testo integrale con note e bibliografia

1. Il lavoro dei detenuti nel quadro degli strumenti pertinenti dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro: premessa.
L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) dedica al lavoro dei “condannati” una sola norma esplicita, collocata nella Convenzione n. 29 del 1930, nell’ambito delle eccezioni al divieto di lavoro forzato o obbligatorio.
Il dibattito prodromico all’approvazione della Convenzione n. 29 si svolse parallelamente all’esame, in seno all’OIL, delle diverse problematiche relative al lavoro dei detenuti, realizzato su impulso della Risoluzione dell’Assemblea della Lega delle Nazioni del 30 dicembre 1930, e confluito in un memorandum, pubblicato sulla Rivista Internazionale del lavoro nel 1932 .
I risultati del memorandum misero in evidenza le complessità del problema del lavoro nelle carceri, focalizzandosi sull’individuazione delle basi giuridiche dell’amministrazione delle stesse e dell’organizzazione del lavoro nelle carceri, sulla questione della competizione tra il lavoro dei detenuti ed il lavoro libero, sulle diverse questioni sociali inerenti la materia e, infine, su taluni aspetti connessi all’assistenza da garantire ai detenuti nella fase della scarcerazione.
Richiamando alcune ricerche di fine Ottocento, nelle quali si metteva in evidenza l’importanza di impiegare i detenuti in forme di “lavoro utile”, il memorandum OIL sottolineava la rilevanza, in questa prospettiva, della regola n. 4 della bozza del Minimum Standard elaborato dalla Commissione di Berna, ove si affermava che «the principal aim of the treatment of prisoners should be to accustom them to order and work, and to strengthen their moral character».
Il lavoro, dunque, veniva visto nella prospettiva della “riabilitazione”, e messo in correlazione con le dinamiche d’ordine ad esso correlate, con la prospettiva responsabilizzante garantita dalla ripetizione di mansioni anche ripetitive, soprattutto ove svolte in condizioni di lavoro collettivo; il lavorare insieme, nel quadro di una collaborazione etero-regolata, tipica del lavoro subordinato, veniva dunque vista come esemplare strumento di riabilitazione.
La differenza rispetto al “lavoro libero” veniva già all’epoca individuata nell’elemento dell’assenza di volontà e nel carattere tendenzialmente compulsivo del lavoro, ritenuto, come tale, foriero di un grave pericolo di ingiusto sfruttamento delle capacità lavorative del detenuto, per evitare il quale si concentrava l’attenzione su quattro elementi: i mezzi di produzione, l’obbligatorietà del lavoro, le sue condizioni e l’assistenza alle persone detenute una volta rilasciate.
In relazione al tema del carattere compulsivo del lavoro nelle carceri, il memorandum OIL del 1930, come poi l’art. 2, par. 2, lett. c) della Convenzione n. 29, distingue tra lavoro prestato nei confronti delle amministrazioni penitenziarie statali (esonerato dal divieto di lavoro forzato), e quello prestato in favore di soggetti privati (possibile solo a condizione che il detenuto acconsenta volontariamente).

2. La Convenzione n. 29 del 1930 e il divieto di lavoro “forzato o obbligatorio”.
La Convenzione n. 29 del 1930 rientra tra le Convenzioni fondamentali (i c.d. “core labour standards” ), rappresenta uno degli strumenti principali di protezione dei diritti umani ed è stata adottata nell’ambito della campagna contro la schiavitù, a completamento di quanto previsto dall’art. 5 della Convenzione della Società delle Nazioni, firmata a Ginevra il 25 settembre 1926, intesa ad abolire la schiavitù e la tratta degli schiavi.
La Convenzione n. 29 ha rappresentato il parametro di riferimento per l’elaborazione di numerosi altri strumenti normativi internazionali, sia nell’ambito dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, sia nell’ambito del Consiglio d’Europa.
La Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nella sua terza sessione, il 10 dicembre 1948 a Parigi, con la risoluzione 219077A, prevede, all’art. 4, un generale divieto di lavoro forzato.
