TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

§1 – Il contratto di patrocinio.
La responsabilità professionale dell’avvocato, che fino a non molti anni fa poteva essere considerata quasi una Cenerentola nell’ambito della responsabilità dei professionisti, si sta sempre più imponendo come un fenomeno in continua espansione , come è documentato dalla frequenza sempre maggiore di pronunce giurisprudenziali riguardanti contese tra patroni ed ex clienti.
L’incipit dell’esame della materia, sotto il profilo strettamente civilistico, parte necessariamente dall’origine del rapporto tra avvocato e patrocinato.
L’avvocato è il professionista munito dei requisiti per l’esercizio della professione forense iscritto all’apposito albo tenuto dal compente consiglio dell’ordine ai sensi dell’art. 17 della legge 31 dicembre 2012 n. 247 (legge professionale forense, d’ora in poi L.P.) . Si tratta, ovviamente, di una professione intellettuale c.d. protetta, perché è consentita esclusivamente agli iscritti all’albo degli avvocati . L’iscrizione all’albo è richiesta sia per l’esercizio del patrocinio in sede giurisdizionale, sia per l’attività di consulenza stragiudiziale, se è connessa con l’attività giudiziaria e se viene svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato . Ogni qual volta il patrocinato sia una persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale si applica la disciplina del codice del consumo (d. lgs. 6 settembre 2005 n. 206) . Infatti, da tempo l’avvocato in ambito europeo è assimilato ad un imprenditore , nell’ambito di un processo di mercificazione della professione forense che non tiene in adeguato conto la funzione pubblica, etica, sociale e deontologica del difensore .
Il rapporto tra avvocato e cliente è regolato dal c.d. contratto di patrocinio, che è un contratto di prestazione d’opera intellettuale riconducibile allo schema del mandato ; il mandato è richiamato espressamente dagli artt. 23, 26, 27 e 32 del codice deontologico forense e dall’art. 14 della legge professionale n. 247/2012. Il contratto di patrocinio non richiede necessariamente la forma scritta , tranne nel caso in cui il cliente sia rappresentato da una pubblica amministrazione . Con detto contratto l’avvocato si obbliga a svolgere prestazioni di assistenza o consulenza legale a favore del cliente o anche di un terzo, a fronte della corresponsione di un corrispettivo a titolo di compenso professionale, pur essendo possibile anche la gratuità dell’incarico ai sensi del 1° comma dell’art. 13 della L.P.
E’ frequente nella prassi la stipula di contratti di clientela, con cui il legale garantisce un’assistenza stabile continuativa a un’impresa .
Alla luce di quanto sopra esposto, il contratto di patrocinio forense è certamente disciplinato dalle norme riconducibili agli artt. 1703 e ss. c.c., che si integrano con gli artt. 2229 e ss. c.c. che ovviamente si pongono su un piano di specialità. Il rapporto è ulteriormente regolamentato, oltre che dalle regole del mandato e del contratto d’opera intellettuale, dalla legge professionale n. 247/2012, dalle norme di comportamento deontologiche, visti i richiami di cui agli artt. 2 e 3 della L.P., dalla legge processuale civile (es. artt. 83, 84, 85, 88, 89 e 96 c.p.c.) e dal codice penale (artt. 348, 380, 381 e 382 c.p.) .
L’insieme di queste norme è stato opportunamente definito come diritto forense .
Una felice definizione del rapporto professionale forense era contenuta nell’art. 36 del codice deontologico del 1997, poi abrogato in seguito all’approvazione del nuovo testo entrato in vigore nel 2014 , e non riportato nella norma omologa attuale (art. 23): “L’avvocato ha l’obbligo di difendere il cliente nel miglior modo possibile nei limiti del mandato e nell’osservanza della legge e dei princìpi deontologici”.
Tuttavia, l’attuale definizione del rapporto professionale forense va letta in base al combinato disposto di due differenti norme deontologiche attualmente in vigore:
• Art. 1, 3° comma, cod. deont. for.: “Le norme deontologiche sono essenziali per la realizzazione e la tutela dell’affidamento della collettività e della clientela, della correttezza dei comportamenti, della qualità ed efficacia della prestazione.”
