Testo integrale in PDF

Dobbiamo essere grati a Roberto Voza, per aver scritto, a dieci anni dalla scomparsa, un libro su Gino Giugni ed averci dato occasione di adempiere il “dovere di ricordare”. Dovere tanto più grande per noi seduti a questo tavolo, che abbiamo avuto il privilegio di essere suoi allievi diretti. Forse mio in particolare, ultimo dei suoi laureati baresi, ripescato nonostante avessi deciso di seguire la mia passione per la magistratura, sino al punto di darmi l’onore di collaborare, per trent’anni, alla scrittura del corso di “Diritto sindacale” su cui si sono formate tante generazioni di studenti.
È importante ricordare i grandi in un periodo che Christopher Bollas ha giustamente definito “l’età dello smarrimento”. Ricordare non per cercare ricette, quanto un modo di affrontare i problemi.
Nel farlo, presto attenzione a non scivolare verso ricostruzioni agiografiche. So che Giugni non me lo perdonerebbe, avulso com’era da ogni forma di retorica. Mentre parlo mi sento osservato dall’ironia del suo sguardo, che non ho mai visto incrinarsi, tranne in una occasione, quella in cui dovette commemorare un allievo, amatissimo, prematuramente scomparso.
La vita di Giugni fu intensa e strettamente intrecciata alle vicende che hanno segnato alcuni decenni fondamentali per il nostro paese. Il libro di Voza ricostruisce analiticamente i passaggi fondamentali. Ne richiamo solo alcuni: il viaggio sul “Vulcania” in cui nacque quel sodalizio con Federico Mancini che negli anni a seguire contribuirà al rinnovamento della cultura giuridico-sindacale italiana. L’esperienza statunitense nella facoltà di economia dell’Università del Wisconsin sotto la guida di Selig Perlman, allievo di John Commons. Il riaccostamento al diritto grazie al rapporto con Tullio Ascarelli. Lo studio dei giuristi weimariani e l’incontro con Otto Kahn Freund. La pubblicazione della “Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva” (1960) ed il coevo incarico per l’insegnamento del diritto del lavoro all’Università di Bari. Il protocollo “Intersind -ASAP”, la seconda monografia su “Mansioni e qualifica” (1962), in cui elabora la formula “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa” che troverà spazio nell’art. 3 della legge sui licenziamenti. La costruzione della Scuola barese e la raccolta delle lezioni di diritto sindacale. Il fondamentale contributo alla legge sui licenziamenti e poi allo Statuto dei lavoratori, ma anche alla legge sul processo del lavoro.
Qui mi soffermo un attimo, perché il contributo di Giugni alla legge processuale è meno conosciuto di quello allo Statuto ed invece fu il frutto di un impegno appassionato, nel ricordo degli ultimi anni del padre passati ad arrovellarsi per una interminabile causa di lavoro. Un impegno osteggiato da molti autorevoli processualcivilisti, sino a quando Virgilio Andrioli non espresse una piena condivisione del disegno di legge, individuandovi i tratti di fondo del processo chiovendiano.
Seguirono poi i tempi difficili del protocollo Scotti e dell’attentato BR, che contribuirono alla scelta per l’impegno politico diretto: elezione in Parlamento, presidenza della commissione lavoro del Senato e poi l’incarico di Ministro del lavoro, che portò al protocollo sulla politica dei redditi e l’occupazione del governo Ciampi. E poi ancora l’elaborazione della legge sullo sciopero nei servizi essenziali, seguita dalla presidenza della Commissione di garanzia.
Sono solo alcuni dei passaggi di un percorso che a posteriori sembra sia stato un cursus honorum scorrevole e lineare, ma che invece fu estremamente complesso ed irto di difficoltà. Non è questa la sede per andare al di là dei titoli. Sarebbe impossibile farlo nel breve tempo che mi rimane, che vorrei invece dedicare ad alcune riflessioni sul “metodo giugniano”.
Un punto centrale di quel metodo concerne l’oggetto dello studio del giurista, che non può essere solo il diritto, ma deve necessariamente espandersi e confrontarsi con altri saperi, al punto da sostenere che “chi conosce solo il diritto non conosce il diritto”, non ne ha una comprensione adeguata. Il diritto si evolve proprio nelle terre di confine con la filosofia, la storiografia, l’economia, la sociologia, la psicologia. È in queste interazioni che l’esperienza giuridica trova alimento.
Ma Giugni non superò solo i confini disciplinari muovendosi tra mondi culturali diversi, travalicò anche altri confini. Quelli nazionali sicuramente, formandosi negli Stati Uniti di Perlman e nell’Inghilterra di Kahn Freund e spingendo i suoi allievi ad affrontare esperienze all’estero e a studiare il diritto comparato.
Superò infine i confini professionali. Fu un grande giurista accademico, ma al tempo stesso, come scrisse Giovanni Tarello, fu sempre “fattivo”, collocandosi nei luoghi istituzionali in cui le norme vengono concepite: prima direttore dell’ufficio legislativo del ministero del lavoro, poi senatore, presidente della commissione lavoro del Senato e infine ministro. Osservare la realtà da punti di vista professionali diversi, ne incrementa la comprensione. Essere al tempo stesso legislatore e interprete, migliora la qualità di entrambe le funzioni.
Più a monte, fu un uomo dotato di quella che egli definiva una “cultura pragmatista”, sintetizzandone il succo in questi termini: “bisogna operare secondo il normale processo dell’errore e della correzione dell’errore, mentre noi tendiamo a fare errori, senza essere poi disposti a fare le correzioni”. Ed è evidente che non parlava solo di questioni giuridiche.
Ebbe una straordinaria capacità di creare e guidare un gruppo. L’esperienza dei quindici anni di insegnamento a Bari (1960-1975) è fuori del comune, non solo per il gruppo di allievi che raccolse in quel periodo e che lo ha seguito per una vita, ma anche per il grande numero di giuristi, storici, sociologi, economisti, uomini del mondo delle imprese e del sindacato che riuscì a portare a Bari e coinvolse nell’attività della Scuola di specializzazione. Fu un bene enorme prima di tutto per gli studenti, ma più in generale per la vita culturale della città. Ed è incredibile quante persone, a distanza di tanti anni, siano qui stasera, ancora calamitati dal fascino di quell’insegnamento.
Fu, infine, un intellettuale estremamente chiaro, tanto nel parlare che nello scrivere. Era un dono, ma anche il frutto di una ricerca costante. Quando lavoravamo al “Diritto sindacale” e leggevamo insieme i testi predisposti da me e da Gianni Garofalo, ci diceva, ed in particolare mi diceva: “Spezza il periodo, usa frasi brevi, scrivi in modo tale che qualora il tuo saggio venga tradotto in un'altra lingua quello del traduttore risulti un lavoro facile”.
Ho sempre cercato di rispettare questa regola e quando mi accade di ricevere un complimento per la chiarezza di un mio scritto, dentro di me penso: “grazie Gino”.

 

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.