testo integrale con note e bibliografia

1. Cenni introduttivi
Affrontare il lavoro carcerario dalla prospettiva delle fonti chiede di collocarsi in un sistema complesso che può essere oggetto di una riflessione sia sulla base della provenienza, della forza o ancora della posizione nel sistema dei singoli atti, come pure della collocazione temporale e del loro sviluppo diacronico.
Occorre poi tenere conto di come la normativa penitenziaria sia da porre in necessario dialogo con la disciplina di diritto comune , rispetto a cui occorre una verifica di compatibilità, tenendo conto di come, negli anni, il lavoro detenuto si è sempre più decisamente orientato nel segno di una sostanziale assimilazione con quello libero, pure a fronte di alcune peculiarità che indubbiamente persistono (su cui v. lo scritto di Francesca Malzani) .

2. Le fonti penitenziarie in ambito lavorativo dalla prospettiva della provenienza e del rango
Se analizzato dalla prospettiva della provenienza delle fonti, il lavoro penitenziario deve necessariamente riferirsi sia ad atti normativi interni, sia di matrice sovranazionale, afferenti al diritto dell’Unione europea o al diritto internazionale (per i quali si rinvia all’analisi di Paolo Sitzia), in maniera peraltro non dissimile rispetto a quanto accade pressocché in ogni altra materia.
Quanto alla forza delle fonti che vengono in causa, vi è la coesistenza di normative tanto di soft law, quanto di hard law, rientrando sotto la prima categorizzazione atti per lo più ascrivibili al diritto internazionale (come le cosiddette Mandela Rules delle Nazioni Unite, riviste da ultimo nel 2015).
Il contesto interno ha infatti visto un limitato ricorso a strumenti di soft law – linee guida , linee programmatiche, note del Capo del Dipartimento per l’Amministrazione penitenziaria, Convenzioni o Protocolli di intesa o ancora la Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti – pure a fronte di un loro impatto significativo.
Quanto al rango delle fonti sul lavoro carcerario, occorre in primo luogo ricordare la decisa rottura operata, rispetto al sistema previgente, dalla Costituzione nell’affermare il fascio dei diritti e delle libertà delle persone – habeas corpus, principio personalista, principio di solidarietà, di uguaglianza e pari dignità sociale, riconoscimento dei diritti inviolabili, per citarne soltanto alcuni – che non possono essere azzerati per chi viva una condizione detentiva, in ragione delle peculiarità che ciò presenta. L’intera riscrittura dell’assetto delle fonti a opera della Carta costituzionale vede il riconoscimento del lavoro quale fondamento della Repubblica e vero e proprio diritto della persona, altresì fissando l’orientamento teleologico della pena nella finalità rieducativa (art. 27, comma 3) di cui il lavoro costituisce parte integrante (art. 15, o.p.).
Con la legge di riforma del 1975, la fonte primaria entra a regolare la materia penitenziaria sottraendola al Regio decreto del 1931 (R.D. n. 787/1931) e dedicando al lavoro alcune disposizioni chiave (artt. 20, 21 o.p.), cui seguono le disposizioni della fonte regolamentare approvata l’anno successivo e interamente riscritta nel 2000 .
Pure a fronte dell’impossibilità di inquadrarle quali fonti, è imprescindibile un riferimento alle circolari, prepotentemente presenti nell’ambito penitenziario e fortemente impattanti sui diritti e sulle libertà delle persone in vinculis, assai più degli atti normativi di rango primario o secondario. Spesso molto articolati e corposi , tali atti amministrativi non di rado restringono persino le previsioni di legge, imponendo una riflessione circa la possibile violazione del principio di legalità e della riserva di legge. Peraltro è stata spesso l’ampiezza delle dizioni di legge ad aprire la strada all’amplificarsi del ruolo delle circolari e conseguentemente della discrezionalità amministrativa, sia nella predisposizione del loro contenuto, sia nell’attuazione, al punto da riconoscere un ruolo significativo. Anche secondo la giurisprudenza, si tratta infatti di atti interni dell’amministrazione non idonei, salvo limitatissimi casi, a spiegare effetti nei confronti di soggetti a essa esterni , ma cui viene riconosciuta una particolare efficacia e capacità di introdurre un novum , fermo restando il non essere inquadrabili tra le fonti .
Per quanto non rientrante tra le fonti , è interessante un rapido cenno all’atto denominato “regolamento di istituto” , poiché secondo il modello approvato dal DAP, è in esso che sono ad esempio indicati i criteri di rotazione e reclutamento di chi sia ammesso al lavoro .

