Testo integrale con note e bibliografia

1. Tra gli anni ottanta e novanta del secolo scorso, in connessione con la rivoluzione informatica, la globalizzazione, la fine dell’URSS e il dispiegamento dell’economia della conoscenza, entrano in crisi i due protagonisti della società industriale novecentesca: il fordismo - come cultura manageriale, organizzazione del lavoro e idea di società di massa - e il lavoro salariato, quale soggetto portatore di valori storici e di istanze di riforma sociale universali. Entra cioè in crisi la società della piena occupazione, che nel lavoro subordinato aveva trovato il centro da cui articolare la propria concezione e la propria struttura, basate sul Welfare e sul patto tra ubbidienza e sicurezza del lavoro su cui si fondava il fordismo .
Il lavoro industriale e fordista di massa, già indebolito dall’automazione a partire dagli anni cinquanta, dalla conseguente trasformazione delle mansioni in attività poco qualificate di sorveglianza delle macchine e dalla contemporanea assunzione dalle università e dagli istituti di istruzione dei tecnici necessari, viene spiazzato dal declino della produzione di serie e dall’affermarsi della flessibilità dell’economia customizzata, che, in assenza di adeguate politiche, si trasforma in precarizzazione delle attività e frammentazione del mercato del lavoro, decretando l’eclissi del suo protagonismo sociale e politico. Contemporaneamente il lavoro è culturalmente oggetto di attacco da parte di molteplici tesi circa la «fine del lavoro», anche se negli stessi anni l’80% della popolazione mondiale vive di un lavoro subordinato. Le culture della “fine del lavoro” portano avanti, sostanzialmente, due tipi di considerazioni. Una mira a togliere senso e valore al lavoro, non solo subordinato, e l’altra avanza l’idea del primato del tempo libero e del consumo rispetto al lavoro produttivo. Talvolta le due linee si intrecciano e sovrappongono, ma in genere sono distinguibili.
La cosa che in queste culture colpisce è che nessuna di esse consideri la crisi storica del fordismo come l’occasione di una trasformazione del lavoro in una attività qualitativamente più avanzata. Anzi, in genere si insiste sugli effetti sociali negativi di tale crisi (sicurezza, Welfare, frammentazione, ecc.), piuttosto che sulla denuncia della bassa qualità del lavoro fordista, in cui l’operaio era invitato ad «ubbidire e non pensare» e a svolgere un’attività ripetitiva e parcellizzata. Quasi che i risultati, diciamo socialdemocratici, ottenuti dal movimento del lavoro fino all’affermazione del neoliberismo - finalizzato prima di tutto al loro attacco in nome della libertà del mercato -, risultati indubbiamente avanzati sul piano della giustizia sociale e della democrazia, cancellassero il tipo di lavoro di cui rappresentavano la compensazione sociale, che non migliorava in alcuna misura la natura umanamente negativa (“alienata”) di tale lavoro. Paradossale, infine, è che entrambe le linee ricordate si collochino nello schieramento politico “critico” del dibattito culturale, determinando un frattura tra queste posizioni e la riqualificazione del lavoro, in nome del rifiuto del lavoro e dello sfruttamento capitalisti. Per cui alla fine, in questi decenni, le attività lavorative si sono trovate contemporaneamente sotto la pressione delle innovazioni economiche e tecnologiche, di una parte della cultura di “sinistra”, e delle politiche neoliberiste, in una condizione in cui la reazione difensiva ha condizionato o impedito, con poche eccezioni , l’approfondimento della fine del fordismo come occasione per una nuova idea e una nuova pratica del lavoro, capace di agganciare, al fine di una sua nuova qualità, le innovazioni in corso. In altre parole, la fine del lavoro fordista accade sostanzialmente sotto l’egida della cultura neoliberista.