Parimenti, il Trattato delle Nazioni Unite, adottato nel 1966 ed entrato in vigore il 23 marzo 1976 (il c.d. Patto internazionale sui diritti civili e politici), all’art. 8, insiste sul divieto di schiavitù, servitù e lavoro forzato o obbligatorio in termini del tutto analoghi alla Convenzione OIL del 1930.
Per quanto concerne la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950, basti ricordare che la stessa contiene, all’art. 4, una norma del tutto corrispondente all’art. 2 della Convenzione n. 29, che viene correntemente interpretata dalla Corte di Strasburgo prendendo a riferimento la Convenzione OIL e gli orientamenti del Comitato di esperti sull’applicazione delle Convenzioni e delle Raccomandazioni dell’OIL (CEACR), atteso che, come riconosce la stessa Corte, «the authors of the European Convention based themselves to a large extent» sulla Convenzione del 1930 .
La Convenzione di Ginevra del 1926 impone alle Parti contraenti di prendere tutte le misure necessarie «pour éviter que le travail forcé ou obligatoire n’amène des conditions analogues à l’esclavage».
Il secondo comma dell’art. 5 della Convenzione del 1926 prevede, al paragrafo 1, che «le travail forcé ou obligatoire ne peut être exigé que pour des fins publiques», mentre i paragrafi 2 e 3 dispongono che nei territori in cui esiste ancora il lavoro forzato o obbligatorio per scopi diversi da quelli pubblici, le Alte Parti Contraenti cercheranno di porvi progressivamente fine, il più rapidamente possibile, e che, fino a quando esisterà tale lavoro forzato o obbligatorio, esso sarà utilizzato solo in casi eccezionali, dietro adeguata retribuzione e a condizione che non possa essere imposto un cambiamento del luogo di residenza abituale.
È inoltre previsto che, in ogni caso, le autorità centrali competenti del territorio interessato si assumono la responsabilità dell’utilizzo del lavoro forzato o obbligatorio.
A quest’ultimo riguardo, la Convenzione n. 29, all’art. 1 prevede espressamente l’obbligo per ogni Stato contraente di abolire nel più breve termine possibile l’impiego del lavoro forzato o obbligatorio “in tutte le sue forme”.
Da questo punto di vista, la Convenzione n. 29 rientra tra le norme che introducono quelle che vengono definite come “interdizioni fondamentali”, poste a presidio di diritti che meritano una protezione rafforzata , al punto da essere annoverata tra le fonti del diritto internazionale consuetudinario anche dalle giurisdizioni di paesi che non l’hanno espressamente ratificata .
Il diritto a non essere sottoposti a lavoro forzato o obbligatorio si applica a tutte le persone, senza alcuna distinzione di età, nazionalità o tipologia o qualificazione giuridica (inerente al carattere subordinato o autonomo del vincolo) del lavoro o servizio prestato.
Il divieto di lavoro forzato ha, dunque, natura perentoria e l’espressione «travail forcé ou obligatoire» è da considerare onnicomprensiva: ciò che caratterizza il requisito del “vincolo”, nella prospettiva della Convenzione n. 29, è l’elemento della costrizione, caratterizzato dall’assenza di consenso libero e di libertà .
Una situazione di lavoro forzato deve dunque ritenersi determinata «dalla natura del rapporto tra una persona ed il “datore di lavoro”, e non dal tipo di attività svolta, dalla legalità o dall’illegalità dell’attività ai sensi del diritto nazionale, né dal suo riconoscimento quale “attività economica”» .
Tuttavia, come ha osservato il CEACR , l’imposizione di un “lavoro o di un servizio” si distingue dai casi in cui sia prevista dall’ordinamento nazionale la necessità di seguire una formazione o un addestramento.
Peraltro, dal momento che la formazione professionale di solito include una certa quantità di lavoro pratico, la distinzione tra formazione e impiego può presentare la difficoltà di stabilire se in concreto si tratta di formazione professionale o se, al contrario, comporta l’imposizione di lavori o servizi che rientrano nell’ambito di applicazione del divieto di lavoro forzato o obbligatorio.
