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L’Italia è un paese nel quale fervono, come è noto, le discussioni sui grandi principi. Assai meno attenzione, come se si trattasse di un genere minore di discorso, è di solito dedicata alle modalità di concreta realizzazione degli stessi. L’importante, insomma, è indicare la meta ideale; i dettagli operativi seguiranno.
E se poi, proprio per le carenze o i ritardi di quei dettagli, i principi ne escono traditi nei fatti, la strada è aperta per potersene lamentare, peraltro di solito senza azzardarsi a suggerire quel che, invece, si potrebbe fare per cominciare a cambiare le cose.
Confesso che questi pensieri, tanto banali quanto forse aurei, mi sono sovvenuti leggendo, sul numero n. 2/2019 di LDE, l’articolo che il Presidente Vincenzo Di Cerbo e il Consigliere Fabrizio Amendola hanno dedicato alle “misure organizzative per la nomofilachia” adottate dalla Sezione lavoro della Corte di Cassazione.
In quanto ho detto in esordio è implicito, in effetti, un apprezzamento positivo, tanto per quell’esperienza, quanto per il contributo che ne ha utilmente riassunto, in nome della trasparenza e dell’informazione per gli utenti (primi fra tutti gli avvocati), i passaggi fondamentali, peraltro inserendoli in una più ampia cornice esplicativa.
Mi pare, infatti, che con le misure organizzative in discorso i consiglieri della Sezione lavoro abbiano provato a compiere dei passi concreti e importanti per rendere la nomofilachia qualcosa di più tangibile.
Che poi queste novità facciano discutere, è fisiologico. Ma tanto più le discussioni e le critiche saranno utili, quanto più saranno basate su un meditato bilancio di medio periodo di questa esperienza. Un medio periodo che, per quanto possa dire dall’esterno, e al di là dei primi positivi riscontri in termini di coerenza interna degli orientamenti (che l’articolo a buon diritto rivendica), non mi sembra però ancora trascorso.
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La funzione della nomofilachia – questa misteriosa parola che tutti abbiamo imparato a conoscere, con una qualche soggezione, da studenti – ha un forte radicamento costituzionale “nel principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, il quale non tollera che ogni cittadino ‘eguale’ possa avere dal servizio della giustizia risposte divergenti in ragione della sola diversità degli organi che l’amministrano sul territorio nazionale”. Proprio in virtù di questo radicamento l’alto “magistero” della nomofilachia, come descritto dall’art. 65 dell’O.G., è stato altresì riconosciuto dal Giudice delle leggi.
Ma prendere sul serio la nomofilachia, sostiene l’articolo, significa anzitutto garantirla “all’interno della Corte stessa”. Allo scopo, come è noto, il rimedio istituzionale principe, ai sensi dell’art. 374, co. 2, c.p.c., è la rimessione alle Sezioni unite.
Il quid novi dell’approccio raccontato dall’articolo è consistito, tuttavia, nell’agire fattivamente a monte dell’eventuale conflitto tra sezioni semplici, in modo da prevenire, per quanto possibile, il suo manifestarsi. Ciò in particolare nella forma patologica dei contrasti inconsapevoli e di quelli occulti, i quali sono alimentati, a loro volta, dalla difficoltà di gestire i grandi numeri delle cause iscritte a ruolo (in merito ai quali l’articolo contiene dati aggiornati).
Senza con ciò volerne esagerare l’incidenza quantitativa sul totale delle decisioni della sezione, non c’è avvocato cassazionista, in effetti, cui non sia capitato di incorrere in tali incerti del mestiere. E se è il contrasto inconsapevole quello che ingenera maggiore smarrimento nell’utente, ancora più insidioso è quello occulto, che può giocarsi sul filo di piccole diversità di fattispecie capaci di dare a un principio di diritto un senso totalmente opposto a quello affermato dal precedente cui la sezione intendeva, magari, uniformarsi.
