testo integrale con note e bibliografia
1. Premessa
L’obiettivo al fondo della disciplina del mercato del lavoro è stato sempre quello di correggerne i difetti derivanti dalla sua spontaneità , tutelando l’interesse collettivo, sociale e pubblico, dei lavoratori a reperire un impiego, in coerenza con l’art. 4 Cost. , strabicamente guardando in modo più attento all’offerta (dei lavoratori), piuttosto che alla domanda (dei datori di lavoro), specie quando i lavoratori appartengono all’area dello svantaggio o del «terzo escluso» , come nel caso della popolazione ristretta negli istituti penitenziari, ovvero proveniente da essi , ulteriormente penalizzata a causa della impossibilità di effettuare liberamente la ricerca di occupazione, vista la privazione della libertà personale, condizione che incide pesantemente sulla manutenzione della occupabilità .
Già all’interno della originaria disciplina dell’accesso al lavoro da parte dei detenuti e degli internati, contenuta nell’art. 20 o.p., il legislatore aveva tratteggiato una regolamentazione binaria, prevedendo una specifica disciplina per quanto concerne la distribuzione delle occasioni di lavoro all’interno dell’istituto, rispetto a quelle extramurarie , creando comunque una cerniera tra i due sistemi e lasciando sullo sfondo della presente riflessione l’annosa diatriba su quale strumentazione giuridica possa migliorare la condizione mercatistica di questi soggetti svantaggiati, contrapponendosi i sostenitori della disciplina speciale (alla stregua dei disabili) a quelli orientati verso specifiche politiche per l’occupazione
2. Il collocamento al lavoro dei detenuti e degli internati nelle intenzioni del legislatore della riforma dell’o.p.
La specialità dell’accesso al lavoro di detenuti e internati ha provocato comprensibili problemi di coordinamento con la normativa generale , non mancando “prove di resistenza” .
Orbene, dall’esame dell’art. 20 o.p., tanto nella versione originaria, quanto in quelle successive, fino a quella vigente, emerge un’impostazione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro intramuraria sostanzialmente mutuata dalla vecchia disciplina del collocamento di cui alla l. 29 aprile 1949, n. 264 e fondata su graduatorie fissate in liste.
La qualificazione del lavoro come elemento (cardine) del trattamento rieducativo del condannato e dell’internato (cfr. art. 15 o.p.) favorisce la configurazione dell’assegnazione dell’utente al lavoro come diritto del soggetto in vinculis, ovviamente da non intendersi come diritto al “posto di lavoro” (infra); dall’altro lato, è prescritto che negli istituti penitenziari sia favorita in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro .
Le modalità di assegnazione dei ristretti al lavoro intramurario, tanto prima, quanto dopo la riforma del 2018, sono contenute nell’art. 20 O.P, vero e proprio sistema (speciale e autoreferenziale) di collocamento .
La disposizione è il frutto di un lungo lavoro di rimaneggiamento, contraddistinto da più interventi di modifica nell’arco di esattamente cinquant’anni. Infatti, originariamente, l’art. 20, c. 6, o.p. prevedeva che nell’assegnazione dei soggetti al lavoro si dovesse tener conto dei loro desideri e attitudini nonché delle precedenti attività e di quelle a cui essi potessero dedicarsi dopo la dimissione . Successivamente, l’art. 5, l. n. 663/1986, ha modificato la (vecchia) disposizione, secondo la quale «Ai fini dell’assegnazione dei soggetti al lavoro si deve tener conto dei loro desideri e attitudini nonché delle condizioni economiche della famiglia» .
La modifica operata dalla c.d. legge Gozzini (l. n. 663/1986), secondo alcuni indotta dalla consapevolezza del valore utopico della disposizione originaria dell’ o.p. , sebbene fosse molto più vicina al concetto di libertà di (scelta del) lavoro, caro ai costituzionalisti, più di quanto potesse realmente apparire, non è stata l’ultima in ordine di tempo. Infatti, l’art. 20 o.p. è stato poi ancora modificato dall’art. 2, d.l. n. 187/1993, convertito con l. n. 296/1993, cui sono stati successivamente aggiunti alcuni commi dalla l. n. 193/2000.