• Art. 10 cod. deont. for.: “Dovere di fedeltà. L’avvocato deve adempiere fedelmente il mandato ricevuto, svolgendo la propria attività a tutela dell’interesse della parte assistita e nel rispetto del rilievo costituzionale e sociale della difesa.”
L’evoluzione normativa deontologica è parallela al cambiamento di visione e di concezione della funzione difensiva dell’avvocato nella società moderna. L’avvocato, ora, difendendo il singolo cliente, deve sempre considerare la superiore funzione pubblica e sociale del proprio ruolo . In altre parole, il difensore, pur nell’ambito del rispetto del dovere di fedeltà nei confronti del cliente, deve essere consapevole del ruolo costituzionale e sociale del proprio ruolo, rappresentando un elemento indispensabile nell’ambito della corretta amministrazione della giustizia , garantendo l’attuazione del principio del contraddittorio disposto dal 2° comma dell’art. 111 della carta costituzionale . Il problema si pone, in particolare, quando gli interessi individuali del cliente entrino in conflitto con quelli superiori della collettività. In questo caso, al contrario di quanto avveniva in passato, l’avvocato deve attentamente considerare la propria funzione pubblica e sociale , non limitandosi soltanto al mero rapporto deontologico nei confronti del cliente .
Un aspetto sul quale è necessario soffermarsi immediatamente riguarda la particolare distinzione del rapporto contrattuale forense a seconda dei soggetti coinvolti.
Infatti, se da un lato è indispensabile che una delle parti sia rappresentata da un avvocato, singolarmente o in associazione o in società tra professionisti, dall’altro non sempre la parte che stipula il contratto è quella che beneficia dell’attività difensiva.
Capita spesso, anzi, che colui che riceve la prestazione professionale sia diverso dal soggetto che ha stipulato il contratto e si è impegnato a corrispondere l’onorario.
E’ stata fatta a questo proposito l’opportuna distinzione tra cliente e assistito, secondo una felice intuizione di Danovi , poi direttamente recepita nell’ultimo codice deontologico attualmente vigente: infatti, un conto è il rapporto interno che intercorre tra chi richiede la prestazione professionale e il patrono, un altro è il rapporto esterno che si forma con il rilascio della procura ex art. 83 c.p.c.
Il cliente è colui che si obbliga alla corresponsione del compenso; l’assistito è colui a favore del quale è prestata l’attività professionale (artt. 23, 24, 27, 28, 34 ecc. cod. deont. for.) .
Il rapporto tra avvocato e cliente si consolida con la stipula del negozio bilaterale rappresentato dal contratto di patrocinio, mentre lo jus postulandi (art. 84 c.p.c. - il potere di difendere in giudizio) viene conferito dalla parte assistita con un atto unilaterale recettizio costituito dalla procura . Il contratto di patrocinio è a forma libera, mentre la procura ad litem deve essere conferita necessariamente per iscritto a pena di nullità .
In questo caso il contratto di patrocinio si configura ordinariamente come un contratto a favore di terzo. Tuttavia, rispetto all’ipotesi prevista dall’art. 1411 c.c., il rapporto tra stipulante e terzo è più stringente. Infatti, nell’ipotesi ordinaria non occorre l’espressa accettazione del terzo che acquista il diritto verso il promittente per effetto della stipulazione a suo favore (art. 1411, 2° comma c.c.), salvo che dichiari di non voler profittare del contratto .
Nel contratto di patrocinio, invece, visto il 1° comma dell’art. 23 del cod. deont. for., occorre l’espressa accettazione del terzo – parte assistita, dovendo essere svolto l’incarico nel suo esclusivo interesse. Questa connotazione più incisiva dell’intervento del terzo è giustificata dal rapporto di fiducia che qualifica il contratto di patrocinio, visto il 2° comma dell’art. 11 del cod. deont. forense: il rapporto professionale deve essere basato non solo sulla chiarezza e lealtà, ma anche sulla condivisione delle scelte processuali e delle prospettive nella conduzione della causa o della consulenza .
Ovviamente, nella normalità dei casi, il cliente e la parte assistita coincidono nella stessa persona.
Un ulteriore tema rilevante nel contratto di patrocinio riguarda la facoltà di recesso riconosciuta alle parti. Come si è già evidenziato, il rapporto professionale forense deve essere necessariamente caratterizzato da un’assoluta fiducia reciproca tra le parti, peraltro espressamente richiamata dall’art. 11 del cod. deont. for.