 

2. Anche se le due principali versioni delle tesi sulla «fine del lavoro» si intrecciano e sovrappongono, è possibile distinguere in esse un nucleo composto prevalentemente di ragioni culturali, sociali e politiche da un nucleo prevalentemente ispirato da motivi tecnologici e economici.
Le prime, come già ricordato, insistono sulla perdita di valore del lavoro; le seconde vedono in tale fine una positiva liberazione dal lavoro causata dalle nuove tecnologie: negando la possibilità di una maggiore libertà nel lavoro attraverso la conquista di una più elevata qualità di esso, approdano entrambe al giudizio di una residualità sociale del lavoro. Appartengono al primo nucleo le posizioni che considerano tramontata e conservatrice ogni posizione che privilegi il tempo di lavoro (non tanto l’attività stessa, su cui in genere si tace) come occasione per la costituzione di una figura umana e sociale (il lavoratore) portatrice di una identità e dignità personali, sociali e politiche fondate sul nesso tra lavoro e cittadinanza, per cui solo chi lavora e può lavorare può essere considerato pienamente cittadino. Quindi una figura anche eticamente virtuosa, perché solo il lavoro fonda il senso della vita umana. La “fine del lavoro” è dunque la fine di questa cultura etico-sociale sorta nell’Ottocento e affermatasi vittoriosamente nel Novecento; e dalla liberazione da essa si fanno discendere le tesi di una nuova soggettività in grado di fondare il pensiero critico direttamente sulla fenomenologia della libertà e spontaneità di tale soggettività, sui diritti, sulla diversità e l’autonomia individuali, senza che questa critica attraversi la qualità del tempo di lavoro. Di modo che alla precedente contrapposizione tra lavoro e sistema si sostituisce quella tra una soggettività astrattamente universale ed un potere economico e politico pervasivo che ammette solo un pensiero alternativo. La fine del fordismo, cioè del lavoro, coincide quindi con una liberazione dalla cultura lavoristica da cui scaturisce una dialettica politica che non ha alcuna necessità di fondarsi sul lavoro e le sue metanarrazioni emancipative - che non esistono più - per caratterizzarsi immediatamente come radicale critica politica. Che, finalmente, attraverso la “fine del lavoro”, può celebrare la sua ritrovata autonomia rispetto alla dialettica sociale ed economica della società e celebrare “liberamente” le proprie categorie del potere, del popolo, della sovranità e della sottomissione. La politica, quindi, come espressione di un contratto o di un potere teologico che non hanno alcuna ragione di essere forma ed espressione di una dialettica sociale, la quale, anzi, solo dalla politica può essere costituita. In ultima analisi, solo forme diverse ed opposte delle pratiche neoliberiste, affermatesi mediante il potere di uno Stato mosso contro le precedenti conquiste sociali. La “fine del lavoro”, insomma, come celebrazione e apologia dell’ “autonomia del politico”. D’altra parte, la stessa “classe operaia”, a partire dai decenni di cui stiamo parlando, non appare più in grado di identificarsi nell’immagine di sé costruita attraverso le proprie lotte otto-novecentesche, ed è massicciamente attratta da ideologie di scarto (neonazionalismo, sovranismo, populismo di destra, ecc.) prodotte dallo stesso neoliberismo come culture di riserva per un’egemonia che nel XXI secolo appare apertamente in crisi.
Le seconde, quelle che si sviluppano sul piano economico e tecnologico, presentano un discorso forse più lineare, che a sua volta fornisce elementi anche per il primo gruppo di tesi. La fine del fordismo e l’affermarsi di nuove forme di management e di organizzazione del lavoro coincide, da un lato, come già ricordato, con una flessibilità dell’economia che la deregulation neoliberista legittima e promuove, in sintonia con la globalizzazione, con le forme più precarie di lavoro - che il Welfare fordista non riesce a contenere - determinando un generale e profondo sentimento di insicurezza, non solo ai livelli più bassi della stratificazione sociale. Tutto questo, in connessione con l’economia della conoscenza e della società dell’informazione, determina anche una nuova struttura del mercato, in cui le polarizzazioni appaiono dominate dalla disuguaglianza tra chi possiede e chi non possiede abilità e conoscenze lavorative da offrire. La perdita del posto fisso e dell’occupazione a tempo pieno, il dilagare, soprattutto per giovani e cinquantenni espulsi dal lavoro, dei “lavoretti” precari e a breve tempo, la ricerca di sostenere la concorrenza riducendo i costi, prima di tutto salariali, insieme all’introduzione di innovazioni tecnologiche in grado di accrescere la produttività e di abbattere almeno in tutta una prima fase, il numero dei posti di lavoro, impoveriscono e indeboliscono il lavoro anche come occupazione (jobless society), mentre la promessa e l’effetto della nuova produttività, anche per l’innesto della quarta rivoluzione industriale, fanno intravedere una produzione dai «costi marginali vicino allo zero» (J. Rifkin). La complessità e contraddittorietà del quadro si delinea chiaramente se si tengono presenti due elementi, di per sé positivi, che contemporaneamente e non casualmente si affermano nello stesso periodo: la riproposizione della persona nel lavoro e l’incremento, in linea con le tendenze del Novecento, del tempo liberato dal lavoro per l’aumento della produttività – un aumento spesso più potenziale che reale o comunque solo statisticamente omogeneo, perché molti lavori subiscono un’intensità di orari senza “porosità”. In ogni caso l’automazione, la digitalizzazione, la terziarizzazione delle attività, la centralità economica e culturale del consumo, la finanziarizzazione del capitale, la ricerca e la conoscenza come assets fondamentali della produzione, sono tutti fattori che mettono a lato il lavoro fordista - ancorché talvolta presente, ma non più storicamente trainante, nelle nuove attività manuali digitalizzate e altamente tayloristiche; questi sono tutti fattori, dicevo, che fanno scomparire il lavoro fordista, e quindi apparentemente l’occupazione, senza che una nuova idea di lavoro si sia affermata, per cui davvero dal punto di vista novecentesco il lavoro appare “finito”. Ed al suo posto, le tesi della sua “fine”, ritengono si possa parlare solo e positivamente di tempo libero, anche se non si capisce - se il lavoro è davvero finito - libero da che cosa. Il lavoro, dunque, sarà svolto soprattutto dalle macchine e all’uomo e alla donna rimarrà soprattutto da impiegare un ampio tempo di ozio. Il lavoro, una volta regno della necessità, sarebbe reso dalle macchine quasi residuale, da svolgersi con orari molto ridotti e all’uomo non rimarrà che compiere finalmente il salto dalla necessità alla libertà. Il fatto è, che questo salto è impossibile, perché queste tesi non prevedono la riqualificazione e la liberazione del lavoro che dovrebbe succedere al lavoro fordista: quale libertà sarebbe quella che finirebbe ogni volta che si deve, anche solo per poche ore, ritornare a lavorare in un lavoro coercitivo? Senza rendere più libero e «attraente» (Fourier) il lavoro, il tempo liberato da esso non è effettivamente libero. Solo ponendo al primo posto il cambiamento del lavoro, e non l’aumento del tempo liberato da esso, è possibile conquistare del tempo effettivamente libero. Del resto la nostra civiltà è cresciuta anche sulla contraddizione, irrisolvibile, tra lavoro e ozio, e solo conquistando una libertà nel lavoro è poi possibile essere liberi anche nell’ozio. Anzi, l’ozio stesso, finalmente, sarebbe qualificato dallo svolgimento di un lavoro qualificato, il quale, a sua volta, ha bisogno di ozio, non essendo l’identità della persona costituita solo dal lavoro. Una circolarità che le tesi sulla “fine del lavoro” non vedono e impediscono. Impedendo anche una reale ricomposizione dei tempi della vita e del lavoro.

