Testo integrale con note e bibliografia

Testo della sentenza

Introduzione: congiunture economiche e diritto del lavoro.

Nei momenti di difficoltà in cui l’economia registra andamenti depressivi, o peggio recessivi, emerge prepotentemente la connessione stretta, e reciproca, fra le dimensioni economica, sociale e politica dei fenomeni umani. Le crisi sono momenti di rottura che interessano l’equilibrio economico-sociale di una comunità stimolandone il rinnovamento; situazioni in cui l’insostenibilità dello status quo incentiva la ridefinizione politica delle priorità economico-sociali.
Oggetto principale di questo processo è il rapporto conflittuale fra capitale e lavoro, e l’ambito giuslavoristico costituisce il terreno ideale per analizzare suddette dinamiche.
La ripartizione dei costi/benefici economici e sociali fra queste due componenti risponde ad uno specifico ideale politico nonché ad una precisa visione della società e delle priorità al suo interno.
Nella sua celebre lezione G. Lyon-Caen ci ha insegnato la naturale reversibilità della disciplina . Il diritto del lavoro nasce prima di tutto come strumento del capitale attraverso cui giuridicizza la relazione subordinazione del lavoro, in un secondo momento certe condizioni politiche, economiche e sociali ne hanno fatto mezzo tramite cui instaurare uno statuto protettivo in favore della parte debole: i lavoratori. Lungo la costruzione europea possiamo scorgere due periodi contraddistinti da un preciso modus di intendere il rapporto fra capitale e lavoro, e la priorità fra interessi economici e sociali.
Gli anni settanta del novecento hanno coinciso con lo sviluppo del diritto sociale e del lavoro sovranazionale nonostante l’infelice e incerta situazione economica. Le misure comunitarie del tempo definirono un quadro giuridico che attenuasse i costi economico-sociali a carico della componente salariale. Fra queste, le direttive sui licenziamenti collettivi, sul trasferimento d’azienda e sull’insolvenza del datore. Già la Risoluzione del Consiglio del 21 Gen. 1974 relativa ad un programma di azione sociale introduceva gli obiettivi e le finalità, poi riprese nella Carta dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori e, successivamente, tradotte nelle direttive 92/85 sulla tutela delle lavoratrici nel periodo di maternità e 98/59 sul ravvicinamento delle legislazioni nazionali in materia di licenziamenti collettivi. Tali finalità possono essere sinteticamente riassunte in tre formule: il ravvicinamento in progresso delle condizioni di vita e lavoro della manodopera ; il crescente coinvolgimento delle parti sociali tramite procedure di informazione, consultazione e partecipazione ; l’introduzione di disposizioni volte a garantire la conciliabilità fra attività lavorativa e vita familiare .
La reazione alla Grande Recessione e la costruzione del mercato unico hanno concentrato i costi sui lavoratori e gli Stati, le componenti più deboli del quadro economico globale . Ciò ha prodotto non solo l’arretramento del diritto europeo ma, ancor peggio, una tendenza regressiva negli ordinamenti nazionali più progrediti. In taluni casi le interpretazioni della CGUE hanno stravolto l’originario intento sociale e protettivo per privilegiare piuttosto interessi e libertà economiche (es. processi di ristrutturazione aziendale; la massimizzazione dell’integrazione economica ; stabilire la superiorità dell’ordinamento europeo e delle libertà economiche in esso sancite).
Sarà discussa in questa sede la sentenza C-103/16 in quanto espressione di tendenze consolidate pur se, come detto, attinente ad un contrasto diritti e libertà non contrassegnato dalla tradizionale contrapposizione fra ordinamenti nazionale-sovranazionale.