Quest’ultima versione, immediatamente precedente a quella attuale, prevedeva i criteri per effettuare l’assegnazione dei detenuti al lavoro, alcuni dei quali ricordano l’abrogato art. 15, comma 3, l. 264/1949, come l’anzianità di disoccupazione, sebbene limitata allo stato di detenzione o di internamento, o i carichi familiari, altri assenti da tale disposizione, ma non sconosciuti alla l. n. 264/1949 , come la professionalità, nonché le precedenti e documentate attività svolte e quelle a cui i ristretti potranno dedicarsi dopo la dimissione .
A ben guardare, il rapporto giuridico tra detenuto che aspira ad un’occupazione interna e Amministrazione Penitenziaria pare non dissimile da quello tra utenza ino/disoccupata e vecchi uffici di collocamento , atteso che anche il lavoratore – detenuto, dal lato dell’offerta, «si qualifica come titolare del diritto soggettivo alla libertà di lavoro, rispetto al quale l’iscrizione nelle liste di collocamento si configura quale onere finalizzato all’acquisto del diritto soggettivo (pubblico) all’avviamento al lavoro “alle dipendenze altrui” (...); dal lato della domanda, viene in rilievo la posizione soggettiva del datore di lavoro, in qualità non solo di soggetto vincolato al dovere della assunzione dei lavoratori “dei quali abbia bisogno” (…) ma altresì titolare del diritto soggettivo (pubblico) all’avviamento al lavoro (…) dei lavoratori iscritti nelle liste di collocamento» .
3. Il d.lgs. n. 150/2015 e la sua applicabilità ai lavoratori detenuti ed internati (cenni).
Il parallelismo tra il lavoro penitenziario e quello svolto «nella società libera» ai sensi dell’art. 20 o.p. solitamente riguarda per tabulas l’organizzazione e i metodi, mentre la disciplina della distribuzione delle occasioni lavorative interne si caratterizza per una specialità, legata al peculiare contesto di riferimento, ferma restando l’applicazione in quanto compatibile del d.lgs. 14 settembre 2015, n. 150, per cui detenuti e internati potranno rendere al Centro per l’impiego competente la dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro, ottenendo il riconoscimento dello stato di disoccupato, ex art. 19, d.lgs. n. 150/2015, anche avvalendosi dei patronati, ai sensi dell’art. 25-ter, o.p.
L’avvicinamento tra la disciplina del mercato del lavoro generalmente applicabile in ambiente libero e quella relativa all’utenza detenuta è stato ulteriormente favorito dalla esplicita applicazione delle comunicazioni obbligatorie telematiche «anche nel caso di lavoratori detenuti o internati che prestano la loro attività all’interno degli istituti penitenziari alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria o di altri enti, pubblici o privati» , consentendo il superamento dell’incomprensibile posizione interpretativa contraria alle COT, assunta dal Ministero della giustizia sin dal 2008 e difesa fino alla novella del 2018 , ovviando così alle sanzioni irrogabili alle direzioni penitenziarie per l’omesso invio delle COT .
La riforma del 2018 ha novellato la disciplina dell’incontro tra domanda e offerta per detenuti e internati, superando così le perplessità manifestate sull’abrogazione dell’art. 20, commi 6 ss., o.p., ad opera della riforma del mercato del lavoro del 2000-2002, e del Jobs Act .
L’attuale formulazione dell’art. 20 o.p. ha mantenuto l’impostazione di semplice controllo nella distribuzione delle occasioni di lavoro, risultando assente una funzione di promozione dell’occupazione penitenziaria, anche perché la domanda di lavoro è condizionata da variabili indipendenti, come il numero di utenti presenti o la maggiore/minore disponibilità di risorse economiche destinate alla remunerazione dei ristretti , i cui capitoli di bilancio , pur incrementati quantitativamente a seguito della revisione dell’importo delle mercedi (remunerazioni) avvenuta nel 2017, risultano tuttora insufficienti a colmare le «voragini occupazionali gravissime» venutesi a creare , con un significativo impatto sulla dignità della persona detenuta .