A questo riguardo devono essere considerati e valutati i diversi elementi che contribuiscono a caratterizzare l’orientamento complessivo di un dato programma di formazione .
L’art. 2 della Convenzione, al paragrafo 1, definisce, invero, il termine “lavoro forzato o obbligatorio” nel senso di «ogni lavoro o servizio», caratterizzato dall’essere «estorto a una persona sotto minaccia di una punizione o per il quale detta persona non si sia offerta spontaneamente».

3. La “menace d’une peine quelconque” e il requisito della “spontaneità” del lavoro.
L’elemento relativo alla «menace d’une peine quelconque» è centrale nella qualificazione del servizio o lavoro come forzato o obbligatorio, e non deve essere inteso in senso restrittivo.
A questo riguardo assume rilevanza interpretativa l’orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo inaugurato con la fondamentale sentenza relativa al caso Van der Musselle deciso nel 1983 . La Corte di Strasburgo, nella motivazione, ha ritenuto che per determinare se si tratta di lavoro forzato o no, occorre valutare se, nello specifico, sussista la minaccia di una sanzione.
Per quanto riguarda l’elemento relativo alla mancanza di volontarietà, la Corte ritiene che «devono essere soddisfatte due condizioni cumulative: non solo il lavoro deve essere eseguito dalla persona contro la sua volontà, ma l’obbligo di eseguirlo deve essere “ingiusto” o “oppressivo”, o, comunque, la sua esecuzione deve costituire “un disagio evitabile”».
La «sanzione» a cui fa riferimento il testo della Convenzione OIL (e, dunque, anche quello della Convenzione europea del 1950) può anche assumere la forma di una perdita di diritti o privilegi. Ad esempio, può consistere nella perdita di diritti, privilegi o altri benefici (come ad esempio promozioni, trasferimenti, eccetera) in caso di rifiuto di prestare lavoro “volontario”, in una situazione in cui tali privilegi e benefici dipendono dal merito accumulato .
In alternativa alla «minaccia di una punizione», la Convenzione del 1930 considera come elemento caratterizzante il lavoro forzato o obbligatorio il fatto che, per lo svolgimento del lavoro, «la persona non si sia offerta spontaneamente» (art. 2, par. 1).
Leggendo congiuntamente i due requisiti relativi da un lato alla “minaccia” di una “punizione” e, dall’altro, all’assenza di consenso, la dottrina evidenzia che la fattispecie è caratterizzata da una dimensione essenzialmente soggettiva; si rileva, infatti, che «l’elemento centrale di questo criterio è la minaccia, che gli conferisce una dimensione essenzialmente soggettiva che deve indurre a mettersi nei panni della vittima di un eventuale lavoro forzato, e fa riferimento, per verificarne l’esistenza, alla situazione particolare in cui la persona stessa si trova» .
Nel considerare la questione del requisito relativo alla «offre de son plein gré», gli organi di vigilanza dell’OIL insistono nella verifica di una serie di aspetti relativi a: forma e scopo del consenso, presenza o meno di una coercizione esterna o indiretta, attribuibile o meno allo Stato, e suo relativo impatto, possibilità di revocare un consenso che sia stato dato liberamente in origine, il che si verifica quando una persona, una volta assunta, scopra di non poter abbandonare liberamente il lavoro o servizio.
Il CEACR ha precisato, al riguardo, che nei casi in cui una persona adulta si sia “volontariamente offerta” per un lavoro o un servizio, tale lavoro, di per sé, non rientra nella definizione rigorosa di lavoro forzato o obbligatorio di cui all’articolo 2, paragrafo 1, della Convenzione.
Ciononostante, gli organi di controllo dell’OIL hanno ritenuto che il lavoratore non può alienare il suo diritto alla libera scelta dell’impiego, con la conseguenza che ogni disposizione che impedisca ad un lavoratore assunto a tempo indeterminato (o per un periodo molto lungo) di porre fine al proprio rapporto di lavoro, deve considerarsi incompatibile con le convenzioni sul lavoro forzato .
