testo integrale con note e bibliografia

1. Genesi parlamentare della “Delega al Governo in materia di retribuzione dei lavoratori e contrattazione collettiva”.
Prima di immergerci nell’analisi del provvedimento di delega oggetto del presente contributo e del quadro entro il quale lo stesso è maturato e si inserisce sul piano giussindacale, mette preliminarmente conto ripercorrere in breve l’iter parlamentare della questione “salariale” italiana, rammentando il percorso sin qui svolto e che ha registrato la presentazione di ben otto disegni di legge in materia di salari e retribuzione.
Ebbene, si ricorderà che la Commissione XI Lavoro della Camera dei Deputati ha avviato, in data 22 marzo 2023, l’esame delle prime proposte di legge in materia di salario minimo (A.C. 141 - Fratoianni, A.C. 210 - Serracchiani, A.C. 216 - Laus, A.C. 306 – Conte e A.C. 432 – Orlando), cui se ne sono aggiunte di ulteriori (la A.C. 1053 – Richetti) e di cui l’ultima in ordine di tempo è quella rappresentativa della posizione delle opposizioni (A.C. 1275 – Conte primo firmatario) ad eccezione del partito Italia Viva.
La Commissione ha proceduto allo svolgimento di un ciclo di audizioni informali, che hanno avuto inizio il 12 aprile e si sono concluse l’11 luglio, disponendo l’adozione, quale testo base per il seguito dell’esame, della sola proposta di legge A.C. 1275 – Conte. L’iter si è interrotto in agosto a seguito della sospensiva e della contestuale richiesta del Governo al CNEL di “ un documento di osservazioni e proposte in materia di salario minimo in vista della prossima legge di bilancio”, che puntualmente elaborato ed approvato lo scorso 12 ottobre, tra i vari elementi di analisi, ha altresì argomentato come “I dati a disposizione indicano (...) un tasso di copertura della contrattazione collettiva che si avvicina al 100 per cento: una percentuale di gran lunga superiore all'80 per cento (parametro della direttiva). Da qui la piena conformità dell'Italia ai due principali vincoli stabiliti dalla direttiva europea e cioè l'assenza di obblighi di introdurre un piano di azione a sostegno della contrattazione collettiva ovvero una tariffa di legge. Rispetto ai dati disponibili è noto il contratto collettivo applicato al 95 per cento dei lavoratori dipendenti in Italia. (…) In termini di copertura dei contratti collettivi va aggiunto un ulteriore 4 per cento di lavoratori alle dipendenze di datori di lavoro pubblici che compilano la dichiarazione mensile Uniemens".
La Commissione Lavoro ha ripreso, nella seduta del 25 ottobre 2023, l’esame del provvedimento (disponendo nelle more l’abbinamento con ulteriore proposta A.C. 1328 – Barelli pervenuta) fissando il termine per la presentazione degli emendamenti al 16 novembre, data in cui sono state registrate ben quindici proposte emendative di cui una sola di maggioranza.
Ed è quest’ultima ad aver chiuso i giochi: nella seduta del 28 novembre, la proposta emendativa presentata dai gruppi di maggioranza è stata votata comportando la sostituzione integrale del testo originario e spostando la discussione su di un assetto completamente differente, ovvero due articoli recanti deleghe al Governo in materia di retribuzione dei lavoratori e di contrattazione collettiva nonché procedure di controllo ed informazione al dichiarato fine di “garantire l’attuazione del diritto di ogni lavoratore e lavoratrice a una retribuzione proporzionata e sufficiente, come sancito dall’articolo 36 della Costituzione, rafforzando la contrattazione collettiva e stabilendo i criteri che riconoscano l’applicazione dei trattamenti economici complessivi minimi dei contratti collettivi nazionali più applicati” (art. 1). Viene in tal modo marcata la differenza dalle precedenti ipotesi incentrate sulla prevalenza dell’intervento normativo ai fini della identificazione del salario minimo legale e della sua estesa applicazione, qui superato a favore di un approccioincentrato sulla dimensione contrattual-collettiva e sulrecupero della centralità del ruolo degli attori sindacali non solo nelle dinamiche retributive, in un certo qual modo rendendo manifesta la volontà di ridisegnare il rapporto tra Stato e sindacato, intenzione che giunge in verità dopo anni di disordine e confuso oscillare senza una chiara direttrice, che ha rappresentato forse uno dei sintomi più vistosi della crisi del sindacalismo contemporaneo.
