziata da più di una forzatura rispetto alla ricchezza dei contributi. Al riguardo le tesi profilate sono sostanzialmente due: quella incline a desumere dal diritto a informazioni significative sulla logica utilizzata il diritto alla spiegazione, e quella che viceversa esclude l’esistenza di tale diritto . La tesi della configurabilità del diritto alla spiegazione fa leva sul considerando 71 del GDPR che vi fa espressamente riferimento - prevedendo che il trattamento automatizzato “dovrebbe essere subordinato a garanzie adeguate, che dovrebbero comprendere la specifica informazione all'interessato e il diritto di ottenere l’intervento umano, di esprimere la propria opinione, di ottenere una spiegazione della decisione conseguita dopo tale valutazione e di contestare la decisione” (mio il corsivo) - e sugli articoli 13, par. 2, lett. f) e 14, par. 2, lett. g) secondo cui, quando si procede al trattamento, l’interessato ha il diritto di “ricevere informazioni significative sulla logica in questione”. Ora, limitare il diritto alla spiegazione a una decisione specifica relativa a una persona significa accedere a una versione piuttosto ristretta del diritto in questione che viene inteso nel senso che “trainedmodel can be articulated and understood by a human” . Il che ha dato respiro a un orientamento critico che, tra l’altro, ha valorizzato come significativo il paradosso costituito dallo scarto tra il diritto affermato e la sua debole consistenza, nonché tra la valorizzazione degli articoli 13 e 14 e lo svilimento dell’analoga formulazione dell’articolo 15, par. 1, lett. h).
In particolare, la tesi che esclude la rinvenibilità nel GDPR di un diritto alla spiegazione si basa, oltre che sulla non vincolatività del considerando 71 (l’unico a menzionarlo espressamente con riguardo a un momento che segue l’adozione di una decisione automatizzata), sul rilievo che gli articoli 13, par. 2, lett. f) e 14, par. 2, lett. g) attengono agli obblighi di notifica del responsabile del trattamento e riguardano un momento che precede il processo decisionale (non già la spiegazione di una decisione specifica che logicamente può essere fornita solo dopo la sua adozione) . In questa prospettiva, escluso che il GDPR riconosca il diritto alla spiegazione, si sostiene una versione “dimezzata” di tale diritto (ribattezzata diritto a essere informati ) che si fa discendere dall’art. 15, par. 1, lett. h) il quale attribuisce all’interessato il diritto di ottenere l’accesso ai dati personali e a una serie di informazioni, tra cui “l’esistenza di un processo decisionale automatizzato, compresa la profilazione di cui all’articolo 22, paragrafi 1 e 4, e, almeno in tali casi, informazioni significative sulla logica utilizzata, nonché l'importanza e le conseguenze previste di tale trattamento per l’interessato”. Tale formulazione sembra cioè suggerire che il diritto di accesso di cui al GDPR equivalga a una spiegazione dell’uso e della funzionalità del sistema decisionale automatizzato e non comprenda le motivazioni e le circostanze di decisioni specifiche .
Se, dunque, nel GDPR sia la configurabilità sia le caratteristiche di un diritto alla spiegazione appaiono incerte, non altrettanto può dirsi per la regolazione europea in itinere. Un’espressa previsione si rinviene nella versione iniziale della proposta di direttiva sul lavoro mediante piattaforme digitali che all’art. 8 riconosce il diritto dei lavoratori di ottenere dalla piattaforma di lavoro digitale una spiegazione per una decisione assunta o supportata da sistemi automatizzati che incida significativamente sulle loro condizioni di lavoro e, a tal fine, prevede che la piattaforma individui una persona di contatto per discutere e chiarire i fatti, le circostanze e i motivi di tali decisioni. In altre parole nell’impostazione originaria della proposta, la richiesta di spiegazione da parte del lavoratore si colloca in un momento successivo rispetto all’informazione e dovrà essere soddisfatta con tempestività, senza eventualmente escludere una successiva richiesta di riesame del provvedimento assunto dalla piattaforma . Fermo tale approccio, qualche ritocco (tutt’altro che trascurabile) si registra nel testo della proposta risultante dal trilogo di dicembre 2023: per un verso si colloca il diritto di ottenere una spiegazione dalla piattaforma di lavoro digitale su un piano distinto e ulteriore rispetto al GDPR, per altro verso si offre qualche coordinata sulle caratteristiche della spiegazione (“in forma orale o scritta, è presentata in modo trasparente e comprensibile, utilizzando un linguaggio chiaro e semplice”) .