Lo stesso vale nel caso in cui il lavoratore sia tenuto a prestare servizio oltre il termine di un contratto a tempo determinato . Inoltre, per valutare se la persona si sia offerta volontariamente o no per un lavoro o servizio, è necessario prendere in considerazione il quadro legislativo e pratico che garantisce o limita questa libertà.
Secondo il CEACR, pertanto, la mera libertà di scegliere tra tutte le categorie di lavoro o di servizio esistenti non è sufficiente a garantire il rispetto della Convenzione quando il diritto nazionale prevede un’autorizzazione generale o prevede un obbligo generale al lavoro, cioè stabilisce un obbligo legale di un lavoro retribuito per tutti i cittadini abili che non siano in formazione.
Una tale circostanza è stata ritenuta incompatibile con le Convenzioni del 1930 e del 1957 .
Allo stesso modo, con riferimento alla “manodopera vincolata”, come nel caso delle persone richiamate per il servizio militare obbligatorio, o che si trovino a scontare una pena detentiva, nel caso in cui venga offerta una scelta limitata tra il lavoro che può essere loro imposto in ogni caso in base alle eccezioni previste dall’art. 2, par. 2, lett. a) e c), e altri lavori che non rientrano in queste eccezioni, il Comitato ha ritenuto che questa relativa libertà di scelta non è di per sé sufficiente per considerare l’accettazione del lavoro proposto come liberamente acconsentita .

4. La Convenzione n. 29 del 1930 e le eccezioni al divieto generale di lavoro forzato o obbligatorio.
La Convenzione n. 29 prevede una serie di eccezioni al divieto generale di lavoro forzato o obbligatorio concernenti lo svolgimento di una serie di lavori espressamente indicati dalla Convenzione.
Il divieto di lavoro forzato o obbligatorio non ricomprende, innanzitutto, il lavoro “facente parte” delle “normali obbligazioni civiche” dei cittadini (art. 2, par. 2, lett. b).
Nel 1930, in occasione della presentazione alla Conferenza Internazionale del Lavoro della bozza di Convenzione, venne espressamente evidenziato, sul punto, che l’eccezione in discorso era stata pensata al fine specifico di escludere ogni interferenza della Convenzione in relazione alle ipotesi in cui i cittadini di un Paese sono chiamati a fornire un servizio di interesse pubblico, legato, in qualche modo, a ragioni di solidarietà civica.
La Commissione di esperti OIL fornisce, come esempio di questa categoria, le stesse tre eccezioni espressamente previste al paragrafo 2 dell’art. 2, ovverosia il servizio militare obbligatorio, il lavoro o servizio richiesto in situazioni di emergenza o forza maggiore, i piccoli lavori di interesse collettivo, eseguiti dai membri di una comunità nell’interesse diretto della comunità stessa, la partecipazione obbligatoria ad una giuria, il dovere di prestare aiuto e soccorso alle persone in pericolo o il dovere di prestare aiuto per assicurare il rispetto della legge e dell’ordine pubblico.
Questa prospettiva va intesa nel senso che le varie ipotesi di esonero devono rispettare i medesimi principi fondamentali: tutte le disposizioni del paragrafo 2 dell’art. 2 della Convenzione devono essere interpretate alla luce delle altre norme della Convenzione.
Questo implica che non può essere ammesso un riferimento (che risulterebbe dunque pretestuoso e abusivo) ai “normali obblighi civili dei cittadini” per consentire forme di lavoro che sono altrimenti vietate , come ad esempio si verificherebbe nel caso in cui dovesse essere reperita manodopera obbligatoria per lavori pubblici di importanza generale o in casi di ricorso al servizio obbligatorio per ragioni di sviluppo nazionale , soprattutto in seguito all’approvazione della Convenzione n. 105.
L’art. 2, par. 2, lett. c) della Convenzione n. 29 esclude, poi, dal concetto, giuridicamente rilevante ai fini della Convenzione medesima, di “lavoro forzato o obbligatorio”, «ogni lavoro o servizio richiesto a una persona a seguito di una condanna emessa in tribunale, a condizione che tale lavoro o servizio venga eseguito sotto la vigilanza e il controllo delle pubbliche autorità e che la persona non sia impiegata o messa a disposizione di singoli privati, o di imprese e società private».