È dunque su questa norma che l’azione parlamentare in materia di retribuzioni e contrattazione collettiva si svolgerà, nei giorni a seguire, ed è su questa che concentreremo l’odierna analisi.
2. Lavoro, lavoro povero e salario minimo. Il problema della semplificazione concettuale nel dialogo politico-mediatico e l’indirizzo dell’emendamento contenente la delega al Governo.
Il problema del “lavoro” – inteso nella sua dimensione “tecnica”, cioè sociale, economica e giuridica – è che, quando gli capita di diventare protagonista del dibattito pubblico, esso viene adoperato ad uso e consumo di ogni parte più o meno interessata a ritagliarsi uno spazio mediatico e ricavare risultati, in termini di posizionamento, immediati.
Trattasi, del resto, di una delle più consuete distorsioni dei nostri tempi, in cui la “discussione” politica in questi anni di crisi di autorevolezza dello Stato tende ad esercitare una forza attrattiva gravitazionale verso argomenti e temi assai delicati, restituendo una risposta alla smania impellente di richiesta normativa pressoché carente e mai del tutto centrata, ma soprattutto debolmente approfondita ed analizzata; quasi che l’analisi e la sperimentazione dell’idea dovessero seguire la fase produttiva di un testo normativo, in un fenomeno di capovolgimento dei processi formativi della norma in cui il caso, o più semplicemente il “vediamo che accade”, prevale rispetto al senso di responsabilità comune che dovrebbe cogliere chiunque si trovasse dinanzi ad un testo sacro nell’ordinamento quale è una legge, qualunque sia il suo fine ed il suo uso.
E così accade che da mesi la questione retributiva italiana è salita alla ribalta della discussione pubblico- politica (a tacere di quella giudiziaria, che ha segnato un punto cui, ad avviso di chi scrive, andrebbe riservata la massima cura e attenzione), di talché ogni approfondimento a vantaggio di una comprensione piena del problema all’interno delle vaste e complesse dinamiche di funzionamento della nostra società (viepiù alla luce delle ulteriori dinamiche internazionali di cui il Paese è parte e subisce in una economia globalizzata) ha ceduto direttamente il passo alle soluzioni, coincidenti troppo semplicisticamente con la ritenuta necessità dell’intervento - di contro assai difficile e controverso sul piano tecnico - di un salario minimo per legge.
La semplificazione concettuale che ha accompagnato dal primo momento la discussione pubblica ha provocato l’effetto polarizzazione tra fazioni all’apparenza quasi insanabilmente contrapposte: quella favorevole alla norma di legge introduttiva di un salario minimo e l’altra, refrattaria ma non del tutto all’interventismo statuale, favorevole alla valorizzazione della contrattazione collettiva in materia, fedele all’idea che il contratto ancor’oggi rappresenta la massima autorità salariale possibile.
Atteso il clima del dibattito e il rispetto dovuto ad entrambe le soluzioni, stante il loro valore, la portata delle relative ricadute e l’autorevolezza di chi si è schierato a favore dell’una o dell’altra, ritengo doveroso dichiarare subito la mia posizione e le ragioni che ne sono alla base. Partiamo dal presupposto concettuale del ragionamento: in Italia esiste un problema salariale? Indubbiamente, ma sono portato a considerare si tratti di un fenomeno (per quanto serio ed urgente) settoriale e pertanto non su vasta scala. L’Italia registra, al contempo, problemi correlati tanto alla scarsità e grave insufficienza dei livelli retributivi in determinate aree del mondo del lavoro, quanto, per una platea più ampia di soggetti, una bassa produttività che frustra la capacità di arricchimento ed accumulo un tempo derivante dai soli redditi da lavoro, oggi insufficienti a tutti i livelli per “fare la vita dei padri e delle madri”; ma il Paese registra altresì innumerevoli problemi come un livello di tassazione asfissiante, diseguaglianze territoriali e sociali che rendono difficile la vita a parità di retribuzione, ed altri ancora di cui non v’è spazio di indagine in questa sede.