3. Queste tesi sulla “fine del lavoro”, in ultima analisi subalterne al neoliberismo e al suo attacco alla “centralità” novecentesca del lavoro, non sono semplicemente da rifiutare, perché spesso rappresentano una risposta (non condivisibile) a problemi reali. In fondo una risposta minoritaria e falsamente modernizzante. Minoritaria perché non si pone la questione del governo delle contraddizioni e quindi dell’organizzazione e della formazione delle forze disponibili per tale azione; falsamente modernizzante perché si illude che l’innovazione abbia un tale tasso di neutralità da permettere a tutti di poterne usufruire in misura uguale e immediata. L’origine della loro debolezza, come più volte ricordato, è l’identificazione della fine del fordismo con la “fine del lavoro”, e quindi il rifiuto di considerare la fine del primo come l’occasione per la costruzione di una nuova idea del lavoro, che appare come il fondamentale compito di questi anni.
Cercherò ora, in maniera schematica, di portare un contributo sul piano di questo compito, che ovviamente è ben oltre di qualsiasi singolo contributo. Lo farò a partire da una breve e molto sintetica storia dei principali significati di lavoro presenti nella nostra cultura. Infatti, siamo senza idea di lavoro, ma continuiamo a lavorare e la nostra storia non è priva di idee di lavoro.
Niente nasce da niente, quindi dobbiamo chiederci di quali materiali disponiamo per un nuovo significato di lavoro. Quali idee di lavoro abbiamo elaborato nella nostra storia? Direi, almeno quattro importanti versioni. A cui dovremmo cercare di aggiungere elementi per la nuova idea che stiamo cercando, la quinta. Più precisamente: il “lavoro manuale necessario” - testo di riferimento la Genesi; il ”lavoro intellettuale libero” - testo di riferimento l’Etica nicomachea di Aristotele; il “lavoro manuale e artigiano» - rinvenibile, nella forma della fabbricazione della “cosa bella”, nella Vita di Benvenuto Cellini; il “lavoro alienato” - trattato nei Manoscritti economico-filosofici del 1848 di Karl Marx; e, infine, la proposta che vorrei avanzare del “lavoro come atto linguistico performativo”, per il lavoro svolto nelle condizioni determinate dalla rivoluzione informatica e digitale . Gli elementi che compongono i cinque significati non sono mai appartenenti ad una singola forma di lavoro, anche se in ognuna li rinveniamo in un significato prevalente.

