testo integrale con note e bibliografia

1. Il carcere come formazione sociale.
Il tema del lavoro carcerario va da subito inquadrato nella Carta costituzionale , in modo che costituisca la bussola del ragionamento sulle tutele lavoristiche (e non solo) da garantire ai detenuti.
Come si è avuto modo di sottolineare , possiamo partire dall’art. 2 Cost. attraverso cui rileggere le norme del sistema penitenziario e, in particolare, i profili legati al trattamento e al lavoro come elemento principe tra gli strumenti di reinserimento.
Il carcere, nelle parole di Neppi Modona , è una formazione sociale in cui si svolge la personalità dei detenuti, grazie alle norme contenute negli artt. 2 e 27, comma 3, della Costituzione. La dignità diviene, quindi, chiave di lettura utile per misurare il tasso di adesione (o scostamento) dell’applicazione (diretta o per interpretazione giurisprudenziale) delle norme dell’ordinamento penitenziario al progetto costituzionale.
Se test di tale aderenza alla Carta costituzionale viene condotto lungo la direttrice del lavoro, vale la pena ricordare cosa significhi collocare il lavoro tra i caposaldi su cui è basata la nostra Repubblica: l’onorevole Fanfani, nella presentazione (all’Assemblea Costituente) della formulazione fondata sul lavoro, sottolineò come tale scelta semantica escludesse che la Repubblica potesse «fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui e si afferma(sse) invece che essa si fondi sul dovere, che è anche diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale…».
Ovviamente, e ricollegandomi al dibattito che impegna anche le istituzioni sovranazionali e internazionali, quello a cui ci si riferisce è un lavoro dignitoso, dove l’aggettivo assume una declinazione molto varia: sicuro, non discriminatorio, retribuito equamente anche come forma di lotta alla povertà (obiettivo 8 dell’Agenda 2030).
Se tale considerazione appare scontata per il lavoro nel mercato libero (e forse nemmeno per quello se pensiamo ai temi della sicurezza e del lavoro povero), l’automatismo sovente viene meno quando si parla di lavoro carcerario (nelle sue varie forme infra ed extra murarie). Troppo spesso il lavoro carcerario è stato associato a un’idea di accessorietà rispetto pena , di obbligatorietà (espunta solo nel 2018, con la riscrittura dell’art. 20, legge n. 354/1975, c.d. o.p.), di mero “lavoretto” per occupare il tempo e combattere l’ozio .
Occorre, quindi, guardare al fenomeno in modo diverso, rigoroso, e ragionare, da un lato, sul dato quantitativo (quanto lavoro/formazione c’è per i detenuti) e, dall’altro, avviare una riflessione qualitativa sullo stato dell’arte e sulle iniziative da intraprendere (quale lavoro/formazione ci deve essere per i detenuti). È, altresì, evidente che dato quantitativo e qualitativo si intreccino e riflettano non solo la contrazione ciclica del mercato del lavoro tout court ma soprattutto lo stigma verso il lavoro carcerario , spesso ritenuto poco organizzabile/flessibile, poco qualificato, poco produttivo.

2. La qualificazione del lavoro carcerario.
Tra gli strumenti indicati per realizzare gli obiettivi trattamentali, ai sensi dell’art. 15 o.p. , il lavoro è forse quello più rilevante (insieme alla formazione professionale, alla scolarizzazione ove non preesistente o nel prosieguo degli studi ) e, pur senza pretesa di stilare una graduatoria di valore, il più vocato al reinserimento in risposta alla ratio dell’art. 27 della Costituzione e in stretto legame con gli artt. 1, 2, 4 e 35 della Carta.
Le fonti internazionali ribadiscono l’importanza di considerare, e disciplinare, il lavoro dei detenuti al pari di quello libero . Tra le più note, si ricordano: a) la Raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa del 12 febbraio 1987 che invitava gli Stati a regolare il lavoro carcerario in modo tale da assimilarlo il più possibile a quello libero; b) la Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa dell’11 gennaio 2006, rivista nel 2020, che prevede l’equa remunerazione per il lavoro dei detenuti.