Per questa ragione, con gli occhi fermi sull’insieme, l’idea di un intervento per legge ai fini dell’introduzione di un salario minimo non mi vede d’accordo, giacché per intervenire a sostegno (pur sacrosanto, si badi) di una parte pur bisognosa si andrebbe a colpire la totalità, mettendo in crisi il sistema della contrattazione qui lasciato inspiegabilmente scoperto ed indifeso, quasi come se il tema salariale non dipendesse anche da quest’ultimo e da esso potesse precindere. In questo senso, i timori di un effetto venefico nel sistema di relazioni industriali vigenti sono eccessivamente elevati, come pure il rischio di detonare il contratto nazionale che, in un sistema fragile ed in equilibrio come il nostro, orfano dell’ordinamento intersindacale ed alla ricerca di una nuova teoria ricostruttiva in grado di spiegarne l’efficacia nel mutato scenario economico e sociale dei tempi moderni, potrebbe precipitare nella desuetudine convenzionale e nel progressivo superamento, lasciando l’ordinamento e i negozi fra privati privi di un complesso di tutele senza che la legge sia pronta ad esercitare una efficacia sostitutiva di uguale impatto con i tempi che il mercato oggi impone e le esigenze di certezze invocate tanto dalle imprese che dai lavoratori (ammesso e non concesso che un simile effetto sia quello desiderato, buttando all’aria decenni di valorizzazione dell’autonomia delle parti sociali attorno alla quale l’intero sistema si è costruito orientando le dinamiche non solo collettive ma anche individuali).
Certo, rispetto ai temi retributivi la legge appare una risposta facile alla crisi dell’ordinamento intersindacale, con la conseguenza che una norma riuscirebbe nell’immediato lì dove i sindacati hanno fallito e non sono forse più in grado di fare da soli, certificando lo scollamento tra le regole di funzionamento del sistema e le esigenze delle persone che sono parte del gruppo sottostante.
Ma ciò risponde più alla esigenza politica, sempre affannata dalla ricerca di spazi di intervento a discapito dei ruoli sociali storici dei corpi intermedi, e all’atto pratico significa consentire allo Stato un ingresso a gamba tesa nel cuore del sistema sindacale, agendo sul perno che fino ad oggi ha tenuto in piedi la galassia di relazioni industriali che sono sopravvissute negli ultimi quindici anni grazie alle clausole obbligatorie nei contratti e che hanno visto la permanenza in vita del contratto nazionale solo in quanto custode dell’esclusiva dei trattamenti retributivi (visione dichiaratamente pessimistica).
In uno scenario così complicato, in cui regna il disordine dei temi e degli attori chiamati a governarli, corre l’obbligo di domandarsi se la frammentazione del mercato e l’enorme complicarsi dei modelli economici non stiano sollecitando, oggi, forme del tutto nuove di sperimentazione e se tali forme di regolamentazione non esistano all’interno dei meccanismi contrattual-collettivi attuali e con questi siano quindi compatibili, scongiurando azioni demolitrici di cui non sono chiari portata ed effetti nel medio – lungo periodo.
Ho intravisto questo nell’approccio del testo emendativo della maggioranza per affrontare il problema della inadeguatezza salariale di talune fasce della popolazione lavorativa, nel senso di una azione tesa a rinvenire modalità compatibili con il sistema sindacale vigente e non ad esso alternative, coerenti con l’assetto costituzionale racchiuso nel complicato equilibrio delle norme di cui agli articoli 36, 39 e 41 della nostra Costituzione, e che sappiano stimolare l’originaria capacità di autogoverno negoziale delle parti sociali chiamate a raccogliere e poi racchiudere nei contratti collettivi gli interessi più variegati e molteplici dei gruppi che sono chiamate a rappresentare.
3. Il fragile quadro giussindacale entro il quale le richieste di intervento normativo si inseriscono e le necessità di contemperamento.