a) Il lavoro manuale necessario. Dalla Genesi apprendiamo che il lavoro è un’invenzione, che non è un fatto naturale. Anzi, naturale sarebbe non lavorare. Ma apprendiamo anche, paradossalmente, che si tratta di un fatto necessario. Più precisamente, che rappresenta la contraddizione di un’attività volontaria ma inevitabile. Un’invenzione che si mostra sin dall’inizio indispensabile. Apprendiamo anche che questa contraddizione pratica che è il lavoro, trova fuori di sé la propria spiegazione: il lavoro non è un’attività che ha in sé il proprio fine né, quindi, il proprio significato. Il significato della sua necessità non gli proviene dalla volontà di lavorare, ma da un piano che trascende il lavoro. Ma tale da dare un senso e un significato immanente al lavoro stesso. La Genesi, in altre parole, è la proposta di una spiegazione del lavoro, del suo significato, attraverso lo svelamento del vuoto di senso proprio del lavoro; e quindi dell’idea che il lavoro può colmare la proprio assenza di senso solo aprendosi ad un significato altro da lui, un senso che gli provenga da fuori la sua attività. E Dio appare come ciò che colma il vuoto di significato del lavoro. La Genesi ci narra che Dio crea il lavoro: di fatto è il lavoro che ha creato Dio. Come il significato di cui la sua necessità ha bisogno, e che non riesce a trovare in se stesso. Viena a mente Giobbe quando invoca Dio per colmare l’assurdità evidente della fatica di vivere. Di una vita che non riesce a trovare in sé stessa il proprio senso. Il protestantesimo ha solo cercato di riportare nel lavoro stesso il significato esterno al lavoro, di colmare questa separazione, attraverso l’allargamento della coscienza a Dio, per cui nel lavoro accettato si incontra l’esigenza di senso e la fonte del senso.

