TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Gli elementi del trattamento penitenziario.
Ogni trattazione sul carcere, in Italia, non può che iniziare – a parere di chi scrive - con la denuncia del grave stato di affollamento in cui versano gli istituti di pena italiani da un tempo così lungo da far pensare che non sia il risultato di un insieme di fattori ingovernabili ma di un preciso indirizzo di politica criminale, perpetuatasi, per ragioni differenti, nel tempo.
E, se questo è il presupposto dal quale partire, ne discende come corollario che ogni sforzo rivolto a perseguire il fine riabilitativo della pena, così come previsto dal dettato della Costituzione, diventa in tutto o in parte tristemente inefficace.
In una cornice tanto cupa, dare spazio a riflessioni attorno agli elementi del trattamento e alle possibilità di implementarli al meglio diviene quasi esercizio di fantasia, certamente di coraggio.
Fu proprio con coraggio che l’art. 15 dell’Ordinamento Penitenziario, già cinquanta anni fa, immaginò la rieducazione del condannato basata sostanzialmente su 4 pilastri : lavoro, studio, relazioni familiari e attività ricreative e religiose, meglio se comprendenti il mondo esterno.
Tralasciando, in questa sede, valutazioni riguardanti lo stato di effettiva attuazione riservato – nella pratica – a uno strumento tanto importante e cercando invece di dare voce ai reclusi, è possibile affermare che dei quattro elementi menzionati, due assumono il carattere dell’urgenza più estrema, forse anche perchè strettamente connessi : il lavoro e la famiglia.
Di entrambi questi fattori si discute molto e da tempo in letteratura e in giurisprudenza.
Con riferimento all’importanza della relazione familiare (anche inteso come rapporto di coppia) nel percorso trattamentale infra ed extra murario vale la pena ricordare brevemente che nel 2024 è finalmente intervenuta la Corte Costituzionale con una storica sentenza nella quale ha evidenziato l’insopprimibilità del diritto all’affettività anche da reclusi (seppur con alcune limitazioni legate ai casi più gravi), rimandando al legislatore e all’Amministrazione Penitenziaria l’incombenza di garantirne la fruibilità. Dopo più di un anno dalla menzionata pronuncia, al momento della stesura del presente contributo, si registrano le prime, pionieristiche, attuazioni di quel diritto negli istituti di pena italiani.
Anche l’attività lavorativa è al centro del dibattito sul carcere, sia da parte di accademici e addetti ai lavori, sia anche di chi, nella società libera, lo vorrebbe configurare come strumento di maggior afflizione per tutta la durata della pena detentiva.
L’obiettivo di tutti, seppur perseguito in maniera diversa, pare però essere la riduzione del rischio di recidiva, ossia la désistance,

2. La désistance come obiettivo a cui tendere.
Prima di valutare l’impatto del lavoro sull’eventuale diminuzione del rischio di recidiva, pare utile effettuare un breve riferimento al concetto appena menzionato.
La désistance dal crimine è descritta come « cessation of criminal offending, occuring as a process rather than an isolated event » . Per Blumstain e Nakamura il processo di desitance si produce nel tempo quando il rischio di recidiva di un autore di reato si allinea con quello di una persona che non ha mai commesso crimini. Per comprendere meglio questa posizione, può essere utile rimandare alla redemption theory che identifica tempistiche diverse, anche in base al genere, per il raggiungimento dell’obiettivo di désistance poc’anzi menzionato.
La désistance, ossia l’allontanamento dalla condotta deviante come effetto più o meno diretto del trattamento penitenziario è ritenuta esistente anche se si verificano reati meno gravi, o in numero minore, in intervalli di tempo più lunghi fra loro.
Dopo aver delineato la désistance come un processo e non – come potrebbe erroneamente apparire – un accadimento specifico, cioè il solo fatto di non aver ancora commesso altri reati, è importante richiamare i tre concetti che, nel tempo, numerosi autori hanno delineato nel tentativo di descrivere meglio il percorso di désistance.
In primo luogo, Laub e Sampson introducono l’idea di desistenza primaria (primary désistance) riferendosi a periodi nei quali soggetti con precedenti condotte devianti non commettono reati, ma gli stessi Autori sottolineano anche come la desistenza primaria possa riferirsi all’astensione dal crimine come una parentesi fra due momenti di devianza, aprendo la porta all’idea che la désistance non si configuri solo quando l’attività criminale si interrompe definitivamente.