1. La tutela della donna nell’ordinamento spagnolo.

I sistemi giuridici democratici, tutelano le categorie più deboli e sensibili da atteggiamenti arbitrari e discriminatori in relazione al progresso economico-sociale della propria comunità. La debolezza di un gruppo dipende dall’essere oggetto di discriminazioni e dalla minore capacità di affermare e difendere i propri diritti, la sensibilità dalla particolare vulnerabilità psico-fisica.
La donna madre, pare strano precisarlo, ha pure una rilevanza sociale significativa. Per questo la previsione di misure adibite a garantire la conciliabilità fra vita familiare e attività lavorativa mira a consentirle di adempiere ai propri doveri di madre senza rinunciare al contributo del lavoro allo sviluppo della propria personalità e alla realizzazione personale.
Il considerando 24 della Direttiva 2006/54/CE, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, afferma che la particolare condizione biologica della donna legittima l’introduzione di misure protettive della maternità indispensabili all’attuazione di una parità sostanziale.
Nell’ordinamento spagnolo, come del resto nel nostro, la tutela della donna da atteggiamenti penalizzanti opera su tutti i livelli: costituzionale, legislativo ed europeo.
L’Art. 14 della Costituzione vieta espressamente qualsiasi discriminazione basata, fra le altre ragioni, sul sesso, mentre l’Art. 9, co. 2 , affida ai pubblici poteri la promozione delle condizioni affinché la libertà e l’eguaglianza degli individui siano reali ed effettive.
La legge organica 3/2007 per l’uguaglianza effettiva fra donne e uomini non solo richiama nel preambolo i riferimenti costituzionali citati ma pure il conclamato valore di principio giuridico fondamentale e universale. Si preoccupa poi sia di prevenire condotte discriminatorie (es. l’Art. 6 descrive, distingue ed equipara le forme di discriminazione diretta e indiretta; l’Art. 13, co. 1 , nei procedimenti giudiziari su azioni discriminatorie pone l’onere della prova a carico del convenuto) sia di prevedere politiche attive tramite cui concretizzare la parità di genere (es. l’Art. 45 impone alle aziende private il rispetto del medesimo piano di parità previsto nel settore pubblico).
Poi ancora intervengono specifiche disposizioni dello Statuto dei lavoratori spagnolo che all’Art. 4, co. 2, lettera c) , vieta discriminazioni, sia dirette che indirette, sul lavoro per qualsiasi ragione, mentre all’Art. 17, co. 1 , definisce “nullo” qualsiasi atto che riguarda il lavoratore in modo discriminatorio.
L’ordinamento europeo rappresenta un’altra ricca fonte di disposizioni protettive a beneficio della donna, e della lavoratrice in quanto madre. A quest’ultima categoria si riferisce la direttiva 92/85 concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento.
Il considerando 15 e l’Art. 10, punto 1 , prevedono in modo espresso una tutela preventiva, vale a dire un divieto di licenziamento delle lavoratrici nel periodo che intercorre tra l’inizio della gravidanza e la fine del congedo di maternità. La direttiva prevede, sempre all’Art. 10, punto 1, la possibilità di una deroga al divieto nei <>, <> e <>. Al punto 2 si legge che <>. Poi, al punto 3, prescrive una tutela riparativa <>.
Questa direttiva comunque non rispetta i requisiti definiti in C-41/74 Van Duyn per l’efficacia diretta verticale, ovvero la capacità autonoma di produrre diritti e obblighi nei rapporti fra Stato e cittadini. Non ha carattere né incondizionato, né sufficientemente chiaro o preciso, né tanto meno ci troviamo nella situazione in cui lo Stato membro non abbia provveduto entro il termine previsto al recepimento della stessa . Pertanto, la Corte di Giustizia della Catalogna ha proposto un rinvio pregiudiziale (C-103/16) proprio per accertare la corretta trasposizione nell’ordinamento spagnolo della direttiva 92/85, nonché l’interpretazione del combinato disposto fra questa e la direttiva 98/59 sui licenziamenti collettivi.
La questione principale ha riguardato una procedura di licenziamento collettivo, intrapresa da Bankia, che ha coinvolto una lavoratrice proprio nel periodo protetto dalla direttiva 92/85.

2. Riflessione sul considerando 15 e sull’Art. 10, punto 1, della direttiva 92/85: La vulnerabilità psico-fisica della lavoratrice in maternità dipende davvero dalla connessione del provvedimento di licenziamento con il proprio status?