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Tra le misure organizzative adottate, alcune mi sembrano incontestabili a prescindere. Così la ripartizione dei collegi in tre grandi aree specialistiche. Così, soprattutto, lo “spoglio” preliminare dei ricorsi, affidato all’istituita Struttura di Coordinamento Organizzativo, e finalizzato a identificare, con l’indispensabile ausilio delle tecnologie informatiche, le cause seriali o quelle che presentano questioni comuni. Ciò in modo da consentirne la trattazione congiunta per il tramite di udienze monotematiche (inevitabilmente in deroga al criterio cronologico), sì da realizzare una gestione consapevole del contenzioso. E’ da stupirsi, semmai, che ad accorgimenti del genere si sia arrivati soltanto adesso.
Ciò detto, la misura più innovativa e discussa è quella delle riunioni di sezione, rivolte all’“arricchimento (dei) percorsi decisionali attraverso un coinvolgimento reale di tutti i componenti della sezione”. Questo coinvolgimento è scandito da passaggi che l’articolo utilmente descrive, sia nel lavoro di ricerca e negli interscambi informativi preliminari che nella “riunione finale con tutti i componenti della Sezione lavoro, con dibattito approfondito in cui si illustrano e si delineano le varie posizioni, eventualmente individuando quella prevalente”: il che pare alludere allo svolgimento, seppur eventuale, di vere e proprie votazioni.
E’ pur vero che il materiale che esce da queste procedure è presentato dall’articolo come ancora “preparatorio”, dunque non tale da scalfire la “totale autonomia decisionale” di ciascun singolo collegio. Nel contempo, però, di tale materiale i giudici cui capiteranno dei casi identici o simili sono sollecitati ad avvalersi, in modo da pervenire – ecco il concetto chiave - a una decisione “particolarmente idonea a dar luogo ad un indirizzo consolidato”.
Tale decisione potrà, a sua volta, essere cambiata, ma non già per un mera diversa opinione circa la maggiore plausibilità di un’altra soluzione, bensì soltanto in presenza di una “sopravvenienza giuridica o sociale” che renda l’interpretazione prima accolta “non più adeguata” al nuovo contesto in cui è chiamata a vivere. Ciò con l’esplicito intento, dichiaratamente dettato da un’etica e da una deontologia “di squadra”, di frenare gli “individualismi” e scongiurare il “pendolarismo delle soluzioni”, magari dovute “al mero succedersi di maggioranze collegiali casualmente diverse”.
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Proprio nei passaggi da ultimo delineati si annidano la forza, ma anche naturalmente la possibile criticità a seconda dei punti di vista, del nuovo meccanismo deliberativo.
Se è vero, infatti, che esso non preclude alla pienezza della sovranità di ogni collegio di ravvisare nel caso sottoposto una questione da sottoporre alla valutazione del Primo Presidente per la rimessione alle Sezioni unite, non c’è parimenti dubbio che nella misura in cui la nuova procedura funzionasse appieno, essa impedirebbe in radice l’insorgere di contrasti interni, e dunque dei presupposti per la suddetta rimessione.
In questo, peraltro, non si ravvisa un particolare vulnus istituzionale, dal momento che la previsione di un’ultima istanza di scioglimento dei conflitti non è in alcun modo incompatibile con l’adozione di misure atte a riassorbire in partenza tali conflitti, i quali non rappresentano, in quanto tali, un valore.
Più delicata appare, semmai, la questione dell’incidenza delle deliberazioni “collettive” della Sezione lavoro sull’autonomia dei singoli collegi e dei singoli consiglieri. Di nuovo, tale autonomia è fatta formalmente salva, ma non c’è dubbio che, affinché il tutto porti a un effettivo guadagno in termini nomofilattici, si presuppone che da tali deliberazioni derivi un effetto che va a situarsi in un nuovo spazio intermedio tra un vincolo istituzionale (che formalmente non c’è) e una moral suasion “forte”.
Forte, al punto tale di assumere quelle deliberazioni come parametro di uno stare decisis del quale l’articolo rammenta il riconosciuto valore ordinamentale, e dal quale non dovrebbe essere lecito discostarsi se non, come detto, in presenza di significative “sopravvenienze”.
Il che significa pure, se ben si intende, che le decisioni nascenti dalla descritta procedura deliberativa hanno uno status in qualche modo rafforzato rispetto a quello di un’“ordinaria” decisione di una Sezione semplice. Sono infatti decisioni prese, per giocare con le parole, a “Sezione unita”.