L’esclusione dall’ambito di applicazione del divieto di lavoro forzato o obbligatorio si riferisce dunque ad ipotesi di effettiva pretesa giuridicamente obbligatoria e vincolante da parte della pubblica autorità, che siano però, come più volte ribadito dal CEACR, diretta conseguenza di una condanna emessa da una autorità giudiziaria nel rispetto delle regole del giusto processo e dei principi di diritto, quali la regolarità ed imparzialità del giudizio, l’uguaglianza di fronte alla legge, la presunzione di innocenza, l’indipendenza e imparzialità della Corte e le garanzie di difesa, oltre ad una chiara e preventiva definizione del reato ed in presenza di un modello di non retroattività della legge penale .
Ne deriva che i detenuti in attesa di giudizio e le persone che non siano state giudicate colpevoli non possono essere obbligate a lavorare, così come resta vietata qualsiasi forma di obbligo di lavoro che sia conseguenza di una sanzione amministrativa o che, comunque, sia imposta da autorità amministrative o di altro tipo.
L’art. 2, peraltro, non affronta in modo esaustivo la questione del lavoro penitenziario e si limita, nella sostanza, a vietare il lavoro forzato o obbligatorio a favore di privati, senza esplicitare alcuna disposizione di dettaglio relativamente al lavoro negli istituti di pena pubblici, ove il lavoro sia imposto (dallo Stato) come conseguenza di una decisione giudiziaria.
Questo non significa che, a livello interpretativo, non sia possibile trarre comunque, dalla Convenzione del 1930, qualche linea di principio in materia.
Si è già visto, innanzitutto, che il testo definitivo della Convenzione non contiene alcuna esplicita esclusione del lavoro forzato “correzionale” o penale, e l’emendamento appositamente proposto in tal senso venne respinto dalla Conferenza.
Dal punto di vista interpretativo questa circostanza non può essere sottovalutata, e ci consegna un modello normativo che in termini generali deve ammettersi come comprensivo del lavoro imposto alle persone detenute nella fattispecie del lavoro forzato o obbligatorio, come tale vietato.
Altro, la Convenzione n. 29, non prevede, né sono stati adottati ulteriori e specifici strumenti normativi in materia.

5. L’art. 2, par. 2, lett. c) della Convenzione OIL n. 29.
Il lavoro forzato o obbligatorio è, dunque, consentito a seguito di una condanna , nel limite in cui non implichi condizioni e pratiche assimilabili alla schiavitù, e solamente in presenza delle tre condizioni stabilite dalla lettera c) della Convenzione OIL del 1930, che devono essere intese in senso rigoroso e devono ricorrere cumulativamente.
In primo luogo, il lavoro o servizio può essere preteso esclusivamente come conseguenza di una condanna emessa da un tribunale; in secondo luogo deve essere eseguito sotto la vigilanza e il controllo delle pubbliche autorità; ed in terzo luogo la persona non deve essere impiegata o messa a disposizione di singoli privati o di imprese e società private.
L’art. 2 prevede dunque esenzioni dai divieti di cui all’articolo 1, ma non esclusioni dal concetto di lavoro forzato o obbligatorio nella Convenzione.
In altri termini, il lavoro forzato dei detenuti/condannati sarebbe in generale vietato dalla Convenzione; tuttavia, alle condizioni di cui all’articolo 2, par. 2, lett. c), l’attività lavorativa può essere pretesa/imposta con la forza .
In ogni caso, l’esenzione relativa al lavoro dei detenuti rientra tra quelle espressamente previste per particolari ragioni politiche/di interesse pubblico, a condizione che la pratica sia comunque conforme ai requisiti della Convenzione.
Tutte le cinque categorie di esenzioni previste dall’art. 2, par. 2, invero, presentano una duplice caratteristica comune.
Da un lato, si tratta di esenzioni di applicazione generale, riguardando il lavoro che potrebbe essere richiesto ad un settore della comunità (generale o particolare) che può comprendere un gran numero di persone.