Quest’idea si rende quanto più necessaria se non si circoscrive il concetto di desitance ad un arco temporale preciso, perchè in questo caso risulterebbe impossibile parlare astrattamente di désistance dal momento che la persona potrebbe ricominciare a commettere reati anche in un tempo molto lontano dall’ultimo commesso.
La desistenza secondaria (secondary desistence) viene definita come il cambiamento della percezione di sè e della propria identità deviante : si passa dall’etichetta di « offender » a quella di « non-offender » resa possibile dall’acquisizione di ruoli e dalla gestiuone di attività compatibili con la legalità . In quest’ottica, l’attività lavorativa diviene elemento particolarmente rilevante per la costruzione di una nuova identità, sebbene con le specificità che andremo delineando.
In ultimo, il concetto di desistenza terziaria (tertiary désistance) così come formulato da McNeill risulta di particolare interesse per il contributo che la società esterna e- quindi – anche il contesto lavorativo possono dare al percorso di allontanamento dal crimine.
McNeill, infatti, collega la buona riuscita dei percorsi di désistance alla capacità degli autori di reato di sentirsi parte di una comunità, creando con quest’ultima un legame che attribuisce motivazioni aggiuntive alla scelta di chiudere con l’illegalità.
A fianco – o come elemento di ritorno – di questo nuovo senso di appaertenenza percepito è necesario però che la comunità sia in grado di confermare alla persona interessata che quella nuova identità basata su valori quali quelli della responsabilità e della legalità viene percepita in maniera positiva oltre che considerata utile per il mantenimento di relazioni basate sulla reciprocità. In tal senso risulta nuovamente evidente come l’inserimento in un contesto lavorativo idoneo e il riconoscimento degli sforzi messi in campo dalla persona che sta scontando (o ha appena finito di scontare) una pena oltre che delle sue eventuali capacità tecniche relative alla mansione affidata, configurano sia un elemento di fondamentale importanza per il rafforzamento della nuova identità che si sta generando, sia la base per rafforzare il sentimento di appartenenza alla comunità lavorativa alla quale si afferisce, entrambe percezioni indispensabili per il buon proseguimento del percorso di désistance.
Come è dunque possibile intendere, la desistenza si produce solo alla presenza di variabili soggettive e socio-culturali che devono coesistere garantendo un buon livello di continuità.
Dal punto di vista soggettivo, se è imprescindibile la scelta dell’indiviuduo coinvolto di attuare (o almeno il tentativo di attuare) stili di vita basati sulla legalità, non possono essere sottovalutati altri elementi rilevanti quali una reale motivazione al cambiamento ; l’avanzare dell’età e l’ambizione verso il raggiungimento di obiettivi prefissati come per esempio, quello lavorativo (sia per quanto concerne la valenza di realizzazione del sè come soggetto in grado di gestire compiti e raggiungere risultati, sia per l’indipendenza economica che ne deriva)
Con riguardo, invece, agli aspetti socio-culturali, la volontà di desistere risulta essere influenzata da elementi di carattere relazionale quali, per esempio – e, appunto, ancora – la disponibilità di un’attività lavorativa, questa volta considerata sotto il profilo della dimensione sociale che quest’ultima implica. Per completezza, vanno menzionati anche altri eventi relazionali importanti quali, per esempio, la decisione di sposarsi, l’arrivo di figli, lo sviluppo di reti sociali positive quali quelle connesse ad ambienti sportivi, di volontariato o di studio o quelle derivanti da un taglio netto con le amicizie precedenti, anche in forza della scelta di vivere in un ambiente nuovo, lontano dalle zone nelle quali si era sviluppata e assestata l’attività delinquenziale.
Tutti questi elementi, presi singolarmente, costituiscono un fattore di svolta, un « turning point » un nuovo inizio che offre l’occasione alla persona deviante per chiudere (o provare a chiudere) con il passato.
La désistance e il lavoro : quali influenze ?
Per queste ragioni l’attività lavorativa è oggetto, da tempo, di numerose indagini empiriche criminologiche che attestano, da un lato, la capacità di incidere in maniera positiva e piena nei percorsi di désistance , ma, dall’altro, la necessità di considerare limiti precisi, relativi a determinate circostanze , connesse per esempio alla capacità del lavoro di generare « sense of purpose », nuovi obiettivi, nella vita della persona coinvolta nell’esecuzione penale.
Tuttavia, anche con le menzionate, chiare, premesse, il rischio di semplificare la portata del lavoro ad elemento sempre positivo va ridimensionato il più possibile.
E’ necessario, dunque, valutare le numerose sfaccettature di significato che l’attività lavorativa può assumere durante e dopo la privazione della libertà.