Del resto, l’intuitus personae caratterizza l’intero contratto d’opera intellettuale e si rinviene nel principio della personalità della prestazione nell’esecuzione dell’incarico sancito dall’art. 2232 c.c.
Proprio per questo, dal punto di vista del cliente-parte assistita, non vi sono dubbi sulla facoltà di libero recesso, visto l’art. 2237 c.c., salvo solo l’onere del pagamento delle spese e del compenso limitatamente alla attività concretamente svolta .
Viceversa, molto più problematica è la questione in relazione al recesso del professionista forense; infatti, gli artt. 2237 e 1727 c.c. consentono il recesso per sola giusta causa , con la facoltà di richiedere il compenso solo per l’opera svolta riguardo al risultato utile derivato al cliente, e sempre che il recesso non comporti pregiudizio .
L’art. 85 c.p.c., viceversa, consente la libera recedibilità dall’incarico in sede processuale, anche se ovviamente permangono gli effetti ultrattivi nei confronti della parte fino alla sostituzione del difensore .
L’art. 32 del codice deontologico forense consente la rinuncia all’incarico, purché con congruo preavviso e con adeguate cautele per evitare pregiudizi alla parte assistita . L’art. 14 L.P. è speculare alla norma deontologica, anche senza il richiamo al congruo preavviso.
In questo ginepraio normativo, ritengo che sia preferibile la tesi della libera recedibilità da parte del patrono, che a volte può avere motivi propri, pur non rientranti nell’ambito della giusta causa, che minano il rapporto di fiducia e giustificano (se non addirittura suggeriscono) il recesso (pensiamo all’ipotesi in cui la linea difensiva proposta dall’avvocato non sia condivisa dal cliente) . La particolarità del contratto di patrocinio consente il libero recesso al professionista, dovendosi applicare le norme che regolano la professione forense in rapporto di specialità con quelle generali, pur con le cautele imposte dal codice deontologico e dalla L.P.
Sul punto ritengo sia decisivo il 1° comma dell’art. 14 L.P.: infatti, per il principio lex specialis derogat legi generali , la norma prevale sugli artt. 1727 e 2237 c.c., per cui va decisamente preferita la tesi che consente all’avvocato di recedere dal contratto di patrocinio anche in assenza di giusta causa .

§2 – La valenza giuridica delle norme deontologiche.
Come ho esposto nel paragrafo precedente, le regole deontologiche assumono forte pregnanza nel rapporto tra avvocato e il binomio cliente-assistito. La deontologia rappresenta il complesso delle regole di condotta che devono essere rispettate nell’attività professionale .
Il problema che si è posto riguarda il fatto della valenza giuridica delle regole deontologiche, che non sono approvate con provvedimenti legislativi ma con delibera del Consiglio Nazionale Forense (C.N.F.) . Infatti, secondo un’impostazione tradizionale, si ritiene che i precetti deontologici rappresentino delle norme di comportamento interne alla categoria, prive di carattere giuridico . Queste regole interne sarebbero rilevanti al più come quaestio facti ex art. 1362 c.c. censurabile in cassazione solo per difetto di motivazione per omesso esame di un fatto decisivo della causa (art. 360 n. 5 c.p.c. – nella sua odierna declinazione) . Questa interpretazione, tra l’altro, pone un forte vincolo alla censura in cassazione delle decisioni in tema di responsabilità deontologica, dal momento che l’impugnazione delle decisioni del C.N.F. è ammessa solo avanti alle sezioni unite per incompetenza, eccesso di potere e violazioni di legge (art. 36, 6° comma L.P.). Per altro orientamento, invece, le norme deontologiche non sarebbero né di natura pattizia, né giuridica, ma, seguendo l’insegnamento di Santi Romano , artefice della teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici, apparterrebbero alle regole di un autonomo gruppo sociale, intangibile dall’ordinamento dello stato, salvo solo il caso della violazione di diritti umani .