3. L’evoluzione delle fonti nell’ambito lavorativo dalla prospettiva diacronica
Dall’analisi delle fonti in una prospettiva diacronica emerge una prima fase di impermeabilità delle regole penitenziarie al mutato scenario delineato dalla Costituzione che persiste anche negli anni successivi quando prevale un totale immobilismo. Nessuna modifica viene infatti apportata al Regolamento penitenziario del 1931 per adattarlo al nuovo assetto, rimanendo così in vigore, fino alla metà degli ’70, un testo fortemente incentrato sulla netta separatezza del carcere dalla società libera e sulla supremazia speciale, con la previsione del lavoro come attività di matrice afflittiva.
È del 1975, nel cuore di una stagione molto significativa quanto all’attuazione dello Stato sociale, l’approvazione della legge sull’ordinamento penitenziario che segna l’abbandono della fonte secondaria (R.D. n. 787/1931), cui segue il relativo Regolamento di esecuzione (D.p.R. 431/1976). Con tali strumenti normativi che superano, almeno sulla carta, il carattere afflittivo e intimidatorio del carcere, il lavoro diviene elemento centrale del trattamento penitenziario e rieducativo, dunque in chiave di recupero della persona . Per quanto l’inottemperanza al lavoro sia qualificata quale infrazione disciplinare, attestando un venir meno a un dovere assunto , e possa essere valutata negativamente quale mancato progresso trattamentale, l’attività lavorativa viene così a perdere progressivamente il connotato punitivo che la caratterizzava nel previgente sistema .
Peraltro, alle innovazioni introdotte dalla legge penitenziaria seguirono ulteriori sviluppi negli anni successivi in cui prevalsero una logica “premiale” della legislazione e l’aumento del ricorso a misure in ambiente libero, attraverso la riforma del lavoro sostitutivo e delle pene sostitutive, nonché con un complessivo rafforzamento delle forme di diversion che sul contesto penitenziario impattano. La c.d. legge Gozzini (dal nome del primo firmatario) si orientò infatti verso una sempre maggiore sensibilità sul tema, segnando una nuova fase riformistica , in linea con il dettato costituzionale, affiancandosi a ulteriori interventi, come la legge Simeone-Saraceni sulle misure alternative.
L’anno 2000 segna l’avvento della nuova fonte secondaria che riforma l’atto del 1976, perdendo la denominazione di Regolamento di esecuzione, soltanto riferendosi a «norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà» (D.p.R. 230/2000).
Allo stesso anno risalgono alcune importanti riforme sul lavoro penitenziario che rinforzano le tutele delle persone recluse, attraverso l’estensione degli sgravi fiscali e contributivi per le aziende che organizzino attività produttive o di servizi all’interno degli istituti, assumendo chi sia privato della libertà personale.
Nella consapevolezza dell’importanza di un ripensamento complessivo della materia, nel secondo decennio degli anni 2000, prendono il via i c.d. Stati generali dell’esecuzione penale , ossia gruppi di lavoro tematici avviati dal Ministero della giustizia per elaborare proposte di riforma , nell’ambito di un processo meditato e partecipato, assai pregevole nel metodo e interessante nel merito, non raccolto però dal legislatore che ha trasformato in disposizioni normative ben pochi dei ricchi spunti offerti. Ancora in chiave di ripensamento, viene creata la c.d. “Commissione Giostra” , dal nome del suo Presidente, Glauco Giostra, da cui prenderanno poi le mosse alcuni importanti provvedimenti legislativi che ne hanno raccolto gli esiti ; ad esempio, in attuazione di una delega legislativa, si è intervenuti sull’ordinamento penitenziario, inserendo nel trattamento rieducativo, per quanto di interesse nella presente indagine, la formazione professionale e progetti di pubblica utilità, nonché modificando alcune parti relative. Il lavoro ne è risultato profondamente modificato posto che in attuazione della delega legislativa si è contestualmente intervenuti pure modificando numerose disposizioni in tema di condizioni generali, vita detentiva, trattamento, lavoro penitenziario (di cui è stata eliminata l’obbligatorietà), diritti previdenziali e assicurativi, nonché misure alternative . Sono altresì state previste le Commissioni regionali per il lavoro penitenziario, nell’ambito di azioni volte ad agevolare il reingresso nella società libera e rendere così il percorso detentivo più aderente agli obiettivi costituzionali della pena, in particolare rafforzando il lavoro quale elemento del trattamento, come suggerito dalla Commissione c.d. Giostra. Tale risultato viene perseguito anche eliminando definitivamente ogni elemento di afflittività, prevedendo nuove forme contrattuali, ad esempio rispetto all’apprendistato, e in generale favorendo il lavoro esterno, pure attraverso disposizioni ad hoc in tema di retribuzione e tutele verso la sua pignorabilità .