Lavoro “povero” e Direttiva UE 2022/2041, complici il momento storico caratterizzato dal mutamento dei modelli economici su scala globale post pandemia, gli effetti del ritorno dell’inflazione ed alcuni significativi interventi della magistratura, hanno agito come detonatori e agitatori di un conflitto ad oggetto l’adeguatezza dei livelli retributivi in alcune aree specifiche del mondo produttivo, che ben presto è diventato politico-sindacale e ha stupito per la dichiarata presa di posizione di primari componenti del sindacato a favore di un intervento normativo diretto che presuppone, per sua stessa esistenza, la maturazione di una profonda sfiducia nella funzione e nella centralità del contratto collettivo, come se proprio i suoi più autorevoli creatori e difensori volessero sancire la fine della sua ritenuta espressione di massima autorità in materia salariale .
La frattura cui stiamo assistendo non è casuale, deve avere radici profonde per rappresentarsi oggi con tale forza al punto da separare (nuovamente) l’unitarietà dei sindacati maggioritari del Paese: l’ordinamento intersindacale ha spiegato senza dubbio una efficacia ricostruttiva importante nella sistemica delle relazioni industriali dello scorso secolo, accompagnando e in un certo qual modo guidando il passaggio dalla mancata attuazione dell’art. 39 Cost. alla diffusa accettazione del contratto di diritto comune come conseguenza dell’incontro di volontà tra gli attori delle relazioni sindacali.
Oggi le caratteristiche fondative dell’ordinamento intersindacale paiono smarrite, le relazioni sindacali hanno perso quella macro-capacità risolutiva ed equilibratrice finendo per risultare caratterizzate da un profondo disallineamento dei comportamenti delle parti, ognuna – tanto da parte datoriale che lavoratrice - mossa dalla ricerca di vantaggi immediati, ancorati ad una percezione del presente e per questo assai poco inclini a lasciare spazio alle trattative su temi di lungo periodo, al punto che si è sostenuto, non infondatamente, che “le associazioni hanno trasformato il contratto in uno strumento di soddisfazione delle loro esigenze di protagonismo” .
Forse è qui che si coglie il senso dello scollamento tra persona e sindacato, tra interessi del gruppo e rappresentanti, che sfocia nell'apparente abbandono della trattativa privata sul tema salariale a favore della richiesta dell’intervento normativo da parte degli stessi soggetti sindacali. Costoro hanno preferito – fenomeno alquanto singolare – lasciare le piazze delle rivendicazioni per assumere una posizione subordinata alla politica, che tuttavia tutto assorbe secondo logiche, metodi e tempi divergenti da quelli della relazione industriale, proiettando la forza della pretesa mediante l’esercizio del potere legislativo così sottraendola definitivamente dal tavolo del negoziato, affinché l’oggetto della lotta sia racchiuso in una norma privata nell’ambito di un contratto privatistico, patrimonio delle parti che l’hanno trattato, discusso e infine concluso trovando la sintesi del componimento delle originarie divergenze.
È un passaggio delicato, nel quale v’è la sintesi tanto della crisi del mondo sindacale quanto della centralità della figura del contratto collettivo e nel quale è altresì forte la percezione che il rischio dell’interventismo statale, in questo momento, segni un punto di non ritorno mal ponderato dal sindacato, distratto dall’urgenza e dall’emergenza di risolvere un problema che percepisce molto probabilmente come impellente, specialmente per quelle fasce di popolazione lavorativa oggettivamente mortificata da retribuzioni indecorose, ma che tuttavia rischia di causare una reazione a catena non adeguatamente preventivata quale giustappunto il collasso, a tendere, del sistema di relazioni sindacali a partire dalla posizione di centralità del contratto collettivo.
È in questo senso che si pone l’attenzione rispetto alla invocazione della fissazione di un salario minimo per legge senza prima intervenire a sostegno del sistema sindacale e della contrattazione collettiva, viepiù tenuto conto che il mondo attuale è caratterizzato da una demarcazione profonda tra chi negozia il proprio reddito individualmente, su base di mercato, ed appartiene alla fascia lavorativa in cui le competenze hanno un valore preponderante; da coloro i quali, di contro, hanno ancora nel contratto nazionale il parametro unico di riferimento, essendo impiegati in settori professionalmente più modesti nei quali non è la professionalità a fare la differenza ma l’esecuzione dell’attività lavorativa.