Un terzo orientamento, invece, sostenuto da autorevole dottrina ancora prima dell’entrata in vigore della legge professionale, ritiene che le regole deontologiche siano delle vere norme giuridiche integrative del precetto legislativo che attribuisce al C.N.F. il potere disciplinare . Si faceva riferimento, prima dell’entrata in vigore della legge professionale, all’art. 54 e ss. del regio decreto legge n. 1578/1933 , all’art. 59 e ss. del regio decreto n. 37/1934 e al decreto legislativo luogotenenziale n. 382/1944. Il principio era espresso anche nel combinato disposto di cui agli artt. 12 (che imponeva agli iscritti di comportarsi secondo dignità e decoro) e 38 del regio decreto legge n. 1578/1933 (che prevedeva la sottoposizione a procedimento disciplinare di chi violava precetti deontologici) ; questo insieme di norme consentiva di sanzionare in sede disciplinare i comportamenti deontologicamente rilevanti degli avvocati. Grazie a questo sistema normativo il C.N.F. era (ed è) considerato un organo giurisdizionale speciale in materia disciplinare forense che esercita un potere dello Stato. La nuova legge professionale ha confermato espressamente questa impostazione: infatti, visti gli artt. 34 e ss., ha preservato gli artt. 52 e ss. del regio decreto legge n. 1578/1933 e 59 e ss. del regio decreto n. 37/1934; inoltre, il C.N.F. ha mantenuto il proprio potere giurisdizionale disciplinare in sede di impugnazione, visti gli artt. 24 e 61 della legge n. 247/2012. Infine, la legge professionale ha confermato con l’art. 36 la validità delle disposizioni di cui al decreto legislativo luogotenenziale n. 382/1944.
La legge professionale n. 247/2012, però, è andata anche oltre: infatti, da un lato l’art. 35, 1° comma, lett. d) ha espressamente conferito al C.N.F. il potere di emanare e di aggiornare il codice deontologico, dall’altro il 3° comma dell’art. 3 prescrive espressamente il dovere dell’avvocato di rispettare le norme deontologiche.
Per questo motivo la regola deontologica si applica anche nella valutazione del contratto di patrocinio intercorso con il cliente-assistito ex art. 1374 c.c., dovendosi ritenere integrato dalle norme deontologiche forensi.
Pertanto, sono da condividere gli studi successivi all’entrata in vigore della legge professionale che ritengono ormai indubitabile che le norme deontologiche abbiano carattere giuridico .
La natura normativa delle regole deontologiche incide profondamente sulla responsabilità professionale dell’avvocato. Infatti, in precedenza, quando tra responsabilità professionale e deontologica sussisteva una netta separazione , l’illecito deontologico non rappresentava di per sé un illecito civile, e ogni fatto andava valutato caso per caso per ravvisare se l’ordinamento considerava nella fattispecie la violazione deontologica rilevante ai fini della responsabilità civile.
Ora, invece, la violazione di un precetto deontologico, che rappresenta una norma giuridica, costituisce di per sé un illecito civile .
Non tutte le violazioni deontologiche, peraltro, rappresentano inadempimento contrattuale rilevante all’interno del rapporto di patrocinio, ma solo quelle che siano in connessione con il mandato: così appaiono irrilevanti i precetti relativi agli adempimenti fiscali e previdenziali dell’avvocato e quelli legati ai rapporti con il consiglio dell’ordine e i tirocinanti; così pure sembrano estranei alla responsabilità civile i princìpi generali legati alla probità, alla dignità e al decoro della professione, sempre che non abbiano riflessi diretti sulla prestazione professionale.
Di sicuro, però, ora l’interpretazione della regola deontologica come norma giuridica pone il principio secondo il quale l’avvocato che violi un precetto deontologico in connessione con il mandato risulta inadempiente agli obblighi contrattuali con il cliente-assistito e risponde sia in sede disciplinare che civile.
Peraltro, la dignità normativa delle regole deontologiche pone un problema di responsabilità civile dell’avvocato anche extracontrattuale. Infatti, una volta riconosciuta la natura normativa della norma deontologica, il mancato rispetto del precetto deontologico rappresenta anche illecito aquiliano . Né potrebbe costituire valida giustificazione nei confronti dei terzi il vincolo del mandato, per cui eventualmente dovrebbe rispondere per eventuali fatti illeciti il mandante e non il mandatario, perché evidentemente il mandato professionale deve essere esercitato sempre nel rispetto delle leggi e delle altre fonti normative.