b) Anche il lavoro intellettuale libero è un’invenzione - filosofica, di Aristotele - ma interamente sottratto alla necessità, che rimane circoscritta alla schiavitù e alla poiesis. La necessità è anche condizione del tempo dell’ozio in cui avviene la ricerca della verità: anche l’intellettuale necessita di alimenti, di una casa e di vestiti, ancorché in misura parsimoniosa, e solo il lavoro degli schiavi e degli artigiani gli permettono di dedicare interamente e con continuità il tempo della sua vita ad un’attività che ha in sé il proprio senso e quindi il proprio fine. Se secondo la Scrittura Adamo trova il senso del proprio lavoro necessario in Dio, cioè nell’accettazione della condanna per la disubbidienza; il saggio di Aristotele ha allontanato da sé la necessità attraverso una frattura, volontaria col mondo della praxis (e le sue preoccupazioni pratiche) ed ereditato per nascita quella con la poiesis: da questa doppia separazione discende la possibilità di trovare nell’attività svolta nell’ozio il senso di ciò a cui il saggio dedica la propria vita, la ricerca della verità. Alla condizione, si è già detto, che altri svolgano quel lavoro che Adamo compie grazie al senso che riceve dalla trascendenza che riesce a pensare. La necessità e la libertà che la Genesi ed il protestantesimo cercano di ricongiungere dialetticamente nel lavoro, in Aristotele sono contrapposte, trasformando la libertà in un privilegio rispetto alla necessità del lavoro. Ma la scienza non è meno necessaria del lavoro; invece non necessaria - in linea di principio - è la forma della società che separa le due attività per poterle sviluppare.

 

c) Il lavoro manuale delle arti meccaniche approda ai livelli più elevati, rappresentati dalla fabbricazione artistiche del periodo del Rinascimento - siano esse la cupola di Santa Maria del Fiore del Brunelleschi o i bronzi e gli oggetti preziosi del Cellini - riescono a costruire un senso del lavoro fondato sul mestiere (arte) stesso; cioè sulla libertà con cui l’artigiano elabora l’idea dell’oggetto da fabbricare e sulla conoscenza ed il possesso dei mezzi e dell’organizzazione necessari per fabbricarlo. In questa maniera il lavoro è realmente l’oggettivazione della coscienza (la rappresentazione dell’oggetto) e quindi espressione della libera creatività del lavoratore. Dio è chiamato non a dare senso al lavoro ma a conoscere e apprezzare ciò che la sua creatura è stata capace di fabbricare, in questo testimoniando la grandezza e bontà del Creatore stesso. Il lavoro non trova in Dio il proprio senso ma il senso di un dono riconoscente, e quindi l’apertura dell’individualismo dell’attività stessa all’infinito. Il lavoro perviene a questa autonomia del proprio significato sia autonomizzandosi da Dio - il quale, a sua volta, acquista autonomia dal lavoro aprendosi al misticismo moderno -, sia dalle arti liberali, dal lavoro intellettuale, che a loro modo le arti meccaniche rivendicano come proprio (la conoscenza del mestiere), e che considerano, sia non contrapposto a loro, sia addirittura a loro sottoposto, come valore e significato in decadenza per la sua astratta autonomia dal mondo della pratica. Un lavoro quindi che momentaneamente risolve, sia la dicotomia tra attività e senso della Genesi, sia la contrapposizione tra teoria e lavoro manuale di Aristotele - anzi rovesciando in un certo senso il significato di quest’ultima. Quindi, il lavoro manuale risolve, almeno momentaneamente, la dialettica del rapporto tra necessità e libertà inaugurata dalla Genesi, e la contrapposizione tra ozio e poiesis di Aristotele. La imminente rivoluzione industriale sconfiggerà questo lavoro manuale imponendo una nuova contrapposizione tra l’attività e il suo significato, da una parte, e l’invenzione del tempo libero (vago ricordo dell’ozio), dall’altro.