Alcun esito hanno invece avuto i lavori di una successiva Commissione c.d. Ruotolo, incaricata di occuparsi dell’innovazione del sistema penitenziario , al fine di proporre soluzioni in grado di contribuire a migliorare la qualità della vita detentiva .
Alla spinta riformatrice del secondo decennio degli anni 2000 non seguono gli auspicati effetti, anche in ragione del mancato consenso politico , mentre di grande impatto è stata la normativa risalente alla pandemia da Covid-19, che ha riguardato anche il lavoro esterno al fine di ridurre ingressi e uscite dagli istituti così da mitigare il rischio dei contagi .
Nell’ambito delle riforme attuative del Piano nazionale ripresa e resilienza (P.N.R.R.), la riforma Cartabia è da ultimo intervenuta sulla giustizia civile e penale, interessando anche il tema che qui interessa, ad esempio attraverso la considerazione dell’adesione a percorsi di giustizia riparativa ai fini dell’assegnazione al lavoro all’esterno .
Nel quadro di insieme, non è indifferente l’impatto prodotto dalle pronunce della Corte costituzionale sul lavoro in carcere , analogamente a quanto accaduto in altri ambiti , finendo per confermare la specialità dell’istituzione penitenziaria, spesso negata a parole. Così è stato riconosciuto che una remunerazione di gran lunga inferiore al trattamento economico previsto dalla contrattazione collettiva nazionale è controproducente e diseducativa, comunque ammettendola in ragione della differenza delle prestazioni offerte, della spesso scarsa qualificazione professionale e della discontinuità che farebbe venire meno la supposta lesione dei parametri ex artt. 3 e 36 Cost. . Successivamente, la Corte ha rivisto la propria posizione ritenendo che la mancata rispondenza dell’amministrazione penitenziaria al dovere di garantire lavoro qualificato e professionalizzante configuri una violazione della legge, trattandosi di un elemento centrale del trattamento, sistematicamente posto in tensione dalle tipologie di mansioni – per lo più umili e scarsamente formative – offerte ai detenuti .

4. Spunti di tecnica legislativa
Dalla prospettiva della tecnica legislativa e delle dinamiche delle fonti, la legislazione in tema di lavoro carcerario si caratterizza per il massiccio ricorso alla decretazione d’urgenza e per l’impronta marcatamente emergenziale e rimediale, dovendosi sollevare molte perplessità quanto al rispetto della straordinaria necessità e urgenza ex art. 77 Cost., eccezion fatta per il periodo pandemico. Vista la peculiarità del momento e delle condizioni dettate dall’avvento del Covid-19, appare infatti comprensibile l’intervento mediante decreti legge , meno rispetto alla fonti sub primarie come decreti del presidente del consiglio dei ministri , ordinanze del Capo del Dipartimento della Protezione Civile, del Ministro della Salute, dei Presidenti di numerose Regioni e dei Sindaci di molti comuni, pure copiosamente intervenuti, accanto ad altri atti “minori”, come le circolari contenenti precisazioni interpretative e applicative ma anche vere e proprie disposizioni .
Il ricorso allo strumento della legge delega si è manifestato di recente, con una riforma normativa che ha in parte raccolto gli spunti emersi dalla c.d. Commissione Giostra , anche in tema di lavoro .
Sempre trattando di dinamica delle fonti, è pure di interesse analizzare il rapporto fra fonti primarie e fonti secondarie, dovendosi rilevare i passaggi in cui l’ordinamento penitenziario fa ricorso – anche in materia di lavoro – a formule aperte, di mero rimando ad atti successivi di rango inferiore, tipicamente nella forma dei decreti ministeriali di attuazione, per definire quanto non stabilito nella fonte primaria . Il Regolamento penitenziario opera tuttavia in chiave di integrazione della fonte primaria, intervenendo in termini restrittivi rispetto alla legge, pure in presenza di una riserva da inquadrarsi come di tipo relativo . Così, ad esempio rispetto alle modifiche introdotte dal d.P.R. 230/2000 al lavoro esterno laddove si prevedono requisiti aggiuntivi rispetto a quelli indicati nella fonte primaria e il suo inserimento nel programma trattamentale pure non previsto .