Gli altri possibili interessati sono, com’è evidente, i giudici di merito, che sono poi coloro che la giustizia del lavoro cercano di farla tutti i giorni, a diretto contatto (soprattutto nei Tribunali, e più indirettamente nelle Corti di Appello) con l’esperienza viva del diritto del lavoro.
Essi dovrebbero essere contenti, in linea di principio, di poter contare su indicazioni più chiare della Suprema Corte, tanto più che esse, in virtù delle note riforme, dovrebbero sempre più riguardare le sole questioni di diritto, rilevanti anche pro futuro, senza invadere il campo della gestione del merito.
Si sa, tuttavia, che i giudici tengono altresì molto alla loro autonomia, il che rende possibile che taluni di essi prediligano, controintuitivamente, una Sezione lavoro scissa tra vari indirizzi. Questo dà loro, infatti, maggiori margini di azione, nel senso che, seguano l’uno o l’altro orientamento (e non è detto che siano soltanto due), essi possono sempre invocare l’autorità della Suprema Corte, sperando che la propria decisione finisca all’attenzione di un collegio favorevole.
Se a poi a questo si aggiungono le grandi divisioni di politica costituzionale e del diritto che talvolta si consumano (legittimamente) su certi temi di fondo (ad es., il regime dei licenziamenti), si possono cogliere ancor meglio le ragioni, pur non da condividere dal mio punto di vista, che possono indurre a preferire una Sezione lavoro non troppo omogenea.
Nella stessa situazione possono trovarsi, mutatis mutandis, anche gli avvocati del lavoro. Per un verso, l’esistenza di linee di indirizzo conoscibili dovrebbe far loro comodo, consentendo di fare valutazioni più certe al momento di decidere se avviare o no, e sin dai gradi di merito, un contenzioso. Per un altro, neppure gli avvocati amano gli orizzonti giurisprudenziali troppo chiusi, per cui gradiscono avere più opzioni a disposizione.
Tra l’altro (ma questo può valere, talvolta, per gli stessi giudici di merito) c’è qui anche un problema di comunicazione, perché spesso gli avvocati non sono informati sul fatto che una data decisione è stata presa all’esito di una deliberazione collettiva, il che può indurli a pensare di poterla sfidare senza rendersi conto che la partita perduta in partenza.
Io stesso, pur disponendo di qualche informazione in più della media dei colleghi, mi sono trovato recentemente a chiedermi, senza potermi dare una risposta certa, se alcune decisioni erano o no il frutto di deliberazioni di tutta la Sezione.
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Pur nella consapevolezza della delicatezza delle implicazioni segnalate, la mia conclusiva opinione è che spostare il livello delle deliberazioni collettive, in specie sulle questioni di maggiore importanza, dai singoli e transeunti collegi al super-collegio rappresentato dalla Sezione, non presenti, da un lato, decisive controindicazioni istituzionali né “democratiche”, mentre consente, dall’altro, significativi benefici in termini di chiarezza e prevedibilità degli orientamenti della Suprema Corte.
Chiarezza e prevedibilità che rappresentano un valore in sé, a maggior ragione in un’epoca che, come diretta conseguenza della crescente complessità della realtà sociale, vede lievitare giorno dopo giorno la complessità delle regole giuridiche che quella realtà cercano, sovente a fatica, di rincorrere e di imbrigliare.
E’ risaputo, altresì, che la perdita di organicità del sistema giuridico e il suo articolarsi su livelli diversi, nonché sulla base di combinazioni mai scontate in partenza tra regole e principi, si è tradotta in una valorizzazione, che definirei ormai strutturale, del ruolo dell’interprete e quindi del peso istituzionale della giurisprudenza.
Ecco, il punto importante che la Sezione lavoro mi sembra abbia colto è che a questa evoluzione oggettiva del diritto bisogna dare anche delle risposte istituzionali. Il che richiede che la magistratura, in particolare ai suoi supremi livelli, è chiamata a fare il possibile per rendere chiare le proprie posizioni sulle questioni di maggiore importanza, in modo da non ingenerare nell’operatore difficoltà aggiuntive, rispetto a quelle che egli già sperimenta quotidianamente nel maneggiare il caotico diritto contemporaneo, quasi un’epitome di quella post-modernità della quale molti, oggi, predicano il superamento in nome di un recupero, ma su basi più avanzate, della modernità anche giuridica.