Le costituzioni nazionali del novecento hanno introdotto la cd. “funzione sociale” per ridefinire il rapporto fra interessi individuali e bisogni collettivi. Il secondo dopoguerra ha, più o meno ovunque, indotto un rinnovamento negli equilibri sociali e politici. Ciò ha riguardato soprattutto quei paesi, come il nostro, appena liberati dai regimi dittatoriali . Proprio a questo scopo risponde la nozione di “economia sociale di mercato” elaborata dalla Scuola di Friburgo , di seguito mutuata dall’Unione europea in occasione del Trattato di Lisbona. Definisce un sistema capace di coniugare armonicamente la crescita economica con la progressione e diffusione uniforme del benessere sociale.
La nostra Costituzione, in modo non dissimile, è stata incentrata sul principio lavorista e sul diritto al lavoro sanciti dagli artt. 1 e 4.
Per avere un quadro chiaro e completo della considerazione che i padri costituenti ebbero della famiglia come cellula base della società e della maternità dobbiamo concentrare lo sguardo su specifiche disposizioni del Titolo II sui rapporti etico-sociali (artt. 29-34) e del Titolo III sui rapporti economici (artt. 35-47).
Il titolo III sui rapporti economici è emblema del carattere compromissorio della Costituzione italiana fra il liberismo economico, i valori della sinistra e la dottrina sociale del cattolicesimo. L’Assemblea Costituente ha configurato un sistema misto dove la libertà dell’iniziativa economica e la proprietà privata dei mezzi di produzione coesistono con un forte interventismo pubblico.
Gli artt. da considerare per cogliere l’intenzione dei costituenti circa la tutela della lavoratrice madre e della famiglia dal libero svolgimento delle dinamiche di mercato sono quattro: 31; 37; 41; 42.
L’Art. 31 – <> – e l’Art. 37 – << La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione. La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato. La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione>> – attestano la tutela speciale riservata alla famiglia e alla maternità.
La prima formazione sociale riconosciuta e tutelata appunto è la famiglia, intesa come spazio in cui l’individuo avvia il proprio sviluppo fisico e psicologico, come prima occasione di contatto con gli altri nonché come nesso fra Stato e cittadino. Gli Artt. impongono al legislatore il dovere di disciplinare lo svolgimento dei processi economici e delle attività lavorative creando le condizioni ideali alla formazione della famiglia e allo svolgimento del ruolo di madre integrando i principi dello Stato sociale con quelli del mercato.
L’Art. 41 – << L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali >> – sintetizza più di ogni altro l’intento del costituente di contemperare libertà economica e utilità sociale architettando un sistema economico misto e solidaristico.
La natura ibrida del nostro mercato, tratto distintivo del nostro ordinamento, ha risentito pesantemente del nostro ingresso nell’Unione che diversamente ha una connotazione puramente liberista, sotto molti aspetti accentuata dalla Grande Recessione.
In fine, l’Art. 42 – <> – stabilisce la funzione sociale della proprietà.
Per lungo tempo, e non solo in Italia, venne additata come espediente con cui rilegittimare la proprietà all’interno di un sistema sociale fortemente mutato. Questo perché l’affiancamento di un diritto ad una limitazione ci dà l’impressione di un’antinomia che però è solo apparente. La funzione sociale, difatti, non attiene al diritto sulla cosa ma a quest’ultima.
Il proposito del legislatore è assicurare la destinazione sociale della proprietà che deve, necessariamente, essere a vantaggio di tutti senza però che venga meno il diritto del privato. Ecco perché si parla di vincolo esterno sulla proprietà .
La tutela della lavoratrice in maternità rientra certamente nella funzione sociale dell’attività economica poiché le scelte dell’impresa non possono avvenire in modo assolutamente autonomo ma devono rispondere ad alcune esigenze irrinunciabili della comunità politico-sociale in cui esercita la propria attività.
La maternità parimenti ha una funzione sociale fondamentale in quanto la donna riveste il ruolo di procreatrice ed educatrice. La tutela riconosciuta ha origine proprio dall’imprescindibilità della sua funzione, oltre che dalla debolezza e vulnerabilità già menzionate.
Per questo, la direttiva 92/85 si propone di tutelare le lavoratrici in maternità, anche, da provvedimenti estintivi del rapporto. Al considerando 15 si legge che << […] essere licenziate per motivi connessi al loro stato può avere effetti dannosi sullo stato fisico e psichico delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento [...]>>, mentre all’Art. 10, punto 1, che <>. Quindi il legislatore europeo attribuisce la lesività del provvedimento alla connessione con lo status della lavoratrice.
Il contenuto della disposizione pare mal formulato.
La lavoratrice in maternità va certamente tutela dai provvedimenti di licenziamento ma indipendentemente dalle motivazioni in essi contenute, salvo la possibilità di casi specifici idonei a derogare il divieto. Il datore potrebbe non esplicitare la volontà di concludere il rapporto a causa della condizione della lavoratrice. Anzi, credo vada tenuta in considerazione la possibilità di condotte elusive finalizzate all’occultamento delle cause reali in cui può certamente rientrare l’inclusione della lavoratrice in una procedura di licenziamento collettivo.
Ritengo questa evenienza ben più probabile dopo la sentenza in esame, ciò interesserà soprattutto quegli ordinamenti giuridici, come nel caso spagnolo, che non hanno previsto un elenco tassativo di ipotesi di inoperatività del divieto.
In secundis, la dannosità potenziale del licenziamento dipende dall’incertezza economica-sociale sopraggiunta in un momento di maggiori responsabilità e di minori energie. Affermare che la lesività del licenziamento si verifichi nei soli casi in cui sia connessa alla maternità è un mero artificio.
Se piuttosto fosse stata predetta una pericolosità indipendente dalle ragioni giustificative del provvedimento non si sarebbe potuta proporre un’interpretazione del combinato disposto fra le direttive 92/85 e 98/59, come avvenuto in C- 103/16, che consentisse il licenziamento della lavoratrice tutelata all’interno di una procedura di licenziamento collettivo.
Si sarebbe dovuto tenere presente che pur essendoci delle cause oggettive alla base della procedura di licenziamento collettivo non è affatto escluso che l’inserimento della lavoratrice in maternità sia avvenuto per ragioni differenti. Sarebbe opportuno per questo distinguere le motivazioni oggettive che giustificano l’avvio di una procedura di licenziamento collettivo dalle ragioni che hanno comportato il coinvolgimento dei singoli lavoratori in tale procedura.

3. La causa C-103/16 Porras Guisado c. Bankia: scontro fra prospettive.

L’Avvocato Generale e la Corte di Giustizia hanno adottato prospettive antistanti circa l’interpretazione del combinato disposto fra le direttive in esame giungendo a conclusioni difformi sulla maggior parte (3/5) dei quesiti pregiudiziali. Hanno però concordato in merito alla terza questione che la conformità della trasposizione ai contenuti dell’Art. 10, punto 1 e 3, richiede la previsione di una tutela duplice, preventiva e riparativa, e riguardo alla quarta domanda pregiudiziale hanno condiviso l’inesistenza di un diritto di permanenza prioritaria. È interessante, non di meno, l’iter argomentativo con cui hanno respinto il carattere “ipotetico” della questione, sostenuto da Bankia, in merito all’adempimento del dovere di informazione da parte della lavoratrice rispetto al quale l’Art. 2 della direttiva 92/85 parrebbe subordinare le tutele in essa contenute.
La comparazione dei sentieri argomentativi dimostra non solo la numerosità di letture e soluzioni cui si presta il caso ma, altresì, l’esistenza di un substrato comune nelle pur divergenti posizioni stante nell’eminenza degli effetti protettivi dinnanzi all’eventuale presenza di vizi di natura procedurale e/o formale.