La consapevolezza di tali dinamiche – che riguarderanno fasce di popolazione sempre più vaste nel mercato del lavoro del prossimo futuro, atteso l’impatto delle tecnologie e l’avvento conseguenziale di nuove professioni - deve far riflettere, giacché è in esse che si rinviene uno tra i punti di massima criticità della tenuta del sistema sindacale e del valore del contratto collettivo: le battaglie per le retribuzioni sono scarsamente interessanti per la popolazione che non si riferisce ai minimi, mentre sono vitali per coloro i quali ad essi fanno riferimento, e i due segmenti non comunicano tante sono diversi i rispettivi punti di osservazione del lavoro e i bisogni della vita professionale.
Siamo in presenza di una divaricazione profonda nella quale coesistono di fatto: posizioni totalmente individuali, di quella fascia di popolazione lavorativa che esalta la dimensione privata ed individualistica del rapporto di lavoro negoziando in proprio, con accantonamento di qualunque valore del contratto collettivo e ciò che esso si porta dietro; posizioni pressoché totalmente collettive, per coloro i quali fanno ancora riferimento ai minimi stabiliti dal contratto e che in taluni casi – sempre più frequenti – si presentano inadeguati ed incapaci di rispondere alla realtà economica della vita retrostante, condannando le persone a soglie di reddito oggettivamente insufficienti. Accanto a queste, quale punto di raccordo, v’è la magistratura, chiamata ad esercitare un intervento salvifico facendosi portatrice della applicazione materiale del precetto di cui all’art. 36 Cost., la cui dimensione è stata di recente estesa al punto da assumere un ruolo sostitutivo della relazione sindacale e della inadeguatezza della sua azione di rinnovo, travalicando l’approccio originario finalizzato a garantire una estensione dei contratti anche nei rapporti non contrattualizzati per offrire supporto nei casi in cui, pur in presenza di un contratto, la retribuzione è comunque inadeguata e non in grado di assolvere le funzionalità costituzionali di proporzionalità e sufficienza .
È pur vero che, nonostante lo scenario sopra delineato e le sue strutturali criticità e fragili punti di equilibrio, molte sono le autorevoli voci a favore ad un intervento normativo, il che obbliga allo svolgimento di ragionate ponderazioni e ben rende l’idea della delicatezza della questione e della difficoltà di rinvenire una soluzione efficace capace di raccogliere un consenso diffuso sul piano teorico ed offrire, a valle, adeguate garanzie applicative in termini di risposta risolutiva al problema e salvaguardia della tenuta del sistema sindacale .
Nondimeno, chi scrive continua ad avvertire troppo alto il rischio di una rottura del sistema sindacale a fronte della ritenuta inadeguatezza dell’ordinamento lavoristico di far fronte ad un simile scenario in modo ordinato, a tutela dei molteplici interessi in gioco. Troppo alto è pure il rischio del conseguente superamento del sistema contrattual-collettivo, giacché il salario minimo di fonte legale finirebbe per divaricare ancora di più le posizioni delle parti contraenti indebolendone la forza, allontanando le persone dal basso data la capacità del precetto normativo di incunearsi nello spazio che già esiste tra coloro i quali sono fuori del problema in quanto percettori di retribuzioni più elevate e coloro che ne beneficerebbero nell’immediato, senza alcun argine all’eventuale abbandono della contrattazione da parte dei datori (e ciò a valere sia per i datori che ne fanno applicazione oggi, per i quali certamente vale l’argomentazione di una eccessiva complessità del percorso di allontanamento dalla contrattazione, che resta pur sempre possibile; sia per le imprese che verranno, chiamate a mettere in pratica i lavori del presente e del futuro scegliendo in libertà le regole collettive cui conformarsi o rifiutarle per riferirsi alla sola legge).
In questo senso si spiega e meglio si comprende il senso e la ragionevolezza di un’azione che, per quanto complessa e sfidante, è finalizzata non tanto a sostenere interventi statuali a carattere sostitutivo, bensì interventi con funzioni di sostegno ed integrative, volte ad attribuire un rinnovato valore e vigore alla forza dell’associazionismo sindacale, identificato quale motore del complesso sistema di regole atte a disciplinare la vasta complessità di un mercato del lavoro multiforme ed in sempiterno movimento.