Si tratta di aspetti piuttosto problematici sia perché ammettono che una fonte secondaria restringa una di rango primario, sia per l’ingresso di un atto regolamentare in un ambito presidiato dalla riserva di legge, impattando sul fascio di diritti e libertà della persona in vinculis (il diritto al lavoro, alla libertà religiosa, alla salubrità dell’ambiente ) e dovendosi ricordare che a essere chiamato in causa è il principio di preferenza della legge, di legalità e la riserva di legge, a fronte del quale si registra un intervento particolarmente solerte della magistratura di sorveglianza che ha progressivamente assunto il ruolo di garante dei diritti delle persone in vinculis .

5. Uno sguardo di insieme
Andando a una rapida sintesi, l’evoluzione della normativa in ambito penitenziario sembra prefigurare un movimento analogo a quello di un pendolo, in cui forti accelerazioni si sono succedute a fasi di assoluto immobilismo o persino regressione nelle tutele .
Le fonti interne sul lavoro carcerario presentano un carattere complesso e proteiforme comprendendo, accanto alle principali normative di riferimento (ossia la legge sull’ordinamento penitenziario e il relativo regolamento ), una pluralità di atti sia di livello sovranazionale, sia interni; si pensi alle circolari o ai Regolamenti d’istituto di cui sono (o dovrebbero essere) provvisti tutti gli istituti, o altri atti di soft law. Discorso per molti versi analogo vale rispetto alle prassi, la cui mappatura appare difficile, posto che ogni stabilimento detentivo presenta proprie peculiarità che rendono possibile soltanto restituire un quadro di insieme e alcune linee di tendenza, senza possibilità di sistematizzare l’amplia e disomogenea fenomenologia.
In termini generali, anche quanto al lavoro, il contesto penitenziario si caratterizza per quella normazione frammentata e rapsodica, contraddittoria e incoerente, riconosciuta come tipica e riflesso di un sistema “ritardato”, incompiuto, il cui ordinamento è generico, vago e a tratti indeterminato .
Anche la materia giuslavoristica nel contesto penitenziario conferma quella tendenziale ed endemica confusione nel e del sistema delle fonti che si deve alla complessità di un ordinamento i cui atti presentano una considerevole diversità quanto ai modi di ingresso nel sistema e ai piani della produzione legislativa, in modo peraltro non dissimile da quanto accade in altri settori.
Nella costruzione complessa che si è tentato di offrire, il florilegio di fonti rilevanti va dalla Costituzione, laddove afferma il principio della rieducazione e presidia la riserva di legge e il principio di legalità, ad atti minori e alle prassi. Ruolo di primo piano è ovviamente della fonte primaria di riferimento (l. 354/1975) che, nonostante le modifiche che si sono susseguite e i massicci interventi della Corte , è rimasta sostanzialmente intatta nel suo impianto. Ruolo marginale è da riconoscere alle leggi regionali intervenute marginalmente in virtù del riparto di competenze delineato dall’articolo 117 Cost. che riserva tale materia (ascritta all’ambito penale) allo Stato.
Circa le fonti secondarie, il riferimento principale è al regolamento di attuazione (d.P.R. 230/2000) che si affianca a una massiccia presenza di atti minori di grande impatto sulla quotidianità della detenzione, non soltanto in ragione della loro numerosità, ma anche per l’essere spesso il riferimento più diretto, concreto e immediato, degli operatori. Tra questi, è assai significativo il caso delle circolari a cui, pure se non rientranti tra le fonti, occorre rivolgere attenzione per riconoscerle quali atti con cui si producono “regole”, talvolta penetranti, assai copiose e generalmente applicate alla comunità reclusa, così come delle prassi che tanto peso hanno sulla quotidianità della detenzione.
Un ultimo cenno merita il carattere disomogeneo e disordinato delle decisioni dei giudici di merito, che hanno plasmato una giurisprudenza disorganica, profondamente condizionata dal caso concreto sottoposto alla sua attenzione , non potendosi che individuare delle linee di tendenza. Quanto alla Corte di Cassazione, debole è l’unità esegetica che risulta laddove si è proiettata in un ruolo di supplenza a fronte del mancato intervento della Corte costituzionale, non di rado cauta nel rifugiarsi in pronunce di inammissibilità per discrezionalità del legislatore, nella forma dell’incostituzionalità accertata ma non dichiarata, o come additive di principio. Il giudice della legittimità ha così definito alcuni importanti assunti, come ad esempio quanto al riconoscimento del diritto alla NASPI per il lavoratore detenuto , proseguendo con decisione il percorso verso la tendenziale assimilazione del lavoro detenuto a quello libero , ferma restando la specialità derivante dal contesto e dalla condizione personale del lavoratore.

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