Nella fase della detenzione, descritta da Goffman come un’esperienza nella quale non esiste la separazione delle sfere di vita poichè tutto avviene in un luogo che, per sua natura, si presenta come un’istituzione totale, governata dall’autorità di un numero esiguo di individui, secondo regole precise che gestiscono la vita di tutti i reclusi , vale la pena di ricordare che il lavoro si configura come un’esperienza completamente diversa rispetto a quella vissuta in libertà.
Nel mondo libero, infatti, le persone hanno il diritto di cambiare lavoro se quello che stanno svolgendo non è gratificane o non è soddisfaciente sotto molti punti di vista, inoltre i lavoratori liberi hanno la possibilità di spendere il denaro guadagnato con il lavoro nel modo che vogliono e secondo priorità determinate personalmente. La loro vita privata non passa (o non dovrebbe passare) al vaglio del datore di lavoro per la vautazione di quali siano le modalità migliori di gestione del denaro guadagnato grazie al contratto di lavoro in atto : ne deriva che il potere del datore di lavoro all’esterno del carcere è grandemente limitato alla sfera prettamente lavorativa.
In carcere, invece, datore di lavoro e gestore della retribuzione spesso coincidono (se si tratta di Amministrazione Penitenziaria) e hanno voce in capitolo sull’uso del denaro guadagnato con l’attività lavorativa (si pensi, per esempio, ai limiti di spesa settimanali, imposti dal carcere, alla limitazione sui beni da poter acquistare e al tetto massimo di soldi da poter inviare fuori dal carcere).
E ancora, la possibilità di lavorare, nella società esterna, può rappresentare una ragione di realizzazione personale che si trasforma in riconoscimento sociale di un ruolo ben preciso, in alcuni casi anche prestigioso, ma rappresenta anche la possibilità – per il singolo - di collaborare alla costruzione di società più evolute . Invece, la condizione di disoccupazione è spesso legata a logiche di discriminazione e stigma, avvicinabili a quelle derivanti da altre condizioni di marginalità quali quelle dell’abuso di sostanze o della commisisone di reati. Anche all’esterno, può pesare la disparità di posizione – e quindi di potere – fra datore di lavoro e lavoratore, per la gestione corretta della quale si fa ricorso alla disciplina nazionale e sovranazionale sul lavoro che regolamenta nel dettaglio la materia, ma all’interno delle mura del carcere, la situazione cambia radicalmente.
L’offerta di lavoro è molto limitata in termini di quialità e quantità (sull’importanza di distinguere fra high quality work e low quality work e, quindi, la persona detenuta non può decidere se l’attività disponibile sia rispondente alle proprie aspettative, necessità, capacità: una volta proposta dall’amministrazione penitenziaria deve essere tendenzialmente accettata, anche perchè un rifiuto potrebbe essere letto in maniera negativa, con riguardo al percorso inframurario predisposto per il soggetto interpellato. Le autorità penitenziarie esercitano anche un potere superiore a quello del datore di lavoro all’esterno del carcere, nel decidere chi possa lavorare e in quali condizioni poichè la proposta dipende, per quasi tutti i lavori disponibili all’interno, dalla presenza di alcuni requisiti che non hanno a che vedere – nella maggior parte dei casi - con le specifiche capacità del soggetto ma con la sua condizione socio-familiare e con la lunghezza della pena da scontare.
In questo modo, competenze specifiche che all’esterno potrebbero essere valorizzate sul campo, vengono ignorate a favore di elementi che, seppur comprensibilmente importanti, non sono sempre in grado di essere percepito come tali dagli interessati..
Il lavoro, durante la detenzione, costituisce – seppur con i menzionati limiti e le suddette peculiarità - anche una possibilità di pasare tempo fuori dalla cella in maniera utile, di guadagnare qualche soldo da mandare alla famiglia o di occuparsi delle innumerevoli pendenze economiche che accompagnano la pena detentiva (dalla multa comminata in sentenza, al mantenimento delle spese penitenziarie, al risarcimento della/e vittima/e…) di cominciare a ricostruirsi un futuro post-pena diverso dal passato che si è concluso con la carcerazione.
Per dirla con Noorda che identifica con il termine « exprisonment », la dannosa estensione degli effetti negativi della carcerazione anche fuori dal carcere, non si può certo negare una valenza positiva svolta dall’esperienza lavorativa, dentro e fuori le mura del carcere
Una interessante ricerca empirica effettuata in un carcere aperto (regime che permette ai detenuti di muoversi all’interno della struttura per svolgere diverse attività, senza la diretta supervisione del personale penitenziario) della Finlandia ha posto l’attenzione su alcuni drivers che possono facilitare o mettere in discussione il buon esito dei percorsi di désistance.