La stessa Costituzione tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35) mettendo al centro la persona (art. 2) ; l’art. 20, c. 3, o.p. sancisce, poi, che «l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale».
Nel 2006 ciò fu sugellato dal passaggio di competenze dal Magistrato di sorveglianza al Giudice del lavoro in merito a reclami inerenti l’attribuzione della qualifica lavorativa, la mercede e la remunerazione, lo svolgimento delle attività di tirocinio e di lavoro e le assicurazioni sociali, mentre rimane la competenza del Magistrato di sorveglianza per il rilascio del provvedimento di ammissione al lavoro all’esterno (art. 69, c. 5, o.p.), così come avviene per gli altri casi che concernono l’uscita dagli istituti (permessi, semilibertà, ecc.).
Il riferimento all’obbligatorietà del lavoro, espunta dall’art. 20 o.p. nel 2018 (supra § 1), alimentò la difficoltà di inquadrare il rapporto nel libero incontro della volontà delle parti (contratto), confermata dalla Consulta chiamata a vagliare l’il¬le¬git¬ti¬mità della norma dedicata alla mercede ridotta per i detenuti lavoratori . Tra le ragioni addotte per salvare l’art. 22 o.p. (infra § 4), la Corte includeva proprio il fatto che il rapporto originava «da un obbligo legale e non da un libero contratto», conferendo così una specialità genetica a cui ne seguiva, quasi automaticamente, una regolativa, influenzata dall’ordinamento carcerario .
Il dibattito coinvolse anche la dottrina lavoristica che spostò l’at-tenzione non tanto sul contratto quanto sul rapporto di lavoro – innegabile e sussistente tra le parti (fossero imprese private o l’Am-ministrazione penitenziaria) – collocandolo, da un lato, nel¬l’al¬veo di una prestazione di diritto pubblico risultante dall’obbligo di cui si è detto oppure, dall’altro, in un regime speciale non incompatibile con la subordinazione ex art. 2094 c.c. derivante da un atto avente forza di legge .
In contributi precedenti la riforma del 2018, si è parlato di specialità oggettiva, in merito all’obbligazione legale da cui sorgeva il rapporto di lavoro; di specialità soggettiva, a fronte della restrizione della libertà personale dei lavoratori . Pur assumendo indubbio valore descrittivo di una realtà complessa e dotata di unicità, non pare suffragare l’esclusione del rinvio alla disciplina protettiva generale, come confermato anche dall’art. 20, c. 13 o.p., che sancisce l’applicazione delle norme sull’orario di lavoro, sulle ferie retribuite, nonché delle tutele previdenziali ed assistenziali .
La specialità del rapporto sussiste, invero, qualora vi sia un’al¬te¬razione dello schema causale; diversa è, invece, l’ipotesi dei rapporti di lavoro a disciplina speciale che, pur non deviando dalla causa, necessitano di alcune modulazioni in ragione di peculiari caratteristiche che spesso attengono alla natura del datore di lavoro (lavoro pubblico, lavoro domestico, ecc.). Questa seconda opzione, confortata dagli insegnamenti di Napoli , risulta preferibile e qui accolta nell’inquadramento del lavoro carcerario, nonché in parte confermata dal mutamento di prospettiva della dottrina, più interessata alla disciplina del rapporto (con il lavoratore-detenuto) – che si può ritenere riconducibile al «prototipo normativo» costituito dal genus lavoro subordinato – che alla specialità del rapporto stesso.
Stiamo, quindi, parlando di un lavoro equiparabile, nella tipicità e nelle connesse tutele, a quello svolto fuori dal carcere, dignitoso, senza ulteriori distinzioni tra lavoratori-detenuti e lavoratori-liberi e tra lavoratori-detenuti alle dipendenze dall’Amministrazione o da datori di lavoro esterni.