4. L’attuale disciplina dell’accesso al lavoro.
Il sistema di accesso al lavoro intramurario, come in passato, continua a operare attraverso un organo collegiale (c.d. commissione lavoro) istituita presso ogni istituto penitenziario e composta dal direttore o altro dirigente penitenziario delegato, dai responsabili dell'area sicurezza e dell'area giuridico-pedagogica, dal dirigente sanitario della struttura penitenziaria (per esso intendendosi il dirigente medico responsabile della sanità penitenziaria per l’istituto di riferimento), da un funzionario dell'ufficio per l'esecuzione penale esterna, dal direttore del centro per l'impiego o da un suo delegato, da due rappresentanti sindacali, l’uno unitariamente designato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale e l’altro, da quelle a livello territoriale. Si prevede l’indicazione di un supplente per ogni componente, ritenendosi che la supplenza non valga per il direttore, per il quale è prevista già la delegabilità del compito ad altro dirigente penitenziario, per quanto non tutti i direttori possano beneficiare della collaborazione di un dirigente con funzioni di vice direttore.
La Commissione ha una composizione sostanzialmente simile a quella prevista dall’art. 20, comma 8, o.p. ante riforma, essendo state aggiornate le qualifiche e i ruoli dei componenti.
Per evitare una potenziale paralisi della Commissione, il nuovo art. 20 o.p. ha adottato un quorum snello, prevedendo una deliberazione a maggioranza dei presenti e ciò è stato opportunamente previsto sia in ragione del ridotto interesse manifestato dalle organizzazioni sindacali verso il lavoro penitenziario (risultando spesso assenti dalle riunioni per quanto regolarmente convocate), sia per sterilizzare gli effetti delle eventuali assenze degli altri componenti, riconducibili all’esercizio di diritti incomprimibili (es. malattia) o alla necessità di attendere altri impegni istituzionali, smentendosi la tesi della esistenza solo sulla carta della c.d. Commissione lavoro .
La partecipazione ai lavori della commissione non prevede la corresponsione di alcun compenso (gettoni di presenza, indennità, rimborsi spese e altri emolumenti comunque denominati).
L’art. 20, comma 5, o.p., assegna tre compiti alla c.d. Commissione lavoro e cioè:
a) formare due elenchi, uno generico e l'altro per qualifica, per l'assegnazione al lavoro dei detenuti e degli internati, tenendo conto esclusivamente dell'anzianità di disoccupazione maturata durante lo stato di detenzione e di internamento, dei carichi familiari e delle abilità lavorative possedute, e privilegiando, a parità di condizioni, i condannati, con esclusione dei detenuti e degli internati sottoposti al regime di sorveglianza particolare di cui all'articolo 14-bis;
b) individuare le attività lavorative o i posti di lavoro ai quali, per motivi di sicurezza, sono assegnati detenuti o internati, in deroga agli elenchi di cui alla lettera a);
c) stabilire criteri per l'avvicendamento nei posti di lavoro alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria, nel rispetto delle direttive emanate dal dipartimento dell'amministrazione penitenziaria.
Il primo task affidato alla “Commissione lavoro” coincide sostanzialmente con quello sub art. 20, comma 8, o.p., vecchio testo, consistendo nella redazione delle due liste, una generica e l’altra per qualifica, ma al pari di quanto avveniva in passato, la Commissione viene convocata per stilare una disciplina di carattere generale, applicabile fino a nuove determinazioni e utilizzata dalla Direzione di istituto per la redazione (solitamente mensile) delle liste, con il contributo del Gruppo di Osservazione e Trattamento (c.d. GOT), ai sensi dell’art. 49, D.P.R. n. 230/2000.