 

3.1. Il “dovere di informazione”: vizi formali e/o procedurali pregiudicano la vocazione protettiva della direttiva?

L’Art. 2 della direttiva 92/85, definisce le categorie destinatarie. Prescrive siano <>, <> o <> le lavoratrici che abbiano avvisato il proprio datore di lavoro conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali.
La Bankia ha, quindi, reputato che le questioni pregiudiziali avessero carattere ipotetico poiché non essendo stata informata dello status della lavoratrice non sarebbero invocabili le tutele disposte dalla direttiva.
Sia l’Avvocato Generale sia la Corte hanno respinto questa ipotesi. Quest’ultima sostenendo che la condizione fosse conosciuta da colleghi e superiori, mentre l’Avv. Gen. ha presentato un’argomentazione più articolata.
Ha chiarito (punto 29) che compete al giudice nazionale verificare l’avvenuta informazione e alla CGUE stabilire se operi comunque la protezione impartita dall’Art. 10, punto 1, della direttiva 92/85. Ha, poi, messo in guardia (punti 36 – 37) sul rischio che un’interpretazione letterale dell’Art. 2 possa pregiudicare la tutela della direttiva stessa poiché il periodo che intercorre tra l’inizio della gravidanza e la fine del congedo di maternità non sarebbe effettivamente coperto qualora subordinato ad un dovere di informazione rigidamente inteso. Va tenuta, anzi, in considerazione la possibilità che la lavoratrice non sia a conoscenza della propria gravidanza oppure abbia bisogno di tempo prima di compiere la comunicazione.
Ulteriormente, attribuisce (punto 38) alla tutela prevista dall’Art. 10, punto 1, il carattere dell’effettività in quanto non sono previste né eccezioni né deroghe fuori dai “casi eccezionali” che discuto nel paragrafo successivo.
Serve un’analisi che non si limiti al contenuto della direttiva per rovesciare l’impressione suscitata dall’Art 2. Va sia ricostruita l’intenzione del legislatore sovranazionale sia esaminata la giurisprudenza precedente.
Già il considerando 2 e il considerando 14 della direttiva 92/85 affermano l’obiettivo di armonizzare nel progresso le condizioni di lavoro e riconoscono la vulnerabilità della lavoratrice nel periodo stabilito dalla direttiva escludendo quindi implicitamente l’appropriatezza di una riduzione di tale lasso di tempo per imperfezioni di natura procedurale.
Rispetto all’intenzione del legislatore probabilmente una lettura complessiva della Carta Comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, da cui le direttive traggono direttamente ispirazione e cui il considerando 5 della direttiva 92/85 fa espresso richiamo, potrebbe fornire indicazioni più precise e ulteriori sulla dignità che questi valori dovrebbero avere all’interno dell’ordinamento europeo. Nel proemio si legge, per l’appunto, che attiene al <> e conferma l’indiscutibile volontà (punto 16) <> e, al considerando 7, che <>.
Dunque, non sembra affatto emergere una preferenza al formalismo giuridico a dispetto della capacità della direttiva di raggiungere i propri ambiziosi obiettivi sociali.
La giurisprudenza europea, in particolare nei casi C-32/93 Webb, C-109/00 Tele Danmark, C-63/08 T-Comalux, c-232/09 Danosa, ha mostrato un orientamento coerente con questa ricostruzione.
Coerentemente con quanto sin qui scritto, in C-32/93 Webb la CGUE ha affrontato la questione indipendentemente dal carattere diretto o indiretto dell’informazione e, quindi, dalla soddisfazione dei requisiti procedurali e formali previsti dalle leggi e/o prassi nazionali stabilendo che l’informazione indiretta non pregiudica le tutele previste.
Addirittura, nella sentenza C-109/00 Tele Danmark , è stata confermata la copertura della direttiva 92/85 anche nei confronti della lavoratrice che abbia nascosto la propria gravidanza al momento dell’assunzione. Le opinioni della Commissione e dell’Autorità di vigilanza competente sono espresse al punto 24 della sentenza: << [...] la Commissione fa valere che la lavoratrice non è tenuta ad informare il datore di lavoro in merito al proprio stato poiché quest'ultimo non ha il diritto di tenerne conto al momento dell'assunzione. L'Autorità di vigilanza AELS aggiunge che, se un tale obbligo di informare il datore di lavoro fosse ammesso, esso rischierebbe di rendere inefficace la tutela delle lavoratrici gestanti istituita dall'art. 10 della direttiva 92/85, mentre il legislatore comunitario ha voluto che tale tutela fosse particolarmente elevata>>. Al punto 28, si fa invece riferimento alla giurisprudenza pregressa << […] la Corte ha già affermato che il rifiuto di assunzione a causa dello stato interessante non può trovare giustificazione in motivi relativi al danno economico a carico del datore di lavoro in caso di assunzione di una donna gestante, durante tutto il periodo di assenza per maternità [...] >>.
In C-63/08 T-Comalux il dovere di informazione è stato oggetto di un’interpretazione estremamente elastica, ammettendo persino la possibilità che il datore sia avvisato successivamente alla decisione del licenziamento stesso. Una siffatta conclusione poggia sull’Art. 10, punto 3, della direttiva 92/85, che prevede una tutela riparativa, volta all’eliminazione delle conseguenze di un licenziamento illegittimo. È precisato al punto 52 che gli Art. 10 e 12 della stessa direttiva non ostano ad una disposizione nazionale che prevede un’azione giudiziaria specifica nei confronti dei provvedimenti estintivi del rapporto e subordinata al rispetto di termini perentori e definiti in anticipo, purché ciò non renda l’esercizio dei diritti in questione né particolarmente difficile, né praticamente impossibile.
In C-232/09 Danosa è stata decisa l’idoneità di qualsiasi mezzo di informazione capace di rendere la componente datoriale consapevole dello status della lavoratrice e, soprattutto, che le modalità procedurali non devono pregiudicare la tutela posta in essere dalla direttiva 92/85. Leggiamo (punto 55): << [...] anche se l’art. 2, lett. a), della direttiva 92/85 rinvia alle legislazioni e/o prassi nazionali per quanto concerne le modalità con cui la lavoratrice informa il datore di lavoro del proprio stato, ciò nondimeno tali modalità non possono privare di sostanza la protezione peculiare della donna sancita all’art. 10 della direttiva medesima [...] Qualora, senza essere formalmente informato della gravidanza della lavoratrice da parte dell’interessata stessa, il datore di lavoro sia venuto a conoscenza dello stato di gravidanza di quest’ultima, sarebbe contrario allo scopo e allo spirito della direttiva 92/85 [...] negare alla lavoratrice interessata la tutela contro il licenziamento di cui all’art. 10 >>.
Quindi sia la CGUE sia l’Avvocato Generale giudicano prioritarie le tutele impartite dal legislatore rispetto alla presenza di eventuali vizi dell’informazione. Sono, pertanto, concordi nel ritenere il contenuto prevalente rispetto alla forma.
In merito al combinato disposto, al contrario, le vedute si biforcano.