Dall’altro lato, ciascuna delle cinque esenzioni presenta un tratto distintivo comune, relativo ad un necessario, preteso, beneficio civico generale («general civic benefit») .
La circostanza che la Convenzione assuma che l’esenzione dal divieto di lavoro forzato o obbligatorio per i detenuti sia «in the interests of society in general» implica un requisito di fondo, che consiste nell’esigenza che la società (intesa come collettività) deve necessariamente trarre un interesse dal lavoro (forzato o obbligatorio) dei detenuti/condannati, e questo può dipendere o da un interesse diretto, che si verifica quando i detenuti sono adibiti ad attività di lavoro pubbliche, come la realizzazione di strade o altro (fermi però i problemi del rispetto della Convenzione n. 105 del 1957), oppure l’interesse può essere indiretto, attraverso l’effetto riabilitativo che viene realizzato (o, meglio, che deve essere provocato) dal lavoro che effettivamente realizzi la funzione riabilitativa, oppure comunque, in relazione alla riduzione del rischio di recidiva, con una parallela riduzione delle problematiche di sicurezza.

6. Le Regole penitenziarie europee: linee di connessione con la Convenzione OIL del 1930.
Con riferimento al tema del lavoro forzato o obbligatorio nei confronti dello Stato si può evidenziare che anche a livello regionale le Regole penitenziarie europee, introdotte dapprima con la Raccomandazione n. R (87) 3, adottata dal Comitato dei Ministri il 12 febbraio 1987, in occasione della 404a riunione dei delegati dei Ministri, poi sostituite nel 2006 dalla Raccomandazione Rec(2006)2-rev, adottata dal Comitato dei Ministri il 16 gennaio 2006, in occasione della 952a riunione dei delegati, e successivamente riviste e modificate dal Comitato dei Ministri il 1° luglio 2020, in occasione della 1380a riunione dei delegati, ammettono l’obbligo di lavoro per i detenuti condannati.
La regola 71.2, nell’edizione del 1987, affermava che «i condannati possono essere soggetti all’obbligo di lavoro, tenuto conto delle loro capacità fisiche e mentali, come determinate dal sanitario».
La versione attuale delle regole, anche se con maggiore dettaglio, continua a stabilire che «les détenus condamnés n’ayant pas atteint l’âge normal de la retraite peuvent être soumis à l’obligation de travailler, compte tenu de leur aptitude physique et mentale telle qu’elle a été déterminée par le médecin» .
Questa regola si applica solamente ai «detenuti condannati», destinatari della parte VIII della Raccomandazione, mentre per la genericità dei detenuti, intesi ai sensi delle regole 10.1, 10.2 e 10.3, il lavoro «deve essere considerato come un elemento positivo del regime carcerario, e non può essere in nessun caso imposto come una punizione» .
La regola 26 è tutta dedicata al lavoro e contiene una serie di principi ampiamente riconducibili all’elaborazione del CEACR: nella misura del possibile i detenuti devono poter scegliere il tipo di lavoro che desiderano svolgere, «sous réserve des limites inhérentes à une sélection professionnelle appropriée et des exigences du maintien du bon ordre et de la discipline».
Per quanto riguarda i detenuti condannati, tuttavia, la regola 103.2 prevede l’elaborazione di un rapporto completo sul detenuto medesimo, descrittiva della sua situazione personale, dei progetti di esecuzione di pena che gli sono proposti e della strategia di preparazione all’uscita dal carcere.
Il progetto deve prevedere, nella misura del possibile, un lavoro, un insegnamento, altre attività e una preparazione alla liberazione .
Le regole 105.1 e 105.2, come si è detto, prevedono che un programma sistematico di lavoro deve contribuire a realizzare gli obiettivi perseguiti dal regime dei detenuti condannati, i quali possono essere «soumis à l’obligation de travailler».
Il modello fatto proprio dal Consiglio d’Europa, dunque, in applicazione dell’art. 4 della Convenzione del 1950, ricalca i principi della Convenzione n. 29 dell’OIL, ammettendo, al paragrafo 3, che non è considerato lavoro forzato o obbligatorio «il lavoro normalmente richiesto a una persona detenuta alle condizioni previste dall’art. 5 della presente Convenzione o durante il periodo di libertà condizionale» (art. 4, par. 2, lett. a).