Ancor più nitido appare il nesso di funzionalità tra informazione e spiegazione nella proposta di regolamento sull’IA. Così l’art. 68-quater, rubricato diritto alla spiegazione dei singoli processi decisionali, attribuisce alle persone interessate (soggette a una decisione presa dall’operatore sulla base dell’output di un sistema di IA ad alto rischio che produca effetti giuridici o che incida in modo analogo e significativo sulle persone stesse in un modo che esse ritengono abbia un impatto negativo sulla salute, la sicurezza, i diritti fondamentali, il benessere socioeconomico o qualsiasi altro dei loro diritti derivanti dagli obblighi stabiliti nel presente regolamento) il diritto di chiedere all’operatore spiegazioni chiare e significative, ai sensi dell'art. 13, par. 1, sul ruolo del sistema di IA nella procedura decisionale, sui principali parametri della decisione presa e sui relativi dati di input. Come dire che la spiegazione della decisione, pur dotata di autonomia giuridica, rappresenta il momento finale di un iter che presuppone la trasparenza, intesa come interpretabilità dell’output del sistema di IA in forza della conoscenza generale, da parte dell’utente, del funzionamento del sistema stesso e dei dati trattati. In quest’ottica, ben più significativo ed esplicito il considerando 84-ter che identifica nelle informazioni rese alle persone interessate che sono soggette all’uso di un sistema di IA ad alto rischio (utilizzato dagli operatori per assisterle in un processo decisionale o nel prendere decisioni relative a persone fisiche) la base per consentire loro di esercitare il diritto a una spiegazione ai sensi del regolamento sull’IA.

5. La previsione nazionale come ponte al di là della trasparenza – La disamina che precede ha, dunque, evidenziato che nel panorama normativo europeo esiste un rapporto di consequenzialità tra l’informazione e la spiegazione, nel senso che la prima vale ad assicurare la trasparenza dei meccanismi decisionali non umani e prelude a un momento ulteriore, rappresentato dalla spiegazione, che, sebbene autonoma, trova nella trasmissione delle informazioni il suo antecedente logico.
Ora, nonostante il ruolo egemonico del GDPR rispetto all’obiettivo della trasparenza, il successivo tassello della spiegabilità, come si è accennato, risulta claudicante tanto dal punto di vista dell’effettività quanto dell’esigibilità del diritto. Il che si amplifica quando il processo automatizzato sfocia in una decisione basata sull’utilizzo di dati statistici, aggregati e collettivi che, in quanto anonimizzati, fuoriescono dalla portata normativa del GDPR . Non altrettanto il ricorso alla tecnica della trasparenza in vista della spiegabilità del risultato nella regolamentazione sovranazionale in itinere. Quest’ultima permea di sé l’art. 1-bis del decreto trasparenza che presenta numerosi profili di contiguità con la proposta di direttiva sul lavoro mediante piattaforme digitali, a cominciare (ma non solo) dalla comunicazione di un corposo blocco di informazioni da parte del datore, che prescinde da una richiesta in tal senso del lavoratore . Nella stessa direzione si muove la disposizione nazionale nella misura in cui va a mutuare alcuni riferimenti presenti nella proposta di regolamento sull’IA: basti pensare alla documentazione tecnica approntata dal fornitore in vista della valutazione di conformità del sistema o alle istruzioni d’uso che vanno consegnate all’operatore .
Proprio l’impronta europeista suggerisce di ravvisare nella richiesta di informazioni ulteriori da parte del lavoratore di cui al co. 3 dell’art. 1-bis un ponte verso la spiegabilità del risultato di matrice sovranazionale. In altre parole, pur non essendo contemplato nella disciplina interna, il diritto alla spiegazione penetra nel sistema nazionale in virtù dei tradizionali meccanismi di raccordo con le fonti europee e trova un canale di ingresso sostanziale (ancor prima di quello formale dell’applicazione diretta del regolamento) nell’informazione compulsata dal lavoratore. Insomma le notizie aggiuntive richieste dal lavoratore attivano quel flusso circolare diretto a rafforzare la tutela del lavoratore di fronte all’effetto black box.
Che poi questo ponte non basti a garantire la spiegabilità del processo automatizzato, lo confermano la varietà tipologica di algoritmi che governano i sistemi di IA (deterministici, non deterministici e di apprendimento automatico ) e i limiti intrinseci alla spiegazione del funzionamento dell’algoritmo che, come si è efficacemente rilevato, sconta un difetto di competenza a scapito dei non addetti che è realisticamente difficile da compensare . Ma si trattadi limiti connessi ad aspetti tecnici che prescindono dal raccordo tra i molteplici poli regolativi.

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