3.2. L’interazione fra l’Art. 10, punto 1, della direttiva 92/85 e l’Art. 1, punto 1, della 98/59: equiparazione o corrispondenza parziale?

Nella prima domanda pregiudiziale il giudice a quo pone la questione del rapporto, di equiparazione o meno, fra le formule <> contenuta nell’Art. 10, punto 1, direttiva 92/85 e <> dell’Art. 1, punto 1, direttiva 98/59.
La lettura del disposto combinato fra le direttive, in termini di sovrapponibilità sottrae le tutele riconosciute alla lavoratrice in maternità nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo.
Sia la convenuta Bankia, sia la Corte hanno ritenuto le espressioni prima riportate caratterizzate da un rapporto di equiparazione scontrandosi con le conclusioni dell’Avvocato Generale. Quest’ultimo ritiene le direttive caratterizzate tanto da (punto 50) <> quanto da (punto 52) una <> in quanto la prima di riguarda le lavoratrici in maternità mentre la seconda i lavoratori in generale. Gli elementi comuni attengono al percorso di sviluppo dei valori sanciti dalle due direttive all’interno dell’ordinamento europeo. Una ricostruzione storico-normativa è senz’altro utile a ricavare l’intenzione del legislatore europeo in una dimensione diacronica.
Ho già accennato che gli ambiti trattati dalle direttive sono stati oggetto di un’attenzione comune e parallela già da metà degli anni settanta, periodo in cui si è formalizzato il proposito di uno progresso economico-sociale equilibrato. Ne sono testimonianza sia la Risoluzione del Consiglio del 74 relativa ad un programma di azione sociale, sia le direttive 75/129/CEE sui licenziamenti collettivi, 75/117/CE sulla parità di genere nelle retribuzioni, 76/207/CEE sulla parità di trattamento in ambito lavorativo.
Nel 1989 è entrata in vigore la Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori ” con l’obiettivo di definire <>. Non può che scaturire da un suo attento esame l’individuazione del più appropriato equilibrio fra libertà economiche (nel caso di specie il “diritto del datore di selezionare i propri lavoratori in entrata e in uscita) e i diritti fondamentali (come la tutela delle lavoratrici nel periodo di maternità).
Il caso giudiziario qui trattato dimostra come ciò non sia ancora avvenuto.
L’Avvocato Generale pertanto considera la lavoratrice in maternità rientrante nel perimetro protettivo di ambedue le direttive che, per questo, dovrebbero avere carattere cumulativo.
In aggiunta ha valutato “oggettiva” la protezione riconosciuta dalla 92/85, in quanto non dipenderebbe dalle motivazioni del licenziamento collettivo ma dai maggiori rischi psico-fisici dovuti alla maternità della destinataria.
La maggiore esposizione agli effetti dannosi deriva ad avviso di chi scrive dall’incertezza economica-sociale che seguirebbe all’estinzione del rapporto di lavoro in una fase in cui le responsabilità personali diventano più onerose. Ciò è del tutto indipendente dalla natura vera o falsa, legittima o illegittima, giusta o sbagliata delle ragioni alla base del provvedimento.
Per questo va vietato il licenziamento di lavoratrici in maternità sia nella forma individuale che in quella collettiva.
Secondo quest’impostazione è inevitabilmente opportuno interpretare restrittivamente le motivazioni che assumerebbero rilevanza solo nel caso in cui siano idonee a derogare al divieto imposto dalla direttiva.
I requisiti da soddisfare per non compromettere la finalità stessa della direttiva sono due: l’eccezionalità del caso e la non connessione allo stato di gravidanza, o al periodo di maternità.
Proprio sull’eccezionalità divergono i sentieri intrapresi dall’Avv. Gen. e dalla Corte.
Il primo l’ha interpretata restrittivamente concludendo (punto 64) che pur essendoci una <> fra le formule contenute nelle due direttive manca, invece, la coincidenza fra il requisito dell’eccezionalità e il carattere collettivo del licenziamento. Anzi, ha respinto con decisione e chiarezza l’ipotesi che qualsiasi caso di licenziamento collettivo presenti i requisiti dell’eccezionalità, visto che già la formulazione dell’Art. 1, punto 1, della direttiva 98/59 impiegando tre soglie, tramite cui distinguere suddetti licenziamenti, sia fra loro che rispetto forme alternative di estinzione del rapporto, esclude che si tratti di fenomeni sporadici ma viceversa dotati di una certa regolarità. Infatti ricorda l’Avv. Generale (punto 67) che le procedure di licenziamento collettivo sarebbero, a detta delle istituzioni europee , tanto frequenti e incisive da condizionare lo sviluppo complessivo dell’Unione.
Questo non esclude la possibilità che una procedura di licenziamento collettivo presenti i caratteri dell’eccezionalità. Tant’è che l’Avv. Gen. al punto 69 ricorda che la medesima direttiva 98/59 prevede una disciplina specifica, per esempio, riguardo ai licenziamenti collettivi derivanti dalla cessazione di un’attività disposta da una decisione giudiziaria .
Per queste ragioni il carattere eccezionale del licenziamento collettivo non sarebbe, a suo avviso, generale e, in ogni caso, il suo esame spetterebbe al giudice del rinvio.
All’opposto, la Corte benché dapprima abbia abbracciato quanto affermato al punto 53 delle conclusioni dell’Avvocato generale, ovvero il godimento di ambedue le tutele, ha poi deciso (punto 49) che <>.
È stato così stabilito che qualsiasi procedura collettiva di licenziamento rappresenti di per sé una circostanza eccezionale facendo così coincidere le formule contenute negli Art. 1, punto 1, della direttiva 98/59 e dell’Art. 10, punto1, della direttiva 92/85 sottraendo, di fatto, le tutele riconosciute dalla direttiva alla lavoratrice nel periodo di maternità nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo.
La categoria è così esposta al rischio che il datore attenda l’apertura di una procedura di licenziamento collettivo per sbarazzarsene sfruttando come giustificate ragioni oggettive le cause economiche, tecniche, organizzative o di produzione previste dall’Art. 51 dell’E.T. . Questo, come se non bastasse, è stato oggetto di una riforma legislativa che ha esteso e sfumato i confini della fattispecie inficiando l’attività del sindacato giurisdizionale .
Credo che una siffatta lettura contravvenga l’intento del legislatore europeo e ravvivi l’acceso dibattito sul rapporto fra diritti fondamentali e libertà economiche nel sistema giuridico europeo, anche se il caso di specie resta al di fuori dell’ormai classico contrasto fra ordinamenti nazionale e sovranazionale. Il C-103/16 costituisce un precedente pericolosamente destrutturante per i sistemi giuridici più progrediti, in cui le tutele riconosciute a tale categoria sono ampie e incondizionate.
È interessante su questo aspetto l’articolo di Caterina Pareo che, ponendo a confronto la pronuncia qui analizzata (C-103/16) con la sentenza n. 14515/2018 della Cassazione mette in guardia circa le possibili ricadute negative sebbene la legge di trasposizione italiana (d.lgs 151/2001) abbia minimizzato tali rischi attraverso la tipizzazione delle circostanze che determinano l’inoperatività del divieto di cui farò un breve accenno nelle conclusioni.
Nel paragrafo seguente si analizzano le conclusioni dell’Avv. Gen. e la pronuncia della Corte in riferimento alle questioni seconda e quarta, le quali sono direttamente collegate all’espressione “casi eccezionali”, ossia a quale sia il requisito dell’eccezionalità se, quindi, sia sufficiente il carattere collettivo della procedura di licenziamento o debbano concorrere ulteriori elementi.