Ciò appare limpido nella sentenza della Cassazione del 5 gennaio 2024 , occasionata dalla mancata erogazione della Naspi a un detenuto che aveva svolto attività lavorativa inframuraria, che offre un’articolata motivazione che corrobora quanto affermato. L’assimilazione del lavoro c.d. domestico (ossia reso a favore dell’Amministrazione penitenziaria, infra § 3) al lavoro subordinato reso nel mercato libero diviene, nelle parole del giudice, la chiave di volta per declinare la dignità della persona nelle formazioni sociali, tra cui si annovera il carcere, pur con la sua connotazione totalizzante. Da qui non può che discendere l’applicazione della tutela lavoristica ai sensi dell’art. 20, c. 13, o.p. (punto 25 motiv.) alla luce, inoltre, della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo .
Secondo la Suprema Corte, il trattamento, definito nell’art. 15 o.p. e volto al reinserimento sociale, non altera la sinallagmaticità del rapporto seppur nella consapevolezza del «potenziale rieducativo della prestazione di lavoro» (punto 20 motiv.) che è maggiore proprio se il lavoro carcerario non viene distinto da quello libero (punto 21 motiv.).
Ancora, nella sentenza del febbraio 2025 , la Cassazione ribadisce che «le peculiarità derivanti dalla connessione tra profili del rapporto di lavoro e organizzativi, disciplinari e di sicurezza, propri dell’ambiente carcerario, non elidono la configurazione tipologica e strutturale del rapporto subordinato intramurario né scalfiscono il nucleo essenziale dei diritti del lavoratore nell’ambito delle tutele costituzionalmente garantite e disciplinate dall’ordinamento» (punto 5 motiv.), anche in ragione del fatto che l’evoluzione normativa e giurisprudenziale ha «eroso nel tempo il carattere di specialità del lavoro intramurario (…) conservando il rapporto la sua causa tipica, la sua funzione economico sociale, inerente allo scambio sinallagmatico tra prestazione lavorativa e compenso remunerativo» (punto 6 motiv.).
In tale solco di assimilazione al lavoro reso nel mercato libero , sotto il profilo dell’inquadramento e delle tutele, andrebbe inclusa un’operazione di revisione semantica della denominazione delle mansioni affidate ai lavoratori-detenuti; è abbastanza aberrante il processo di infantilizzazione che connota espressioni come spesino, scopino, portapane (o l’immancabile domandina), che cristallizza una semantica patriarcale della vulnerabilità.
Ciò avviene in tutti gli istituti, nonostante la circolare del Ministero della Giustizia del 31 marzo 2017 abbia stabilito che il processo di avvicinamento tra realtà interna ed esterna al carcere trovi un importante veicolo nel linguaggio.

3. Le forme del lavoro carcerario.
Accedendo al sito del Ministero della Giustizia è possibile ripercorrere la lista delle forme di lavoro carcerario che può essere reso alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria. Resta ovviamente l’opportunità di svolgere attività alle dipendenze di soggetti esterni (sia infra che extra moenia).
Le due macrocategorie si distinguono in base all’organizzazione dell’attività lavorativa, alla natura del datore di lavoro (per lo più cooperative sociali, ma anche realtà profit), senza alterazione dello schema tipologico del rapporto di lavoro subordinato; a ciò segue l’applicazione delle tutele, anche previdenziali ed assistenziali, riconosciute per il lavoro libero.
Il lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria viene descritto come di tipo domestico , industriale e agricolo .
Dai dati periodicamente raccolti , emerge che il lavoro c.d. domestico è il più diffuso; per la maggior parte si tratta di attività di pulizia, lavanderia, ecc. e di non lunga durata poiché assegnate a rotazione.
Un aspetto poco indagato concerne i profili connessi alla sicurezza sul lavoro . L’art. 3, c. 2, del d.lgs. n. 81/2008 riprende la tecnica normativa già adottata nel 1994, volta, da un lato, all’applicazione generalizzata della tutela prevenzionistica e, dall’altro, alla rimodulazione delle tutele, dove si manifestino peculiari ragioni. La norma include le strutture giudiziarie e penitenziarie, oggetto di apposita disciplina, prima, con il d.m. n. 338/1997 e, ora, con il d.m. del 18 novembre 2014, n. 201 (d’ora in poi: Regolamento).
L’art. 1 del Regolamento definisce il proprio campo di applicazione invocando le «particolari esigenze connesse ai servizi istituzionali espletati e alle specifiche peculiarità organizzative e strutturali» .