d) Il lavoro alienato è un concetto che Marx elabora nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 per approfondire il nuovo lavoro manuale creatosi nella rivoluzione industriale sotto i rapporti di produzione capitalistici. Non si tratta di un concetto semplice e talvolta è stato anche frainteso. Per Marx l’alienazione è un «fatto» (Faktum); e la «proprietà privata», nonché non essere la «causa» (Ursache) dell’alienazione, ne è piuttosto una «conseguenza» (Konsequenz), un «risultato» (Resultat) - quindi l’abolizione della proprietà privata non elimina l’alienazione. Ma che cos’è l’alienazione? Che cosa costituisce il «fatto» dell’alienazione, che cosa è alienato all’uomo che lavora? Nel lavoro l’uomo aliena sé a se stesso; nelle condizioni capitalistiche è sistematico che lavorando la persona alieni, allontani, se stessa a sé, ovvero una parte essenziale di sé. Di quale parte parla Marx? Delle capacità lavorative - il mestiere dell’artigiano e dell’artista meccanico - che sono parte costitutiva della persona e che nel lavoro salariato vengono comprate per essere impiegate, non secondo la volontà della persona che le possiede, ma secondo quella del datore che l’ha acquistate nel mercato del lavoro. Ma non è il capitale che ha determinato questa alienazione: essa è una «fatto», precisamente il risultato del processo storico della separazione della forza lavoro dalla persona che lavora, che il capitale rinviene e che rende sistematico, rendendo non il lavoro, ma la sua forza lavoro, sistematicamente una merce nel mercato. In questo senso la ricchezza privata è una «conseguenza» dell’alienazione, cioè di quel «fatto» storico che permette al capitale di comprare e impiegare la capacità lavorativa della persona. La quale lavora alienandosi, cioè separandosi dal potere sulle proprie capacità produttive su cui invece domina il comando del capitale. Se nel mercato il capitalista e l’operaio sono ancora su di uno stesso piano di uguaglianza formale, non appena l’operaio ha sottoscritto il patto lavorativo, a causa del «fatto» dell’alienazione, egli lavorerà per produrre valore che non gli appartiene. In questa maniera al lavoratore viene a mancare ciò che invece Cellini riesce a raggiungere, cioè la realizzazione delle proprie capacità. Quindi il lavoro alienato diviene sinonimo di lavoro privo di autorealizzazione, appunto perché la coscienza non ha le abilità da realizzare né la libertà per autorealizzarsi, ma deve invece realizzare gli scopi fissati dal comando altrui. Di nuovo il senso del lavoro proviene dall’ esterno al lavoro, la cui necessità acquista la forma della necessità economica moderna. Il «fatto» dell’alienazione non potrà essere semplicemente eliminato dall’abolizione della proprietà privata, del capitale, ma da un modo di produzione in cui le capacità produttive del lavoro non trovino il loro senso nel comando del loro acquirente. Se questo sia possibile (come personalmente ritengo) e come possa accadere è un altro discorso. Sappiamo però che la sottomissione del lavoro alla necessità economica imposta dal libero mercato si è avvalsa del «fatto» dell’alienazione consolidandolo, e che il “socialismo reale” si è costruito su una idea dell’alienazione che ha scambiato la causa per l’effetto, con i risultati che conosciamo.