3.3. La facoltà datoriale di selezionare i lavoratori in uscita e la tutela di specifiche categorie.

L’Art. 38 della Cost. spagnola – <> ¬¬– enuncia la propria declinazione del concetto di economia di mercato.
La libertà di iniziativa economica non è assoluta ma soggetta all’azione dei pubblici poteri che, anche nella forma più invasiva della pianificazione, sono incaricati di garantirne la sintonia con le esigenze complessive del sistema economico-politico-sociale.
L’Art. 33 – <> – sancisce la funzione sociale della proprietà.
L’attività economica quindi subisce limitazioni su più livelli: costituzionale; europeo; legislativo.
Nell’esercizio della libertà di impresa rientra l’attività di selezione dei lavoratori, sia in entrata che in uscita, che però è circoscritta da norme volte a garantirne il contemperamento con interessi e valori contrastanti: la tutela di gruppi vulnerabili, deboli e/o che svolgono un’attività importante per la società. Fra questi ultimi rientrano, per esempio, sia rappresentanti dei lavoratori onde preservarne il corretto svolgimento della funzione sia le donne per quanto già detto al par. 2.
L’Art. 51.2 E.T. definisce specifici vincoli vertenti sulla componente datoriale nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo. Il coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori e delle autorità amministrative è assicurato dall’avvio dell’intera procedura con la <>, cui seguono la fase <> e quella <>.
La comunicazione deve rispettare stringenti requisiti di forma e contenuto .
Vanno manifestate le <> secondo quanto previsto dall’Art. 51.1 dell’E.T.; va chiarito il numero e la classificazione professionale dei lavoratori coinvolti; va stabilito un <> previsto per il completamento della procedura; l’Art. 51.2, lettera “e)”, impone siano esplicitati i <> di designazione dei lavoratori inclusi nella procedura; vanno infine indicati i componenti del <>.
La non tipizzazione dei criteri di inclusione è l’aspetto più problematico. La giurisprudenza spagnola ha comunque individuato dei punti fermi: il carattere ragionevole e coerente della selezione con le ragioni oggettive giustificative della procedura di licenziamento collettivo. I criteri “negoziati” nella fase di consultazione e “comunicati” individualmente ai lavoratori devono quindi coincidere e non avere carattere discriminatorio. L’assenza di un elenco tassativo di criteri e della loro disciplina pone in capo ai giudici il compito di verificare “caso per caso” la corrispondenza fra i selezionati e le ragioni oggettive del licenziamento collettivo, anche se il controllo interviene solo nelle circostanze in cui il lavoratore abbia dato prova del carattere arbitrario e discriminatorio. Qualora, per esempio, si trattasse di ragioni tecnico-organizzative sarà richiesta una relazione causale con gli inclusi , diversamente se fossero economico-produttive basterebbe escludere la presenza di atteggiamenti arbitrari.
La prerogativa datoriale di selezionare i lavoratori da includere nell’ambito di un licenziamento collettivo per potersi ritenere “oggettiva e proporzionata” deve rispettare: i requisiti procedurali; la documentazione prevista dagli Art. 3, 4, 5, 9 del R.D 1483/2012; l’accordo raggiunto nella fase di consultazione; la relazione fra “criteri-caso concreto” che sarà sindacata dagli organi giurisdizionali competenti.
I criteri di selezione sono rilevanti poiché l’E.T prevede agli Art. 51.4 e 53.1 che i requisiti della lettera di licenziamento collettivo (su cui verte la quinta domanda pregiudiziale della causa C- 103/16) siano gli stessi del licenziamento per ragioni obiettive stabiliti nell’Art. 53, lettera “a”, che prevede la comunicazione della causa individualmente a ciascun lavoratore.
Si tratta della causa della sua inclusione o del licenziamento collettivo? Sembra logico optare per la prima opzione.
Infatti tutti i lavoratori avranno conoscenza del programma di licenziamento collettivo dalla previsione di una fase di consultazione ma non delle ragioni che hanno determinato il coinvolgimento di ciascuno. Nonostante i requisiti previsti dall’Art. 53.1 siano stati mantenuti dalla riforma della legge 3/2012 e che la sentenza 183/2013 dell’Audiencia Nacional abbia concluso che le tutele previste dall’E.T nell’ambito dei licenziamenti individuali siano estendibili a quelli collettivi, la sentenza del Tribunale Supremo 173/2017 ha stabilito che, nel caso in cui la fase di consultazione si concluda positivamente, il contenuto della lettera di licenziamento non deve necessariamente riprodurre i criteri di selezione poiché già definiti nell’accordo.