Con il decreto del Ministero della Giustizia del 18 novembre 1996 (Individuazione del datore di lavoro) – confermato dal decreto del 12 febbraio 2002 - si era stabilito che la titolarità della posizione di garanzia in materia prevenzionistica gravasse sul Direttore dell’istituto penitenziario (art. 1, c. 1, lett. b), che assume le vesti di datore di lavoro.
Le disposizioni citate non specificano il rapporto sussistente tra il Direttore-datore di lavoro prevenzionistico e i lavoratori-detenuti presenti nel contesto di riferimento, alle dipendenze dell’Amministrazione stessa o di imprese esterne, che tuttavia si possono ricostruire in modo abbastanza lineare, essendo il detenuto addetto al lavoro domestico a tutti gli effetti alle dipendenze dell’Amministrazione , mentre nel secondo caso vanno valorizzate le norme sui rischi da interferenze di cui all’art. 26 d.lgs. n. 81/2008, per gli appalti, e quelle dedotte nelle Convenzioni stipulate con le cooperative/imprese che impiegano lavoratori-detenuti inframoenia.
La modulistica che regola l’attività interna in regime di legge Smuraglia, disponibile sul sito del Ministero, prevede che la società/cooperativa predisponga il documento di valutazione dei rischi, rilasciando copia alla Direzione dell’istituto e all’Ufficio tecnico del Provveditorato generale, e rispetti le norme sull’igiene e la sicurezza sul lavoro, previa formazione dei lavoratori-detenuti. Resta, quindi, necessario valorizzare un’attività di coordinamento e sorveglianza in capo alle figure interne all’istituto, che potrà essere agevolata dall’estensione degli obblighi di formazione anche in capo al datore di lavoro a fronte dell’Accordo Stato Regioni del 17 aprile 2025.
Prima di soffermarmi su un tema alquanto controverso che concerne il contrasto tra l’art. 22 o.p. e il diritto all’equa retribuzione sancito dall’art. 36 Cost., alla luce del principio di corrispettività , si ricorda che la dignità dei detenuti si tutela anche limitando le forme di lavoro gratuito. Il d.lgs. n. 124/2018 ha definito, con l’introduzione dell’art. 20 ter o.p. e con la modifica del comma 4-ter dell’art. 21, un’altra modalità di lavoro penitenziario in un’ottica riparativa: il lavoro di pubblica utilità (LPU), distinto dal lavoro di pubblica utilità come sanzione penale sostitutiva alla detenzione. Su tale istituto ho avuto modo di esprimere forti perplessità , in ragione del fatto che la previsione stride ancora una volta con il dettato dell’art. 36 Cost. e solleva alcune perplessità in merito a vicende, riportate dalla cronaca, di assegnazione di detenuti in LPU alla manutenzione del verde pubblico “al fianco” di cooperative vincitrici di appalti grazie all’abbattimento del costo del lavoro, con il rischio di perpetuare forme di concorrenza sleale giocate sul dumping sociale generato dalla non onerosità della prestazione lavorativa.

4. Il lavoro reso per l’Amministrazione penitenziaria e la falcidia retributiva.
Nel lavoro per l’Amministrazione penitenziaria assistiamo, ai sensi dell’art. 22 o.p., alla falcidia retributiva (decurtazione di 1/3), ossia all’applicazione del tetto dei 2/3 del trattamento previsto dai contratti collettivi, che costituisce uno degli scollamenti più evidenti dal dettato dell’art. 36 Cost. Ciò avviene, in particolare, sotto il profilo della sufficienza: l’art. 22 o.p. – pur superato il concetto di mercede per adottare quello di remunerazione – fa riferimento, infatti, solo alla proporzione rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato e rinuncia, invece, al presidio fondamentale dell’equità della stessa. Il fenomeno è diffuso anche in altri ordinamenti, in cui la remunerazione del lavoro dei detenuti è, ad esempio, esclusa dalla disciplina sul salario minimo .