In generale, i regolamenti approvati dalle Commissioni operanti presso diversi istituti penitenziari prevedono che il detenuto dichiari le proprie attitudini professionali in occasione del colloquio di primo ingresso, fornendo eventuali allegazioni e indicando i carichi familiari. Inoltre, la Commissione indica le mansioni relative all’elenco per qualifica (es. meccanico, idraulico, casaro, cuoco, pascolante…), mentre quelle residuali confluiscono nella lista generica.
Quanto ai principi indicati dall’ o.p. e sulla cui base la Direzione di istituto addiviene alla redazione delle liste, si evidenzia che il primo di essi, e cioè, l’anzianità di disoccupazione durante lo stato di detenzione o di internamento, crea una cesura tra il “mercato del lavoro penitenziario” e quello esterno, valorizzandosi la sola anzianità disoccupazionale penitenziaria, senza tenere conto di quella “assoluta”. Infatti, detenuti e internati vedranno considerato utile solo il periodo di disoccupazione successivo al proprio ingresso in carcere e volta per volta quello maturato nella specifica struttura, come se da questo momento scattasse un ipotetico contatore, sterilizzando l’eventuale anzianità disoccupazionale maturata all’esterno.
Il “contatore”, poi, si “azzera” all’atto dell’assunzione da parte dell’Amministrazione Penitenziaria o di altro datore di lavoro, per ripartire nel momento in cui l’occupazione cessa (ad esempio per effetto della turnazione intramurarie), ovvero per sopraggiunta scarcerazione o trasferimento ad altro istituto.
Invero, se dovesse trovare applicazione l’art. 19, comma 3, d.lgs. n. 150/2015, l’azzeramento del “contatore” non dovrebbe avvenire in caso di rapporto di lavoro subordinato di durata fino a sei mesi, semplicemente sospendendo lo stato di disoccupazione. Le conseguenze, però, sarebbero paradossali, poiché il detenuto che ha terminato il proprio “turno” si troverebbe comunque un’elevata anzianità disoccupazionale che, se non sterilizzata ai fini della formazione del punteggio per l’inserimento in lista, gli consentirebbe un piazzamento migliore, comparativamente irragionevole rispetto a chi non ha mai lavorato.
Nella prassi, come anticipato, l’anzianità disoccupazionale penitenziaria viene ricollegata non allo stato detentivo tout court (come sembra emergere dall’art. 20 o.p.), ma alla specifica carcerazione trascorsa nel singolo istituto di pena, con l’effetto di penalizzare l’utente che, attinto da più provvedimenti di trasferimento (magari sine culpa), di fatto vede compromesso il proprio diritto al lavoro. Si tratta di una prassi invalsa nel sistema penitenziario e funzionale a evitare che il lavoratore – detenuto, proveniente da altro carcere e in possesso di una elevata anzianità disoccupazionale, scavalchi tutti gli altri, in attesa magari da mesi del proprio turno di lavoro, con intuibili problemi di gestione dell’ordine e della sicurezza.
Invero, per chiarire il significato del concetto di “anzianità disoccupazionale”, in disparte l’eventuale miglioramento del drafting normativo, sarebbe opportuna una presa di posizione ufficiale della Amministrazione penitenziaria, magari diramando agli istituti penitenziari la classica circolare interna.
L’applicazione del criterio dell’anzianità disoccupazionale, di cui all’art. 20 o.p., con contatore unico (cioè per tutti gli istituti), si scontra anche con l’assenza di un sistema informatizzato interno all’Amministrazione Penitenziaria in grado di assicurare la circolarità delle informazioni relative all’anzianità predetta. A tal riguardo sarebbe auspicabile un potenziamento del sistema SIAP/AFIS , che consenta non solo l’inserimento della posizione occupazionale, ma di riflesso quella disoccupazionale del detenuto e dell’internato, in modo tale da ovviare alle criticità applicative testè evidenziate, magari rendendo interoperabile il sistema AFIS con gli applicativi utilizzati dai servizi per l’impiego, ferme restando le intuibili difficoltà informatiche.