Ciò attesta l’assenza di una prassi consolidata e la confusione sul tema che però è stata risolta dalla Corte di Giustizia in un senso meno vantaggioso per i lavoratori. Piuttosto avrebbe potuto, pur giudicando il licenziamento collettivo quale circostanza eccezionale, imporre che la lettera di licenziamento facesse riferimento alle ragioni specifiche che hanno determinato l’inclusione della lavoratrice scongiurando l’eventualità che il datore approfitti delle ragioni oggettive di una procedura di ristrutturazione aziendale per liberarsi di lavoratori altrimenti tutelati.

3.4. Le questioni pregiudiziali seconda e quarta: obbligo di riassegnazione e diritto di permanenza prioritaria. Cosa prevede l’Art. 10, punto 1, della direttiva 92/85?

L’Avv. Gen., dopo aver rifiutato che l’“eccezionalità” rappresenti un carattere tipico di ciascun licenziamento collettivo, ha dichiarato (punto 72) la necessità di subordinare l’inclusione della lavoratrice in maternità nella procedura di licenziamento collettivo all’impossibilità di una sua riassegnazione ad altro posto di lavoro che sia coerente con la gamma di competenze professionali possedute. Soltanto nel caso in cui questa sia di fatto impossibile si verificherebbe una deroga legittima al divieto imposto dall’Art. 10, punto 1, della direttiva 92/85. Per questo reputa vi sia un obbligo/diritto di riassegnazione a beneficio della lavoratrice oggetto delle tutele della direttiva.
Si esprime altrimenti in merito alla quarta domanda pregiudiziale circa l’esistenza di un cd. diritto di permanenza prioritaria, dato che né la direttiva 92/85 né la 98/59 impongono agli Stati di prevedere tale diritto per le lavoratrici nel periodo di maternità.
La difformità fra questo e il diritto alla riassegnazione è in effetti sostanziale.
Il diritto di permanenza prioritaria determina l’obbligo alla conservazione del posto della lavoratrice indipendentemente dall’esistenza di una posizione vacante corrispondente. Tale garanzia opera nell’ordinamento spagnolo, secondo quanto disposto dall’Art. 51.5 dell’E.T. e dall’Art 13 del R.D. 1483/2012 , limitatamente ai rappresentanti legali dei lavoratori.
L’Art. 51 dell’E.T sul licenziamento collettivo ottempera a tre funzioni essenziali eppure contrastanti. Le prime due sono di natura sociale e protettiva: impedire atteggiamenti arbitrari e discriminatori del datore e garantire la risarcibilità del danno subito dal lavoratore oggetto di un provvedimento illegittimo. Inoltre, regolamenta i processi di ristrutturazione aziendale conformemente alla direttiva 98/59.
Lo stesso prevede pure la possibilità di propagare tale diritto di permanenza ad altri gruppi tramite la contrattazione collettiva o l’accordo conclusivo della fase di consultazione ed elenca, anche se in modo né esaustivo né vincolante, talune categorie cui lo specifico diritto sia estendibile: i soggetti con carichi familiari, le persone disabili e/o più anziani di una certa soglia.
Non si tratta comunque di garanzie assolute. Sebbene non siano sopprimibili tramite la contrattazione collettiva, possono venire meno in determinate evenienze fra cui, per esempio, l’estinzione della totalità dei rapporti di lavoro presenti in azienda.
Una categoria protetta da tale diritto di permanenza gode, perciò, di una tutela più forte non solo perché selezionabile nella procedura di licenziamento collettivo solo in circostanze stringenti ma anche perché opera una vera e propria tutela preventiva, in linea con quanto previsto dall’Art. 10, punto 1, della direttiva 92/85, difatti un loro licenziamento illegittimo sarà nullo.
Nel caso di specie, C-103/16, l’accordo raggiunto col cd. <> ha definito dei criteri di priorità al mantenimento del posto senza alcun riguardo alle lavoratrici in maternità. Sembra insufficiente la previsione di una fase di consultazione senza un esplicito obbligo di esaminare l’ipotesi di casi rientranti nelle tutele della direttiva 92/85 e di valutare l’attuabilità di soluzioni alternative alla loro selezione.
La Corte ha ritenuto che la direttiva 92/85 non imponga agli Stati membri né una “priorità di riqualificazione”, dunque di riassegnazione, né tanto meno un’ipotesi più vincolante quale la “priorità al mantenimento del posto” e che resta ferma la facoltà dei paesi europei prevista dall’Art. 5 della 98/59 <>.