4. La delega al Governo in materia di retribuzione dei lavoratori e contrattazione collettiva.
L’emendamento della maggioranza pare rispondere alla finalità da ultima descritta, ovvero quella convinta che lo spazio per la’identificazione di soglie retributive minime valide per tutti i lavoratori sia rinvenibile nell’ambito dell’azione sindacale consacrata nei contratti collettivi, attraverso un meccanismo operativo che ha l’ambizione di tenere in equilibrio la coerenza con le regole costituzionali, la necessità di intervenire in modo pragmatico ed i principi espressi da ultimo dalla magistratura, per cui l’aporia tra il trattamento retributivo minimo previsto dal contratto e l’art. 36 può serenamente riprodursi nel caso di un rinvio legale secco ad un dato contratto .
Ciò pare evincersi anzitutto dal dettame dell’art. 1 secondo cui la delega è volta a garantire l’attuazione del diritto di ogni lavoratore e lavoratrice ad una retribuzione proporzionata e sufficiente come sancito dall’articolo 36, con la precisazione che ciò deve avvenire, da un lato, mediante il rafforzamento della contrattazione collettiva e, dall’altro, attraverso l’identificazione dei criteri atti a riconoscere l’applicazione dei trattamenti economici complessivi minimi dei contratti collettivi nazionali più applicati .
Scopi cui il Governo è delegato a far fronte adottando uno o più decreti legislativi volti ad intervenire in materia di retribuzione dei lavoratori e contrattazione collettiva per il raggiungimento di obiettivi ben precisi: a) assicurare ai lavoratori trattamenti retributivi giusti ed equi; b) contrastare il lavoro sottopagato, anche in relazione a specifici modelli organizzativi del lavoro e categorie di lavoratori; c) stimolare il rinnovo dei contratti collettivi nel rispetto delle tempistiche stabilite dalle parti sociali, nell’interesse dei lavoratori e delle lavoratrici; d) contrastare il dumping contrattuale, che determina fenomeni di concorrenza sleale mediante la proliferazione di sistemi contrattuali finalizzati ad abbassare il costo del lavoro e ridurre le tutele dei lavoratori.
L’azione normativa immaginata risponde ad uno scopo diverso da quello oggetto del disegno di legge originario, che è di affrontare l’emergenza salariale all’interno della sfera di problematicità che si ritiene esserne alla base, cioè puntando il focus non solo sulla retribuzione in sé - qui ridefinita “equa e giusta”, con una portata tutta da individuarsi rispetto alle esperienze giurisprudenziali – ma anche su quei fenomeni che si ritiene agiscano da concausa quali il lavoro sottopagato o malpagato e connessi modelli attuativi e categorie particolari di lavoratori (leggasi riders, cooperative ed appalti), ritardi nei rinnovi dei contratti collettivi e contrasto alla proliferazione contrattuale incontrollata con effetti dumpisti.
La portata innovativa più significativa, ed anche rischiosa, la si rinviene nel comma successivo, e cioè nell’illustrazione dei principi e dei criteri direttivi cui la delega deve ispirarsi, con i quali, previo esercizio di uno sforzo non indifferente perché sia garantito il rispetto dei precetti costituzionali e l’attuazione non si trasformi in una manifestazione illegittima del potere conferito, si legge la volontà di disegnare un nuovo perimetro del sistema di relazioni sindacali, orientato alla correzione degli elementi che negli anni hanno presentato maggiore criticità ed alla ridefinizione dei rapporti tra Stato e sindacato, in una chiave di conferma della reciproca autonomia e libertà ma con “puntelli” a sostegno dell’azione sindacale, che qui si vuole assistita da maggiore certezza, proattività e presidio degli interessi dei lavoratori rappresentati.
Per esigenze espositive ci si concentrerà sulle previsioni più significative fra cui v’è senza dubbio quella declinata alla lettera a) che assume un valore preponderante anche sul piano simbolico: “definire, per ciascuna categoria, i contratti collettivi più applicati in riferimento al numero delle imprese e dei dipendenti, al fine di prevedere che il trattamento economico complessivo minimo del contratto più applicato sia, ai sensi dell’art. 36 Cost., la condizione economica minima da riconoscersi ai lavoratori nella stessa categoria”.