e) Il lavoro come atto linguistico performativo. All’inizio, parlando del lavoro fordista abbiamo visto come questo lavoro alienato abbia fondato la società industriale e come esso sia finito. Rimane ora da chiedersi che tipo di lavoro l’umanità del XXI secolo stia svolgendo nelle società in cui tale lavoro è finito. Più precisamente, visto che le forme di lavoro sono più di una, quale sia la forma nuova decisiva e storicamente trainante. Per poterlo capire, e soprattutto afferrarne il significato, è indispensabile porre questa forma sullo sfondo composto almeno dalle quattro idee di lavoro già considerate. Perché sarà dai loro significati, ancorché rivisti e “distorti”, che potrà scaturire il nuovo significato. Non come loro sviluppo, ovviamente, ma attraverso la loro destrutturazione e ricostruzione, a partire dalle richieste di senso del nuovo lavoro.
Siccome ormai si parla, anche esagerando l’importanza del lato tecnologico, di quattro rivoluzioni industriali - quella del vapore, quella dell’elettricità e quelle del computer e dell’intelligenza artificiale – il lavoro post-fordista non potrà non avere a che fare con la rivoluzione informatica e con quella digitale. In altre parole, secondo una formulazione corrente a cavallo dei due secoli, sarà una forma di knowledge working. E se questa forma, dal punto di vista del lavoratore, si caratterizza per un intreccio con la conoscenza in cui il lavoro perviene a forme inedite – secondo la tassonomia di Bruno Trentin - di autonomia, creatività e responsabilità, fondate sulla conoscenza, oltreché sviluppare le necessarie e connesse attività relazionali di tipo linguistico, il significato del lavoro che cerchiamo dovrà originarsi da questo gruppo di elementi.
Tra l’ambiente di lavoro informatizzato e quello digitalizzato intercorre una differenza essenziale: il primo accade in un contesto in cui le relazioni linguistiche che sorreggono le attività conoscitive sono di due tipi, mentre nel contesto digitale sono sempre tre. Nel primo caso, le comunicazioni tra uomo e uomo e tra uomo e macchina; nel secondo, a queste comunicazioni si aggiungono anche quelle tra macchina e macchina. Nel primo caso i lavoratori parlano tra loro e quindi comunicano i risultati alle macchine, nel secondo gli uomini parlano tra di loro, parlano con le macchine, le quali parlano a loro volta tra di loro e comunicano agli uomini il risultato delle loro interazioni, che a loro volta viene ripreso dagli uomini. Nel primo caso gli uomini predispongono le macchine a determinate finalità, e dopo avere messo in moto le macchine ne controllano i risultati prestabiliti attraverso i discorsi tra uomini; nel secondo caso gli uomini comunicano alle macchine un determinato scopo che esse attraverso le interazioni tra macchine portano autonomamente a compimento.
In questo modo, l’esigenza di una mansione di controllo delle macchine a compiti prefissati, in cui l’automazione aveva trasformato il lavoro dell’operaio qualificato della prima e della seconda rivoluzione industriale, viene superata dalla macchina stessa che incorpora un’intelligenza artificiale capace di controllarla e di adattarne flessibilmente le finalità produttive secondo le informazioni originate dai data base del marketing e dalla produzione orientata da questo.
Il fatto che la macchina, come ad esempio una stampante 3D, possa portare a compimento la fabbricazione di un oggetto fisico semplicemente sulla base di un input di tipo linguistico, rendono l’atto linguistico che crea tale input come l’essenziale attività umana capace di creare oggetti o servizi in un contesto - la Smart Factory - in cui tutti i processi confluiscono in un flusso di comunicazioni per la progettazione, il controllo e le informazioni, incardinato in piattaforme che legano tutti gli operatori in tempo reale. Le tecnologie e l’organizzazione di questo contesto digitale, in cui la persona è tornata protagonista, trasforma tutte le attività, da quelle di comando e di controllo, a quelle di creazione e produzione, in atti linguistici che sono «performativi» (secondo la denominazione di J.L. Austin) perché hanno la «forza» di «fare cose con le parole». Quasi metaforizzando il testo di Giovanni evangelista quando parla di un inizio in cui il Verbo crea il mondo.
Nella pandemia che ci ha colpito nel 2020 molte attività lavorative hanno potuto continuare a svolgersi attraverso il cosiddetto “lavoro agile” (o Smart working) che altro non è stato se non la riduzione di ogni attività lavorativa alla trasmissione linguistica, dimostrando come gli stessi contesti sociali e familiari, e non solo la Smart Factory, sopportino forme puramente linguistiche di lavoro quali attività spesso maggioritarie (nella pandemia ricordata il “lavoro agile” ha raggiunto il tasso del 41% delle attività svolte ).