La previsione (della falcidia) andrebbe ovviamente rivista , a maggior ragione perché le pronunce della Cassazione dell’autunno 2023 hanno riscontrato una inidoneità di alcuni contratti collettivi di categoria a presidiare i principi sanciti nell’art. 36 Cost.: la proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro prestato (criterio positivo di carattere generale) e la sufficienza (limite negativo invalicabile e assoluto) volta ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La frammentazione della rappresentanza conduce sempre più spesso a fenomeni di dumping salariale, anche non necessariamente in presenza di contratti c.d. pirata.
Il contenzioso sui differenziali retributivi dei lavoratori-detenuti è abbastanza risalente, visto che prima del passaggio alla competenza del Giudice del lavoro se ne era occupata anche la Magistratura di sorveglianza. La Consulta, nel 2006 , ritenne che l’esclusione della competenza del Giudice del lavoro determinasse una «irrazionale ingiustificata discriminazione» tra lavoratori-detenuti e lavoratori-liberi, sotto il profilo del diritto alla difesa e al contraddittorio, non giustificata dalle esigenze organizzative dell’Amministrazione penitenziaria.
Negli ultimi anni la questione è stata più volte portata all’attenzione della giurisprudenza di merito e legittimità. Strettamente connessa alla diatriba sui differenziali retributivi, al fine di garantire pari dignità ai lavoratori-detenuti anche nell’accesso alla giustizia, è il nodo della decorrenza della prescrizione, cui si può solo accennare.
Nella sentenza del giugno 2024 , confermata con ordinanza del marzo 2025 , la Suprema Corte riconosce che il meccanismo della turnazione – e in particolare la riassegnazione successiva a un periodo di attività, tipica dell’organizzazione del lavoro c.d. domestico – sfugge al dominio e alla volontà del lavoratore-detenuto ; prosegue, inoltre, sostenendo che la prescrizione dovrebbe decorrere dalla cessazione del rapporto. Quest’ultima, tuttavia, non coincide con la scarcerazione ma con la fine del «rapporto unitario di lavoro» che, secondo la Cassazione, dovrebbe essere individuato dall’Amministrazione penitenziaria, ad es. per motivi di età, condizioni di salute. Tale discrezionalità genera un’ulteriore incertezza sul dies a quo della decorrenza e un vulnus nell’accesso alla giustizia del lavoratore-detenuto.

5. Il lavoro reso per datori esterni e i benefici per le assunzioni.
Prima di affrontare il tema degli incentivi alle assunzioni di lavoratori detenuti da parte di datori di lavoro esterno, occorre muovere da una premessa sugli strumenti di conservazione del rapporto di lavoro nonostante l’accesso in istituto penitenziario. Come noto, il lavoratore sottoposto a misure di sicurezza, cautelari o condannato a pene detentive che gli impediscano di svolgere la propria attività lavorativa deve innanzitutto informare il datore di lavoro della propria assenza, nei termini previsti dal contratto collettivo, in modo da evitare un licenziamento o che si integri la nuova fattispecie delle dimissioni per fatti concludenti .
La giurisprudenza ha, infatti, affermato più volte che la detenzione (anche preventiva) per fatti estranei allo svolgimento del rapporto di lavoro non costituisce un inadempimento agli obblighi contrattuali e, quindi, non rappresenta di per sé motivo di licenziamento .
Questo vuol dire che il lavoratore, a seguito della detenzione, non perde automaticamente la propria posizione lavorativa e può richiedere al datore di lavoro, ove disponibile, l’utilizzo di istituti quali ferie, permessi non retribuiti, congedi parentali, un periodo di aspettativa.
Si tratta di un passaggio, spesso non considerato, per mantenere il rapporto di lavoro già in essere, che potrebbe essere adatto nei casi di custodie cautelari o detenzioni (relativamente) brevi.
Per quanto concerne le assunzioni successive all’inizio della carcerazione, l’art. 2, l. n. 193/2000 (c.d. legge Smuraglia), ha modificato il campo di applicazione dell’art. 4, c. 3 bis, della l. n. 381/1991 inserendo tra i soggetti svantaggiati, per cui si applicano i benefici contributivi, anche le persone detenute o internate che vengano assunte dalle cooperative per almeno un mese (o per un periodo pari al triplo della durata della formazione erogata dal datore di lavoro esterno). Gli incentivi spettano, altresì, ad aziende pubbliche o private che organizzino attività produttive o di servizi all’interno degli istituti penitenziari, impiegando persone detenute o internate, per i contributi dovuti a tali soggetti.