Ovviamente, anche in questo caso la violazione deontologica non sempre rappresenta un illecito civile risarcibile; tuttavia, la violazione di determinate norme, come ad esempio il divieto di produrre la corrispondenza riservata del collega avversario (art. 48 cod. deont. for.) o il divieto di aggravare la controparte con inutili iniziative plurime (art. 66 cod. deont. for.) , potrebbe esporre il legale all’azione di risarcimento dell’avversario ai sensi dell’art. 2043 c.c. .
Conseguentemente la natura giuridica delle norme deontologiche comporta un ulteriore allargamento della responsabilità professionale forense.

§3. – Il dovere di informazione verso il cliente-assistito.
La prima regola che l’avvocato deve osservare nel rapporto con il proprio cliente-parte assistita è l’assolvimento del dovere informativo disposto espressamente dall’art. 27 cod. deont. for. per ottenere il consenso all’esercizio dell’attività di assistenza legale .
L’avvocato, preliminarmente, deve studiare attentamente la questione sottoposta dal suo patrocinato prima di accettare l’incarico, dopo aver svolto opportuni colloqui e dopo aver raccolto la documentazione rilevante . Va evidenziato che in questa fase di studio anche il cliente è onerato da un obbligo di collaborazione e di informazione speculare a quello del proprio patrono . Ovviamente, laddove il parere informativo dell’avvocato risultasse errato a causa di erronee informazioni fornite dal cliente, non potrebbe poi sussistere alcuna responsabilità del legale che abbia indagato con la dovuta diligenza . Solo dopo un attento studio del caso si è nelle condizioni di esprimere un parere al cliente sull’opportunità di promuovere una lite o resistere alla pretesa di un avversario . Va subito sottolineato che l’avvocato civilista coscienzioso saprà sconsigliare il cliente dall’affrontare la causa quando la ritenga ingiusta o manifestamente infondata . Il difensore probo e onesto deve rinunciare all’incarico quando, dopo aver studiato il caso, si sia reso conto che la pretesa del cliente sia priva di fondamento e di speranze . L’avvocato non deve assecondare passivamente e acriticamente le iniziative giudiziarie più fantasiose e pretestuose . Questa impostazione viene talvolta criticata perché ritenuta eccessivamente rigorosa, considerate le incertezze della attuale legislazione , ma ritengo personalmente che sia tuttora valida anche in base agli stessi orientamenti più recenti della giurisprudenza in materia di responsabilità professionale dell’avvocato . Infatti, nel momento in cui l’avvocato consiglia al cliente di assumere o meno determinate iniziative processuali, esprime un parere stragiudiziale che può assumere forme svariate, dalla semplice consulenza orale svolta direttamente al termine del colloquio, fino alla stesura di un complesso parere pro veritate . Normalmente il parere deve esprimere argomentazioni dirette alla tutela della posizione del cliente, anche esaminando dialetticamente le tesi contrarie . Il parere non ha fini persuasivi ma deve fornire al cliente una risposta oggettiva, che può contenere soluzioni non univoche, allorquando sussista un contrasto della giurisprudenza, oppure addirittura può rappresentare un esito non favorevole alle tesi del patrocinato . Il contenuto del parere, tra l’altro, deve essere coordinato con le disposizioni di cui all’art. 27 del codice deontologico forense , che impongono l’adeguato assolvimento dell’obbligo informativo per ottenere il consenso da parte dell’avente diritto allo svolgimento dell’attività difensiva : l’avvocato deve dare all’assistito tutte le informazioni possibili sulle caratteristiche della controversia, sull’importanza delle attività da espletare , sulle iniziative da assumere e sulle possibili soluzioni. Il dovere di informare il cliente sulle “iniziative e sulle ipotesi di soluzione” è cruciale per superare definitivamente il tradizionale brocardo habent lites sidera sua , secondo cui l’avvocato non è gravato dall’onere di prevedere l’esito della lite, essendo impossibile ogni previsione che sfugge alle regole della logica formale : ora l’avvocato deve svolgere la diagnosi e la prognosi della causa, precisando non solo la questione fattuale e giuridica del caso (la malattia), ma anche le attività giudiziali o stragiudiziali da affrontare (le terapie) . Ovviamente questa previsione non potrà mai avere i caratteri della certezza , ma dovrà essere condotta secondo criteri probabilistici . Inoltre, l’avvocato deve