4. Il significato inedito, e per molti versi rivoluzionario, dell’idea del lavoro come atto linguistico – che ad esempio mina alla base tutto il ragionamento di Hanna Arendt che con Vita Activa ha dettato i termini per gran parte della filosofia del lavoro novecentesca -, emerge dal confronto con le altre quattro concezioni del lavoro che abbiamo cercato di delineare. A questo fine, molto sinteticamente, possiamo compiere due aggregazioni. La prima, che comprenda la concezione biblica e quella marxiana, in cui il lavoro trova il proprio senso dal di fuori della propria attività; storicamente, nella “città di Dio” e nella “città del lavoro”. Cioè nelle comunità che hanno elaborato nel tempo il senso del lavoro, fissandone le finalità ultime: la vita eterna e il socialismo o il comunismo. Il deficit di senso e di libertà nel lavoro, a causa del prevalere della necessità, rimandano la realizzazione umana del lavoratore ad un secondo momento che in entrambe è, questa la drammaticità e grandiosità della loro concezione, anche il fine della storia universale.
La seconda, che comprende tutte le altre, le quali hanno il senso della propria libertà, perché esse, secondo il modello di Aristotele, sono attività in cui il fine è intrinseco all’attività stessa, e quindi, ancorché in gradi diversi, sono attività liberamente assunte, liberamente scelte. Nella concezione aristotelica dell’attività intellettuale la libertà e la necessità sono semplicemente estranee l’una all’altra, come la signoria e la servitù appartengono in Aristotele a due mondi estranei, non rappresentano alcuna dialettica né costituiscono alcuna contraddizione (come invece accade nelle due precedenti concezioni), ma solo un rapporto di dominio e di sottomissione; e solo al prezzo di questa estraneità il lavoro intellettuale trova totalmente in sé - primo esempio nella nostra cultura - il senso e la libertà della propria attività. Attraverso l’idea di ozio Aristotele fonda un modello di attività che per molti versi rappresenta uno dei fattori fondamentali di sviluppo della nostra civiltà, legando la libertà alla conoscenza. Da questo momento la valorizzazione della conoscenza nel lavoro apre due fronti di lotta eversiva: quello del superamento della separazione tra lavoro intellettuale e manuale, separazione posta per millenni a fondamento dell’ordine sociale incardinato sull’esclusione del lavoro manuale - processo in cui si sono contraddistinte le arti meccaniche -; e quello del riscatto del lavoro subordinato e alienato attraverso la conoscenza, fino, appunto, al lavoro come atto linguistico.
Rimane, anche per il lavoro come atto linguistico – dipendente e autonomo -, il problema della ridescrizione delle finalità collettive e solidali a cui poterlo commisurare, che una volta erano formulate dalla “città di Dio” e dalla “città del lavoro”, potenti narrazioni di un senso del lavoro privo di un senso in sé a causa della necessità. Le attività intellettuali e artigianali hanno il senso autonomo dell’oggettivazione delle rappresentazioni della coscienza (individuale) realizzate mediante attività intellettuali e manuali, oggettivamente aperte all’universalità della verità e al consumo pubblico della bellezza (dal “capolavoro” all’opera per la città: la cupola del Brunelleschi) costruite nell’unità tra la persona che lavora e le sue capacità. Con la trasformazione del lavoro in atto linguistico il «fatto» dell’alienazione tra persona e forza lavoro viene meno, ma: da un lato, sorge quello, ancora più grave, dell’alienazione tra persona e capacità che accade nel mercato del lavoro in cui si passa dalla vendita del tempo astratto a quella del tempo concreto, atto in cui entra in gioco – come temeva I. Kant - la persona, in quanto inseparabile dalle sue capacità; e, dall’altro, sorge la questione della oggettiva miseria del senso di un lavoro che risulta, in sé attraente, ma socialmente povero se semplicemente ricavato dalla mission economica aziendale. Senza contare che «non di solo lavoro» si può vivere (Francesco Totaro). Per cui, dopo le “città di Dio” e “del lavoro” occorre l’idea di un’altra “città”, in cui commisurare il senso del lavoro - forse una città della comunicazione, del lavoro e dell’ozio - in cui trasferire, al di là della forma fordista del conflitto sociale, il senso personale del lavoro (come atto linguistico) conquistato nello spazio aziendale, ma non circoscrivibile a questo. Secondo l’idea di una effettiva e non retorica responsabilità sociale dell’impresa.
Se nel Novecento la questione era di portare i diritti del cittadino in fabbrica, la prospettiva che attualmente sembra emergere è quella di affermare in società il significato e la qualità conquistati nelle nuove attività lavorative, fuori da ogni mito in una società futura precostituita. Una nuova forma della “centralità” del lavoro? Con buona pace dei teorici della “fine del lavoro?

 

 

 

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