La decontribuzione è fissata per decreto al 95% ed è riconosciuta, nei casi di lavoro all’esterno ex art. 21 o.p. o semilibertà, che non abbia avuto inizio con attività inframoenia, alle sole cooperative sociali . L’art. 35 del d.l. 11 aprile 2025, n. 48 (c.d. decreto sicurezza) – approvato il 4 giugno 2025 e di cui non si condivide la matrice repressiva – prevede l’estensione dei benefici contributivi alle ipotesi non previste (lavoratori in art. 21 o.p. o semiliberi assunti da datori non cooperative che non abbiano avviato attività inframoenia), mentendo invariato il regime del credito d’imposta ai sensi dell’art. 3 della l. n. 193/2000 .
Per favorire la prosecuzione dell’attività dopo la scarcerazione, la fruizione dei benefici perdura fino ai 18 o 24 mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo .
L’art. 36 del d.l. n. 48/2025, sancisce, altresì, la rimozione dei limiti di età nell’apprendistato professionalizzante – in genere riservato a soggetti di età compresa tra i 18 e i 29 anni – per i condannati e gli internati ammessi a misure alternative alla detenzione nonché i detenuti assegnati al lavoro esterno ex art. 21 o.p.
Nel disegno di legge del Cnel (n. 1/2024), si propone di inserire nel sistema di collocamento mirato i giovani in uscita dai c.d. Ipm (Istituti per minorenni). Ai sensi dell’art. 3 del d.d.l. avrebbero accesso alla quota di riserva di cui all’art. 18, c. 2, l. n. 68/1999, le ragazze e i ragazzi di età non inferiore ai 18 anni e non superiore ai 25 anni dimessi dagli Ipm e «che abbiano dimostrato partecipazione attiva all’opera di rieducazione attraverso la frequentazione con profitto dei corsi di formazione professionale di cui all’art. 18 del d.lgs. n. 121/2018 e il conseguimento della relativa certificazione rilasciata dal competente soggetto attuatore o dalla direzione dell’istituto». Si individua, altresì, uno specifico “fondo per il reinserimento socio-lavorativo delle persone sottoposte a provvedimenti limitativi o privativi della libertà personale” , alimentato dai versamenti volontari effettuati dal sistema delle fondazioni bancarie a fronte del riconoscimento di un credito di imposta, in analogia a precedenti esperienze positive realizzate in via legislativa con il medesimo strumento (cfr. “Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile” e “Fondo per la Repubblica digitale”).
Infine, nell’Accordo di metà giugno 2024 tra Ministero della Giustizia e Ministero del Lavoro delle Politiche Sociali si è disposto un investimento di 280 milioni di euro per reinserire al lavoro le persone detenute negli istituti penitenziari. I due dicasteri puntano a «promuovere lo sviluppo di attività formative e lavorative per le persone detenute o interessate da misure penali in varia forma; creare attività di supporto a minori e giovani adulti, che si trovino nel circuito della giustizia minorile; sviluppare un modello che accompagni verso il reinserimento sociale, che offra opportunità lavorative e abitative alle persone in uscita dal circuito penitenziario, in esecuzione penale esterna o sottoposti a sanzioni di comunità», come si legge nella nota congiunta diffusa dai due ministeri a margine della firma del Protocollo.
L’Accordo dovrebbe portare alla realizzazione di una serie di interventi orientati a nuovi modelli di inclusione infra ed extra muraria: opportunità lavorative, formative e di inclusione, che li accompagneranno nel percorso di reinserimento, attraverso la promozione di competenze e iniziative di supporto, verso l’uscita dal sistema penale in condizioni di autonomia. Il Progetto di inclusione lavorativa si colloca all’interno del Programma Nazionale Inclusione e lotta alla povertà 2021-2027 .

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