informare la parte assistita sulla presumibile durata del processo e sui relativi costi . Ancora, bisogna procedere ad informare la parte assistita sul trattamento dei dati personali e si deve identificare il cliente (art. 23, 2° comma, del cod. deont. for.) o il titolare effettivo della prestazione per procedere all’adeguata verifica ai fini dell’antiriciclaggio (decreto legislativo 15/5/2017 n. 90). Infine, l’avvocato deve informare l’assistito del diritto di accedere al gratuito patrocinio, quando ne ricorrano gli estremi, della possibilità (o dell’obbligatorietà) di avvalersi del procedimento di mediazione disciplinato dal decreto legislativo n. 28/2010 , delle relative agevolazioni fiscali e della negoziazione assistita di cui agli artt. 2 e ss. del decreto legge n. 132/2014, convertito con modifiche dalla legge n. 162/2014 . Ancora, visto il riformato 3° comma dell’art. 27, è necessario informare il cliente sui percorsi alternativi al contenzioso giudiziario previsti dalla legge. Inoltre, devono essere resi noti al cliente gli estremi della polizza a copertura della responsabilità civile professionale (art. 27, comma 5° cod. deont. for. e art. 12, comma 1° L.P.) . In questa fase della propria prestazione professionale l’avvocato non adempie un’obbligazione di mezzi, come normalmente accade nella fase giudiziale del rapporto, ma una vera e propria obbligazione di risultato , dovendo offrire al cliente tutti gli elementi di valutazione necessari allo scopo di assumere una consapevole decisione in ordine all’opportunità o meno di promuovere la causa , rispondendo anche per colpa lieve allorquando ometta di segnalare al cliente, per ignoranza, negligenza o imperizia, tutte le questioni di fatto o di diritto che avrebbero sconsigliato l’utile esperimento dell’azione (come per esempio nel caso di omessa segnalazione del compimento della prescrizione del suo diritto – art. 27, comma 7° del cod. deont. for.). Questa tesi va, però, opportunamente chiarita. Non può essere ammissibile ritenere che l’avvocato sia obbligato ad informare il cliente in termini tali da garantire l’esito della soluzione prospettata, anche se solo con aspettative probabilistiche , salvo il caso in cui abbia assicurato con certezza il buon esito della causa. Non c’è alcuna possibilità di garantire con certezza la vittoria in giudizio perché dipende da attività esterne all’avvocato (ad esempio mutamento dell’orientamento giurisprudenziale, incertezze sull’assunzione probatoria, ecc.) . Il giudizio di responsabilità sulla prestazione dell’avvocato va condotto ovviamente ex ante e non ex post: ci si deve porre nelle condizioni di conoscenza che l’avvocato aveva o poteva diligentemente avere al momento del conferimento dell’incarico . Del resto, nell’ambito della didattica forense, si insegna ai tirocinanti avvocati che il parere su una determinata fattispecie può condurre a diverse soluzioni, tutte potenzialmente corrette se adeguatamente sostenute da un ragionamento giuridico metodologicamente ben impostato . Infatti, “il diritto non è tranquillizzante certezza, ma problema, sovente di ardua e (opinabile) soluzione” .
Il dovere informativo non è limitato dal fatto che, al momento della formulazione del parere, non sia stato ancora stipulato il contratto di patrocinio . Infatti, prima della stipula del contratto, l’avvocato deve uniformarsi al principio di buona fede di cui all’art. 1337 c.c. che governa la responsabilità precontrattuale e che si declina proprio nell’obbligo di informare l’altra parte su tutte le circostanze che possono essere determinanti per il suo consenso .
Il dovere informativo non si esaurisce certamente all’atto dell’assunzione dell’incarico, ma accompagna l’avvocato durante tutto lo svolgimento dell’attività di patrocinio , visti i commi 6°, 7° e 8° dell’art. 27: il cliente e la parte assistita devono essere informati sullo svolgimento del mandato e hanno diritto di ricevere la copia di tutti gli atti e documenti riguardanti la difesa, esclusa sola la corrispondenza qualificata come riservata scambiata tra legali ai sensi del 3° comma dell’art. 48 cod. deont. for.. Il difensore deve avvisare i patrocinati sulla necessità di compiere atti necessari per evitare prescrizioni, decadenze o altri eventi pregiudizievoli . Infine, più in generale l’avvocato deve informare la parte assistita su quanto appreso legittimamente durante il mandato. Si intendono in questo caso gli eventi rilevanti che incidono sull’oggetto della difesa .