La regola 105.3, sotto altro profilo, stabilisce che qualora i detenuti condannati siano sottoposti ad una obbligazione di lavorare, «les conditions de travail doivent être conformes aux normes et aux contrôles appliqués à l’extérieur».
La prevista assimilazione del lavoro carcerario a quello libero è affermata, in generale, dalla regola 26.7, a mente della quale «l’organisation et les méthodes de travail dans les prisons doivent se rapprocher autant que possible de celles régissant un travail analogue hors de la prison, afin de préparer les détenus aux conditions de la vie professionnelle normale».
L’assimilazione del “lavoro carcerario” al lavoro libero attiene dunque alle modalità di organizzazione e deve essere letta nella prospettiva del riconoscimento del valore rieducativo del lavoro, il che rispecchia le elaborazioni OIL sul tema del lavoro utile, da intendersi, come specificato dalla regola 26.2, nel senso di «travail suffisant et utile», questo solo essendo il lavoro che le autorità penitenziarie dovrebbero sforzarsi di procurare ai detenuti.
Questa regola, nella sostanza, riprende il concetto in virtù del quale il lavoro per i detenuti deve essere considerato nella prospettiva del suo carattere riabilitativo e degli effetti reintegrativi.

7. L’abolizione del lavoro forzato nella Convenzione OIL n. 105 del 1957.
Un quadro dei limiti imposti a livello internazionale al lavoro dei detenuti prestato a favore dello Stato richiede di considerare brevemente anche la Convenzione n. 105.
Questa Convenzione non costituisce una revisione della Convenzione del 1930, ma si presenta come uno strumento integrativo di quest’ultima .
Se la Convenzione del 1930 prevede un generale divieto di lavoro forzato in tutte le sue forme, salvo un certo numero di eccezioni, la Convenzione del 1957 impone la definitiva abolizione di qualsiasi forma di lavoro forzato in cinque casi specifici.
L’art. 1 della Convenzione n. 105 proibisce il ricorso a qualsiasi forma di lavoro forzato o obbligatorio come misura di coercizione o di educazione politica o quale sanzione nei riguardi di persone che hanno o esprimono certe opinioni politiche o manifestano la loro opposizione ideologica all’ordine politico, sociale ed economico costituito (lett. a); come metodo di mobilitazione o di utilizzazione della manodopera a fini di sviluppo economico (lett. b); come misura di disciplina del lavoro (lett. c) o come misura di discriminazione razziale, sociale, nazionale o religiosa (lett. d, quest’ultima introdotta su iniziativa del gruppo dei lavoratori in Conferenza ).
Particolarmente rilevanti sono le fattispecie di cui alle lettere b) e c).
Per quanto concerne il divieto di uso del lavoro forzato «come metodo di mobilitazione e utilizzo della manodopera ai fini dello sviluppo economico» si deve considerare che la Conferenza Internazionale del Lavoro non ha inteso limitare il divieto di cui alla lettera b) all’uso del lavoro forzato come metodo “normale” di mobilitazione e utilizzo della manodopera ai fini dello sviluppo economico, con la conseguenza che la prescrizione in parola si applica solo quando il ricorso al lavoro forzato ha una certa rilevanza quantitativa ed è utilizzato a fini economici , anche quando il ricorso al lavoro forzato è di natura temporanea o eccezionale.
Questo rafforza la correttezza dell’interpretazione della Convenzione del 1930 e la centralità del requisito della normalità quale parametro di ammissibilità generale del lavoro forzato o obbligatorio per le persone detenute.
Il Comitato ha inoltre sottolineato che l’esperienza di quasi tutti i Paesi del mondo dimostra che il lavoro forzato e obbligatorio non rappresenta un modo produttivo di sviluppare l’economia nazionale, ed ha sottolineato che non possono essere ammesse eccezioni ai diritti umani universalmente riconosciuti giustificate in nome dello sviluppo .

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