Il primo elemento che emerge è legato alla diffusa percezione ottimistica dei detenuti intervistati nei confronti di un possibile cambiamento positivo nel post pena che, tuttavia, non sempre è in grado di realizzarsi una volta usciti dal carcere per diversi fattori, primo fra i quali l’assenza di una effettiva strategia per la realizzazione degli obiettivi prefissati .
Pare interessante notare che, tra coloro i quali, dichiarano di avere chiaro come ragiungere gli obiettivi positivi necessari per un duraturo rientro nel contesto sociale di appartenenza (nella forma di of « if-then plans » , il lavoro pare essere l’elemento chiave.
Infatti, in accordo sia con le principali teorie di désistance che pongono al centro della buona riuscita di un percorso di allontanamento dal crimine la motivazione e la volontà del singolo individuo pare possibile sostenere che la percezione di sè, proiettata nel post pena, evidenzia elementi di coerenza con quanto accade nella realtà: a livelli di ottimismo nei confronti della riuscita dei percorsi di désistance, corrisponde una più alta percentuale di riuscita mentre a livelli più bassi, caratterizzati da senso di esclusione e stigmatizzazione corrispondono livelli di fallimento dei percorsi di allontanamento dal reato più evidenti (LeBel et al. 2008).
I detenuti che hanno rivelato ottimismo verso la possibilità di allontanarsi dal reato, l’hanno fatto puntando prevalentemente su tre aspetti : il lavoro, la capacità di chiedere aiuto nel momento del bisogno (presentata come una nuova capacità di valutare se stessi e le situazioni in cui si versa per comprendere meglio chi siano gli interlocutori utili per affrontare al meglio le situazioni, evitando di ripetere gli errori del passato) e la solitudine (intesa come riduzione o interruzione dei rapporti interpersonali considerati rischiosi per il mantenimento della scelta di désistance e, quindi, in modo particolare tutti quei rapporti con vechcie amicizie e conoscenze legate al mondo della devianza o dell’abuso di sotanze).
Soffermandosi sul lavoro, i partecipanti alla ricerca lo definiscono come un elemento per autoregolare le proprie azioni durante la giornata, un modo per costruirsi una routine.
Secondo i detenuti del campione considerato dalla menzionata ricerca, avere un lavoro aiuta ad aumentare la propria autostima e a crearsi un livello di autonomia che viene rappresentato come desiderio primario dalla maggior parte dei detenuti che pensano alla propria vita post carcere. Un altro aspetto interessante riguarda il fatto che, per molti intervistati, il reato aveva rappresentato un momento di particolare interesse perchè strettamente connesso all’idea di piacere, al fatto che la vita potesse essere organizzata senza dover tenere in conto impegni prefissati, da rispettare.
Di contro, avere un lavoro permette di porre dei limiti al tempo vuoto, tipico dei giorni devianti e di far comprendere alla persona, per esempio, che restare fuori tutta la notte o fare uso di alcol o di sostanze risulta difficilmente compatibile con la necessaria presenza quotidiana e regolare sul posto di lavoro.
In quest’ottica, l’attività lavorativa non risulta più solo importante in quanto tale ma diviene un strumento di autoregolamentazione del comportamento che contribuisce a rendere più concreta la possibilità di perseguire un piano di désistance duraturo.
Iniziare a dover gestire un’attività lavorativa fin dal primo arrivo in carcere può quindi contribuire a porre le basi per un percorso di rafforzamento dell’immagine del sè, diversa da quella dell’autore di reato e più vicina a quella della persona in grado di mettere in atto strategie di progettazione efficaci, basate sulla lettura dell’azione e della possibile conseguenza (sempre nell’ottica if-then). Prima questa modalità si attiva, prima ha inizio il possibile percorso di allontanamento dal crimine In quest’ottica, l’idea di poter lavorare diventa un valore aggiunto in sè, oltre che essere un elemento indispensabile per la sopravvivenza : per Villman (2021) l’autonomia derivante dalla gestione di un buon posto di lavoro diventa un elemento che può incidere fiortemente nelle scelte di désistance.
Il lavoro non è, però, di per sè sufficiente a garantire la desitance, o almeno, non un lavoro qualsiasi.
E’ necessario che all’impegno lavorativo siano affiancate alcune caratteristiche quali la stabilità, una retribuzione adeguata e un legame di fiducia tra lavoratore e datore di lavoro che rendano significativa per il primo l’esperienza che sta vivendo, in modo da differenziarla e renderla più coinvolgente di quanto non fosse quella di devianza.