Vengono in rilievo tre diversi concetti giuridici, concatenati con un obiettivo di scopo decisamente sfidante: anzitutto il tema – annoso e mai risolto – della categoria, rispetto alla quale si preferisce un approccio pragmatico e pur tuttavia apparentemente rispettoso della facoltà di auto determinazione contrattuale, salvaguardia della libertà di cui al comma 1 dell’art. 39, così che pare indubbio che la categoria dovrà essere stabilita, quale perimetro di riferimento, in fase attuativa, avendo cura di scongiurare che ciò possa comportare il rischio di efficacia erga omnes del contratto limitando l’estensione ai soli trattamenti economici. E questi sono identificati con il richiamo al “trattamento economico complessivo minimo”, evidentemente diverso dalla misura dei trattamenti minimi di cui alle precedenti stesure ed il cui contenuto andrà identificato anch’esso in sede attuativa onde evitare un eccesivo allargamento che trascini, con il trattamento economico, la disciplina obbligatoria con conseguenze invasive e potenzialmente illegittime (una sorta di efficacia erga omnes implicita). Da ultimo, il criterio identificativo dei “più applicati”, con il quale si vuole giungere ad una effettiva verifica della diffusione dei contratti, mediante il perfezionamento dei flussi UNIEMENS (richiamati infatti alla lettera e), con finalità selettive certe e pratiche.
In questo modo, l’attuazione della delega dovrebbe comportare l’inveramento di un sistema nel quale sarà nota la diffusione dei contratti collettivi all’interno di ciascuna categoria, e il trattamento economico complessivo minimo stabilito dal contratto più applicato diventerà il trattamento economico minimo di riferimento per i lavoratori impiegati nella categoria medesima, a prescindere dal contratto prescelto dalle parti ed applicato al rapporto, con ricadute limitate ai soli aspetti economici e previdenziali.
Analogamente, con la lettera b) si vuole intervenire nel settore in cui più è mercata la differenza salariale, vero com’è che in esso risiedono la maggioranza dei profili realmente impattati dalla questione, ovvero quello degli appalti (intervento che va letto in combinato disposto con quello previsto nella successiva lettera h) e volto alla riforma della vigilanza del sistema cooperativo, con particolare riguardo alle revisioni periodiche per la verifica dell’effettiva natura mutualistica). Si stabilisce, in tal caso, un meccanismo che, ferma la salvaguardia della libertà contrattuale e pertanto sindacale, comporta l’identificazione dei trattamenti economici complessivi minimi previsti dai contratti più applicati nella categoria in cui l’appalto si svolge (secondo i criteri di cui alla lettera a), i quali assumono per l’effetto valore di riferimento (“non inferiori”) per tutta la popolazione lavorativa coinvolta tanto nell’appalto che negli eventuali subappalti. È un meccanismo in grado di porre fine, laddove accompagnato da misure effettive di controllo e contrasto ai fenomeni elusivi, pure previste dalla norma, alla piaga del dumping contrattuale, privando di effetto quella misura economica deteriore applicata per convenienza di offerta e in danno delle persone.
Il cerchio si chiude, da un lato, con la previsione dell’ulteriore principio e criterio direttivo per cui i trattamenti economici complessivi minimi dei contratti collettivi individuati in base al criterio di maggiore applicazione di cui alla lettera a), devono estendersi anche a quei gruppi di lavoratori non raggiunti da alcuna contrattazione collettiva, mediante applicazione dei trattamenti previsti dal contratto applicato nella categoria “più affine”.
Dall’altro, con la previsione (alla successiva lettera i) della volontà di disciplinare modelli di partecipazione dei lavoratori alla gestione e agli utili di impresa fondati sulla valorizzazione dell’interesse comune tra i lavoratori e l’imprenditore alla prosperità dell’impresa stessa. Di talché si prevede non solo una forma di cooperazione in grado di generare una reale responsabilità sociale dell’impresa mediante il diretto coinvolgimento delle persone dei lavoratori, ma anche, e per l’effetto, un meccanismo capace di consentire in astratto lo spostamento delle voci di costo del lavoro dalla retribuzione all’utile, i cui effetti e benefici sono tutti da verificare segnando un vero e proprio salto culturale ancora del tutto incompiuto nel nostro ordinamento e nelle esperienze quotidiane del nostro Paese.