Il secondo criterio, già presente nella vecchia disciplina, è quello dei carichi familiari. In ragione della storica valorizzazione dei rapporti familiari contenuta nell’ o.p., il criterio è solitamente declinato in modo ampio, quindi, riconoscendo punti anche per la convivenza more uxorio e aumentandolo nel caso di familiari invalidi , come avviene, ad esempio, per la determinazione dell’ISEE.
Il terzo criterio, invece, è quello delle abilità lavorative possedute , che ha sostituito quello della «professionalità» e delle «precedenti e documentate attività svolte e quelle che potranno essere oggetto di impegno all’atto della dimissione». A ben guardare, la riforma del 2018 sembra guardare più al passato che al futuro professionale del lavoratore detenuto , per quanto il ricorso al concetto di «abilità» valorizzi il concreto «saper fare» dell’utente, senza vincolare la Direzione alla documentabilità delle attività svolte precedentemente, potendosi bypassare la mancanza di titoli formali mediante “prova d’arte”, ovviamente, con riferimento alle liste c.d. professionalizzanti e non per i lavori c.d. generici.
La disciplina attualmente vigente, poi, ha confermato l’esclusione da entrambi gli elenchi dell’utenza sottoposta al regime di sorveglianza particolare di cui all'articolo 14-bis, per intuibili motivi di ordine e sicurezza.
La “Commissione lavoro”, grazie alla riforma del 2018, ha anche la possibilità di individuare attività lavorative o posti di lavoro ai quali, per motivi di sicurezza, sono assegnati detenuti o internati, in deroga agli elenchi generici o specifici (cfr. art. 20, comma 5, lett. b), o.p.).
In primo luogo, si ritiene che la locuzione «attività lavorativa» consista in una aggregazione di posti di lavoro, per cui la Commissione potrebbe, ad esempio, prevedere una deroga all’assegnazione dalle liste per tutti i posti di lavoro presenti in un determinato contesto logistico o lavorazione, si pensi alla storica assegnazione intuitu personae di detenuti stranieri senza contatti sul territorio, tipica delle sezioni riservate ai detenuti sottoposti a regime detentivo differenziato ex art. 41-bis o.p.
Quanto alla deroga relativa a posti di lavoro, essa non può che tener conto dell’organizzazione e della sicurezza dell’istituto, si pensi alla assegnazione del lavoratore detenuto impiegato per l’effettuazione delle pulizie presso gli uffici della direzione, solitamente esterni rispetto al muro di cinta e a contatto anche con personale non dipendente, quindi, necessitanti di lavoratori che abbiano realizzato una significativa progressione trattamentale.
Inoltre, è onere della Commissione stabilire i criteri per l'avvicendamento (c.d. turnazione) nei posti di lavoro alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria , nel rispetto delle direttive emanate dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria. Invero, l’assenza da oramai sette anni di indicazioni di massima valide per tutti gli istituti di pena ha costretto le direzioni a dotarsi di discipline (cedevoli), solitamente diverse da struttura a struttura, specie se si considera che la turnazione è sicuramente più frenetica presso le Case Circondariali e meno presso le Case di Reclusione, in ragione del tipo di utenza ivi presente e della possibilità di attivazione di lavorazioni interne.
Infine, si segnala l’art. 20, comma 7, o.p., che assegna al direttore il potere di derogare, per specifiche ragioni di sicurezza, ai criteri di assegnazione al lavoro di cui al comma 5, lettera a), concedendo ad un organo monocratico (il direttore) un potere amplissimo e sul cui esercizio giova soffermarsi.
In primo luogo, la disposizione non può che avere un significato e una interpretazione differente da quella contenuta nel comma 5, lett. b), pur avendo alla base la tutela della sicurezza di istituto.