In ultimo, essendo almeno due i soggetti coinvolti nella creazione di un rapporto di lavoro – datore di lavoro e lavoratore – è necessario spostare per un attimo l’attenzione anche sui bisogni percepiti del datore di lavoro che si interroga sulla possibile assunzione di una persona in esecuzione penale o ritornata libera da poco. In quest’ottica, spicca senza dubbio il bisogno di ritenere « sicura » l’assunzione, di pensare cioè che la persona precedentemente coinvolta in azioni delittuose presenti un rischio molto basso, meglio se nullo, di ricadere nel reato. Per rispondere a tale bisogno di sicurezza, l’elemento più importante parrebbe proprio essere quello della désistance, cioè il fatto che dall’ultima commissione di reato sia già trascorso un congruo intervallo di tempo (di solito dai 3 ai 5 anni) che però è proprio quel periodo in cui le persone che hanno appena finito di scontare una pena avrebbero bisogno di una attività lavorativa per creare quell’intervallo di tempo « pulito » che i datori di lavoro necessiterebbero invece come prova di affidabilità.
Per Maruna e King la decisione del datore di lavoro sulla possibile assunzione della persona che ha commesso reato è subordinata alla convinzione che egli possa cambiare rotta ed intrraprendere un cammino di legalità : gli Autori descrivono questa convinzione come « belief in redeemability » ; concetto che distingue l’idea che la criminalità sia una scelta fissa e immutabile da quella che la identifica come sempre modificabile.
Sostenere l’una o l’altra versione non è certo scelta indifferente dal momento che l’attitudine o meno ad accettare il reinserimento come un passaggio fattibile e importante discende proprio da questa duplice visione.
Viste la difficoltà di offrire al datore di lavoro, fin da subito, una chiara previsione sulle tempistiche della desistenza, andrebbe almeno tentata una strategia che metta a disposizione dello stesso tutte le informazioni possibili in tema di hard skills (qualifiche formali e tecniche acquisite nel post pena o preesistenti e di soft skills (qualità personali, motivazioni e capacità di gestione di relazioni interpersonali , nell’ottica di instaurare un percorso condiviso, volto alla co-produzione della desistenza.

3. Conclusioni.
Ma se in carcere ci sono persone che prima della commissione del reato avevano un’attività lavorativa stabile, il lavoro potrebbe non essere la chiave di volta per una vita rispettosa delle regole del vivere comune ? Nel tentativo di rispondere a questa legittima domanda, vale la pena sottolineare che Giordano et al. (2002) hanno definito la possibilità di rientrare addirittura nell’attività lavorativa precedente al reato come un « hook for change » che, quando presente, può svolgere una funzione particolarmente interessante in tema di désistance. A conferma di ciò, alcuni detenuti coinvolti nello studio svedese menzionato hanno espresso ottimismo in relazione al mantenimento della scelta di désistance, quando consapevoli di poter contare ancora sulla disponibilità dell’attività lavorativa pregressa.
Inoltre, non va dimenticato che non tutte le esperienze di lavoro si presentano come positive: esistono infatti situazioni nelle quali attività precedenti al reato, in condizioni di sfruttamento, precarietà, insicurezza (quindi prive di quelle caratteristiche valorizzate nei paragrafi precedenti) possono aver reso l’attività particolarmente stressante e, in soggetti fragili, anche elemento tale da aver contribuito a determinare la scelta deviante insieme ad altri fattori sociali e personali.
Ciò che emerge dai dati a disposizione è che, oggi più che mai, l’intuizione di attribuire al lavoro una valenza fortemente positiva nei percorsi trattamentali, inserita nella normativa del 1975, risulta particolarmente attuale e valida, a patto che non si trascurino gli elementi che garantiscono dignità ed efficacia all’esperienza e si costruisca un percorso il più possibile personalizzato e rispondente alle specifiche esigenze del singolo.
La discussione ritorna quindi al drammatico problema del sovraffollamento che, oltre che ad abbassare irrimediabilmente il livello delle condizioni di vita in carcere, rende difficile la adeguata presa in carico di tutti i detenuti da parte delle figure professionali che si occupano di trattamento, rischiando così di svuotare anche l’esperienza lavorativa della sua potenziale connotazione positiva, trasformandola, al contrario, nell’ennesimo elemento a sostegno della scelta deviante.
Per non perdere l’occasione offerta dal lavoro, non resta dunque che sperare in nuove scelte coraggiose della politica e del legislatore, possibilmente nel breve periodo.

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