Conclusioni

Alla luce delle considerazioni esposte il caso trattato pare porsi in continuità con una consolidata giurisprudenza che, indipendentemente dal contrasto fra discipline nazionali ed europea, si distingue per il normale arretramento dei diritti sociali e del lavoro dinnanzi all’esercizio delle libertà economiche.
È doveroso chiedersi quanto saranno destrutturanti le conseguenze di un precedente giurisprudenziale tanto importante. Il rischio è una menomazione della capacità protettiva tanto delle direttive 92/85 e 98/59, quanto delle normative nazionali stesse.
Sicuramente le conclusioni dell’Avvocato Generale hanno mostrato la possibilità di un orientamento differente sul disposto combinato delle direttive basato su una interpretazione più articolata che ha tenuto conto dell’excursus con cui i valori in discussione si sono affermati nell’ordinamento e della giurisprudenza sovranazionale.
Al di là dell’opportunità o meno di una diversa lettura del combinato disposto degli Artt. 10 e 1, rispettivamente delle Direttive 92/85 e 98/59, va almeno tenuto presente che le scelte del legislatore spagnolo in sede di trasposizione – Ley 39/99 de Conciliación de la vida personal, laboral y familiare - hanno inciso in modo determinante sulla questione.
Il legislatore spagnolo non ha difatti tipizzato un elenco di “casi eccezionali” di esclusione del divieto limitandosi a prevedere <>.
Diversamente, il legislatore italiano ha evitato si verificassero situazioni di incertezza tramite la previsione di casi espressi di inoperatività del divieto enunciati nell’Art. 54 del d.lgs 151/2001. Al co. 2 – <> – è prevista come circostanza eccezionale che rende il divieto inoperativo la mancata presentazione di idonea certificazione dello stato oggetto di tutele. Al co. 3 ¬– <> – elenca i casi di esclusione del divieto di licenziamento comprendendo sia la “giusta causa” sia il “giustificato motivo oggettivo” nel solo caso di cessazione dell’attività dell’azienda.
La congiuntura economica negativa, che ha in un primo momento “giustificato” tendenze rivoluzionarie in ambito giuslavoristico e sociale, non può più essere strumentalizzata per legittimare il proseguimento della deriva neoliberista.
L’azione politica, a mio avviso meglio di quella giuridica, dovrebbe individuare dei punti di equilibrio fra diritti sociali e libertà economiche coerenti con gli Stati più avanzati e, quindi, sostenibili dentro lo spazio europeo.
Per questo, prendendo atto della volontà del legislatore spagnolo di non tipizzare le circostanze eccezionali o di esclusione del divieto, sarebbe auspicabile un intervento legislativo sull’Art. 51.5 dell’E.T.
Si potrebbero includere le lavoratrici in maternità nel diritto di priorità al mantenimento del posto di cui godo i rappresentanti dei lavoratori che, in circostanze straordinarie, lascia comunque aperta la possibilità di disporre legittimamente l’estinzione del rapporto. Un’opzione meno radicale potrebbe essere la semplice menzione fra i gruppi “includibili” abbinata ad un esplicito obbligo per la fase di consultazione di discutere l’eventuale coinvolgimento di lavoratrici in maternità garantendo così la dovuta premura a questa categoria che altrimenti, come visto, può non essere adeguatamente salvaguardata dal solo dialogo fra i rappresentanti dei lavoratori e l’azienda.
Riconoscere alle lavoratrici in maternità la priorità “di riassegnazione” o “di mantenimento del posto” sarebbe, fra l’altro, in linea con l’Art. 2, punto 2, della direttiva 98/59 sui licenziamenti collettivi in cui si legge: <<[...] nelle consultazioni devono almeno essere esaminate le possibilità di ridurre o evitare i licenziamenti collettivi, nonché di attenuare le conseguenze [...]>>. Essendo la lavoratrice nel periodo tutelato dalla direttiva 92/85 vulnerabile per la maggiore esposizione al rischio di danni psico-fisici dovuti al licenziamento, individuare meccanismi giuridici con cui scongiurare tali rischi risponde all’obiettivo di ridurre le conseguenze dei licenziamenti previsto nella direttiva 98/59.

 

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