Di questa modernità giuridica evoluta può fare modestamente parte, per l’appunto, anche il fatto che la Sezione lavoro della Corte di Cassazione riesca a parlare, ove serve, con una sola voce, frapponendo così un “argine alla fluidità e precarietà dell’esperienza giuridica contemporanea”. E’ questo un modo concreto di lavorare per la certezza del diritto, tante volte invocata a sproposito nel dibattito pubblico.
Ciò per tacere degli effetti importanti che questa ragionata uniformazione degli orientamenti della Sezione può avere nello scoraggiare i ricorsi defatiganti e nel favorire, quindi, una più rapida soluzione del tuttora gravissimo problema dell’arretrato, con benefici sistemici per tutta la gestione del contenzioso.
Insomma, in un momento in cui ci si interroga a livello europeo sui pro e contro dei modelli di giustizia predittiva tramite algoritmi (v. l’European Ethical Charter on the Use of Artificial Intelligence in Judicial Systems and their environment, adottata nel dicembre 2018), soluzioni organizzative come quelle qui discusse, che sfruttano l’informatizzazione (nella cernita delle cause seriali o comuni) ma che restano poi rigorosamente umane (ma non troppo…) nelle procedure deliberative, sembrano andare nella direzione giusta.
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Tutto ciò detto, che questa resti una funzionale e positiva misura nomofilattica e non si concretizzi in un’ingessatura della produzione giurisprudenziale, dipenderà da come si gestirà il concetto di “sopravvenienza”.
Personalmente ritengo che se ne debba abbracciare una visione ampia, nell’interesse di tutti gli attori della “comunità interpretante”. Nello stesso articolo di Di Cerbo e Amendola si parla di una sopravvenienza “giuridica”, che - pare - non significa soltanto “legislativa”, cioè una scontatamente riferita all’evenienza di uno ius superveniens. C’è poi persino la chicca, per i fautori dell’apertura dell’interpretazione giuridica ai formanti esterni, del richiamo a sopravvenienze anche “sociali”.
In altre parole, se il diritto è, qual è, un infinito procedimento argomentativo e discorsivo, i cui addentellati testuali non ne esauriscono mai le potenzialità semantiche, si deve accettare che l’interpretazione sia caratterizzata da un livello fisiologico di fluidità, nel mentre si bada a contenere quello patologico.
Si deve altresì considerare – e questo appunto è fatto, in particolare, ponendosi dalla prospettiva dei giudici di merito – che sovente il vero conflitto non si produce al livello di questioni giuridiche astrattamente poste, bensì a quello dell’interazione tra i principi e le regole del diritto e le fattispecie concrete.
Di guisa che può accadere che un caso nuovo, prodotto dall’inesauribile fantasia della vita (e che forse neppure l’intelligenza artificiale riuscirà mai a catturare), inneschi un guizzo interpretativo che non riesce a trovare un’adeguata risposta nei principi già affermati (non importa se dalla Sezione lavoro a collegi unificati, o persino dalle Sezioni unite), ma che può richiederne un adeguamento o persino un ripensamento. E la Cassazione deve rimanere disponibile a raccogliere queste istanze nell’alveo delle proprie procedure deliberative, nel mentre che esercita la propria sacrosanta funzione nomofilattica.
Nei limiti in cui tale apertura comunicativa sia salvaguardata, nel nome di un diritto habermasianamente inteso come pratica intersoggettiva sempre in fieri, né i giudici di merito, né altri, avranno valide ragioni per dolersi del tentativo intrapreso dalla Sezione lavoro per depurare la propria produzione di norme giurisprudenziali dalle incertezze evitabili ed eliminabili, e per innalzare, in corrispondenza, il livello di univocità che è lecito attendersi, nell’interesse superiore di tutti i cittadini, dall’organo deputato alla nomofilachia.

 

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