In secondo luogo, si ritiene che essa non possa essere utilizzata per introdurre decurtazioni di punteggi nella formazione delle liste in danno dei detenuti sanzionati disciplinarmente, sebbene ciò avvenga in alcuni istituti penitenziari, secondo una progressione numerica parallela rispetto alla gravità della sanzione, poiché una simile deroga potrebbe violare il principio di tipicità declinato sub art. 39, comma 1, o.p., introducendo una sanzione atipica, per quanto tale deroga potrebbe a sua volta stimolare il senso di responsabilità e la capacità di autocontrollo dell’utente, di cui all’art. 36, comma 1, o.p.
A questo punto, si potrebbe ipotizzare l’esercizio della deroga ai criteri di cui all’art. 20, comma 5, lett. a), o.p., riconducendo le «specifiche ragioni di sicurezza» a situazioni precise, si pensi all’ipotesi di restringere “a tempo” il bouquet occupazionale per quei detenuti reduci dalla applicazione del regime di sorveglianza particolare, ovvero, autori di eventi critici di particolare gravità (es. evasione, tentata evasione…).
Ovviamente, il provvedimento del direttore necessita di una solida motivazione, in grado di resistere anche all’eventuale reclamo giurisdizionale ex art. 35-bis o.p.
In disparte, poi, si segnala che non sono inconsuete ipotesi di deroga alle liste previste dai piani locali di prevenzione del rischio suicidario, in favore di quella utenza con rischio alto, per la quale il lavoro assume una funzione (ergo)terapeutica, vista l’eliminazione dall’art. 20 o.p. di questa peculiare modalità di applicazione lavorativa. In questo caso, però, il soggetto istituzionalmente coinvolto è il c.d. staff multidisciplinare , organo collegiale di cui fanno parte anche figure esterne all’Amministrazione penitenziaria (su tutte quelle sanitarie), le cui indicazioni potrebbero costituire un input per il direttore al fine di attivare la prerogativa di cui all’art. 20, comma 7, o.p., volendo accedere ad una interpretazione particolarmente ampia e generosa delle “specifiche ragioni di sicurezza”.
Alle riunioni della “commissione lavoro” partecipa, senza potere deliberativo (e quindi come una sorta di “convitato di pietra”), un rappresentante dei detenuti e degli internati, ovviamente nel rispetto dell’art. 31 o.p. .
L’avviamento al lavoro è condizionato al nulla osta del medico competente ex l. n. 81/2008 e non del dirigente medico ASL di istituto, come erroneamente opinato dalla Amministrazione penitenziaria . Ovviamente, valgono le disposizioni di cui all’art. 41, d.lgs. n. 81/2008, con la possibilità di emettere non solo giudizi di idoneità, ma anche di idoneità con prescrizioni o inidoneità parziale o totale alla mansione, provvedimenti ai quali il datore di lavoro (direzione) dovrà dare attuazione e la cui importanza sovente non viene compresa dall’utenza, “affamata” di lavoro.
Non bisogna dimenticate, infine, che ai sensi dell’art. 25-bis, o.p., i posti di lavoro a disposizione della popolazione detenuta sono quantitativamente e qualitativamente dimensionati alle effettive esigenze di ogni singolo istituto (altro importante vincolo) e fissati nelle tabelle predisposte dalla direzione dell’istituto, in cui sono separatamente elencati quelli relativi alle lavorazioni interne industriali, agricole ed ai servizi di istituto . Da un punto di vista organizzativo, poi, la direzione dell’istituto elabora ed indica il piano di lavoro in relazione al numero dei detenuti, all’organico del personale civile e di polizia penitenziaria disponibile e alle strutture produttive .
Infine, giova segnalare che l’art. 25-bis, comma 7, o.p., consente di indicare nel regolamento di ciascun istituto le attività lavorative che possono avere esecuzione in luoghi a sicurezza attenuata , disposizione quest’ultima che potrebbe essere letta in combinato disposto con l’art. 20, comma 7, o.p., magari ipotizzandosi l’esercizio della deroga prevista in capo al direttore (questa volta non in chiave restrittiva) in attesa che sia approvato il regolamento di istituto che ne prevede il sostanziale contenuto in termini stabili, visti i tempi biblici per la definitiva approvazione dei regolamenti di istituto.