Tali previsioni, che insieme racchiudono la risposta al problema delle differenziazioni salariali in negativo, sono poi accompagnate da quelle volte invece a sostenere le relazioni industriali e la contrattazione, fra cui spicca la previsione di strumenti di incentivazione allo sviluppo della contrattazione di secondo livello con finalità adattive, anche “per fare fronte alle diversificate necessità derivanti dall’incremento del costo della vita e correlate alle differenze dei costi su base territoriale”, principio che non mi pare evochi, come pure si è sostenuto nel dibattito politico, l’idea di un ritorno alle gabbie salariali, bensì pare raccogliere gli spunti offerti anche dalla Cassazione di recente attorno ai quali autorevole dottrina ha sostenuto, seppur in collegamento con l’idea dell’intervento normativo, come “Qui è lo stesso contenuto delle due sentenze della Corte di Cassazione a evidenziare un problema che solo il legislatore e le parti sociali – non certamente il singolo giudice – possono e devono risolvere, là dove si sottolinea la necessità che nella determinazione dello standard minimo si tenga conto delle condizioni particolari di ciascuna zona, di ciascun contesto: ciò che significa tenere conto anche del potere d’acquisto effettivo della moneta, assai diverso tra regione e regione, ma anche tra zone metropolitane e zone circostanti. Altrimenti lo standard minimo stabilito in termini nominali, senza alcuna modulazione in relazione al potere d’acquisto effettivo, in un paese come il nostro sarà sempre troppo basso per le zone più ricche (con conseguente effetto controproducente sui livelli salariali rispetto alle finalità perseguite) o troppo alto per le zone più povere, dove causerà aumento del lavoro nero o della disoccupazione” .
Ancor più esplicite nell’intenzione di sostenere lo sviluppo e finanche l’espansione della contrattazione sono le ulteriori previsioni finalizzate alla individuazione e realizzazione di appositi strumenti di incentivazione per il rinnovo dei contratti collettivi nei termini o per quelli scaduti, con riconoscimento di incentivi a favore dei lavoratori e delle lavoratrici volti “a bilanciare e dove possibile compensare la perdita del potere di acquisito subita” dai ritardi, con la conclusiva previsione di un intervento diretto del Ministero per ciascun contratto scaduto e non rinnovato entro i termini previsti dalle parti sociali o comunque entro congrui termini (da stabilirsi anch’essi), come pure per i settori nei quali manca una contrattazione di riferimento, con il fine di adottare le misure necessarie a valere sui soli trattamenti economici minimi complessivi, tenendo conto dei trattamenti previsti da contratti collettivi più applicati vigenti in settori affini.
Da ultimo, il Governo, allo scopo di incrementare la trasparenza in materia di dinamiche salariali e contrattuali sul piano nazionale, territoriale e per categorie e settori, nonché conseguire obiettivi di effettivo contrasto al dumping contrattuale, a fenomeni di concorrenza sleale, alla evasione fiscale e contributiva ed al ricorso a forme di lavoro nero o irregolare in danno dei lavoratori e delle lavoratrici, è delegato ad adottare uno o più decreti legislativi “contenenti disposizioni per perfezionare la disciplina dei controlli e per sviluppare una informazione pubblica e trasparente in materia di retribuzione dei lavoratori e contrattazione collettiva”.
Chiude quindi il complesso normativo l’introduzione di un rinnovato – e si auspica finalmente efficace e risolutivo - sistema di controllo e verifica finalizzato a garantire l’attuazione ed il rispetto, a tutti i livelli, in tutte le categorie e per qualunque tipologia contrattuale, delle disposizioni finalizzate alla “attuazione del diritto di ogni lavoratore e lavoratrice a una retribuzione proporzionata e sufficiente, come sancito dall’articolo 36 della Costituzione, rafforzando la contrattazione collettiva e stabilendo i criteri che riconoscano l’applicazione dei trattamenti economici complessivi minimi dei contratti collettivi nazionali più applicati” (art. 1, co. 1).
Sistemi nei quali si coglie l’invito di autorevole dottrina secondo cui la mancanza di effettività dell’art. 36 è da imputarsi storicamente a problemi complessivi del nostro ordinamento, alle attuali scarse potenzialità dei sistemi di protezione giudiziale ed ispettiva, che un intervento eteronomo, da solo, in effetti non basterebbe a riequilibrare .

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