Sembrerebbe che il dovere di informare il cliente e la parte assistita in ordine allo svolgimento del mandato l’obbligo per l’avvocato sia meno stringente, visto l’inciso “ogni qual volta ne venga richiesto” riportato dal 5° comma dell’art. 27. Si potrebbe pensare, dunque, che, una volta assunto l’incarico, l’avvocato debba informare il cliente sullo svolgimento dell’attività professionale solo qualora ne sia espressamente richiesto. Tuttavia, diverse ragioni depongono nel senso che questo affievolimento non sussista. Innanzi tutto, la ratio complessiva della norma è quella di assicurare alla parte assistita-cliente il diritto di essere chiaramente informata sulle vicende del processo, dei provvedimenti del giudice e degli atti e documenti scambiate tra le parti . Inoltre, la giurisprudenza disciplinare ritiene correntemente che sussista un vero e proprio dovere di informare il cliente sullo stato della causa come espressione del dovere di diligenza, sanzionando il contegno reticente o omissivo dell’avvocato . Il precetto del 6° comma, poi, va letto anche in combinato disposto con l’8° comma, in base al quale la comunicazione di eventi rilevanti del processo va inoltrata anche a prescindere dall’espressa richiesta del cliente. Quindi, l’avvocato probo e diligente avrà cura di informare il cliente - parte assistita passo a passo sullo svolgimento dell’attività professionale, anche comunicando scrupolosamente i provvedimenti del giudice e gli atti e i documenti riversati nel fascicolo dalla controparte e dal consulente tecnico. Inoltre, senza che sia necessaria un’apposita richiesta del cliente, nel caso in cui il processo presenti evidenti criticità, ad esempio all’esito dell’assunzione dei mezzi istruttori, non vi è dubbio che l’avvocato sia onerato non solo dal dovere di informazione, ma anche da quello di dissuasione nel procedere con la causa . Il dovere di informazione, infine, può proseguire anche dopo la cessazione dell’incarico, ad esempio nel caso di ultrattività del mandato per mancata sostituzione del difensore che abbia rinunciato all’incarico, visto l’art. 85 c.p.c.
Si è osservato che non è necessario che questa attività informativa si svolga per iscritto, ma può essere data con ogni mezzo (oralmente nel corso di colloqui, per telefono, ecc.), purché in modo chiaro e compiuto . L’assunto va condiviso, tuttavia è altamente raccomandato che l’attività informativa venga svolta prevalentemente per iscritto. Infatti, in caso di contestazione sul rispetto di questo dovere, che incide direttamente sull’adempimento dell’avvocato in relazione alla propria prestazione professionale , l’onere della prova ricade sul difensore che dovrà dimostrare di aver puntualmente e compiutamente informato il cliente sullo svolgimento dell’incarico sin dal momento dell’assunzione .
Pertanto, l’avvocato deve prestare massima attenzione nell’osservare il dovere informativo, la cui violazione incide tanto sul momento genetico dell’assunzione dell’incarico, quanto su quello funzionale dello svolgimento del processo.

§4. – La diligenza dell’avvocato come parametro dell’adempimento tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato.
Il contratto d’opera intellettuale si distingue dal contratto d’opera manuale (art. 2222 c.c.) per il rischio del lavoro, che è regolato in maniera sensibilmente differente nelle due tipologie contrattuali: l’obbligazione del prestatore d’opera manuale è sempre un’obbligazione di risultato, sia che consista nell’esecuzione di un’opera, sia che consista nella prestazione di un servizio; oggetto del contratto non è il lavoro, ma il risultato del lavoro. Al contrario, l’obbligazione del prestatore d’opera intellettuale è un’obbligazione di mezzi: il professionista deve mettere a disposizione del cliente la propria opera con diligenza e perizia, ma non è obbligato a raggiungere il risultato desiderato .
La distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato non risulta presente nel nostro codice civile, essendo stata elaborata dalla dottrina che l’ha mutuata dall’ordinamento francese . E’ stato opportunamente sottolineato che la distinzione nel nostro ordinamento non rileva ai fini dell’applicazione della disciplina generale delle obbligazioni e della responsabilità contrattuale, ma piuttosto ai fini della identificazione della prestazione dovuta. La distinzione non comporta che il debitore nell’obbligazione di risultato sia tenuto ad assicurare il risultato stesso nell’ambito di una responsabilità oggettiva. Anche nelle obbligazioni di risultato il debitore può liberarsi da responsabilità se prova l’impossibilità della prestazione non prevedibile né superabile con la normale diligenza; infatti, la disciplina dell’onere della prova di cui all’art. 1218 c.c. non distingue tra obbligazioni di mezzi e di risultato . Non è posta in discussione l’unità del concetto di obbligazione, nel senso che tutte le obbligazioni hanno come scopo l’utilità per il creditore ai sensi dell’art. 1174 c.c. . Pertanto, la distinzione riguarda la prestazione dedotta, piuttosto che il rapporto obbligatorio . In dottrina, comunque, la distinzione tra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi è controversa, tra chi la ritiene utile quanto meno a fini descrittivi e chi la avversa decisamente . La giurisprudenza, almeno in ambito di responsabilità professionale dell’avvocato, ritiene che la prestazione richiesta al legale riguardi un’obbligazione di mezzi : il professionista deve mettere a disposizione del cliente la propria opera con diligenza e perizia, ma non è obbligato a raggiungere il risultato desiderato .
Ritengo che la distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato nei termini sopradescritti vada condivisa. La distinzione, infatti, mantiene tutta la sua validità ed attualità nella descrizione dell’attività oggetto della prestazione in determinate obbligazioni di fare. Infatti, in un’obbligazione di fare il debitore può promettere un risultato concreto; ma, soprattutto quando il risultato finale dipenda da circostanze esterne, il debitore può promettere solo un comportamento, una determinata (diligente) attività volta a conseguire il risultato, ma senza che questo sia oggetto di uno specifico impegno contrattuale .
Una volta accettata la tesi che l’obbligazione dell’avvocato riguarda l’attività diligente che deve essere oggetto della propria prestazione, il parametro dell’adempimento è costituito dalla diligenza professionale . Infatti, la diligenza dell’avvocato costituisce il canone di valutazione dell’inadempimento: trattandosi di obbligazione ordinariamente di mezzi, l’inadempimento del professionista non può essere desunto dal mancato raggiungimento del risultato utile del cliente, ma deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti allo svolgimento dell’attività professionale, con particolare riguardo al dovere di diligenza . Il criterio della diligenza discende dall’art. 1176 c.c.; secondo un’autorevole opinione dottrinale, la diligenza si distingue in senso proprio, facendo riferimento al 1° comma dell’art. 1176 c.c., e deve essere intesa come cura e sollecitudine nell’adempimento di tutte le obbligazioni. Oppure può essere intesa in senso improprio e significa la perizia nell’esecuzione “esperta” della prestazione . Questa tesi non è universalmente condivisa, perché per altri autori la nozione di diligenza rimane unica, anche se la perizia rappresenterebbe la caratteristica che contraddistingue le attività professionali . La giurisprudenza segue la teoria unitaria della diligenza che comprende in sé anche la perizia, intesa come conoscenza delle regole tecniche di una determinata arte o professione . La diligenza viene correntemente definita come l’impiego adeguato delle energie e dei mezzi utili al soddisfacimento del creditore, mentre la perizia rappresenta l’impiego delle adeguate nozioni tecniche (perizia oggettiva) da parte di chi sia dotato di idonea abilità (perizia soggettiva) .
Normalmente l’avvocato deve adempiere il proprio mandato professionale con la diligenza qualificata di cui al 2° comma dell’art. 1176 c.c.; la diligenza che il legale deve impiegare nello svolgimento della prestazione forense è quella del professionista esercente la sua attività con media preparazione (homo eiusdem professionis et condicionis) . Non può essere condivisa la tesi più rigorosa che collega la diligenza a quella superiore alla media , salvo che si intenda ovviamente quella del comune padre di famiglia non qualificato per svolgere una prestazione professionale, e sempre che non si verta su un’attività specialistica .
Pertanto, dal momento che il mancato raggiungimento del risultato rappresentato dal buon esito della causa non comporta in re ipsa responsabilità professionale , bisogna valutare se nel caso concreto sussista la violazione dell’obbligo di eseguire la prestazione con adeguata diligenza. Il concetto di diligenza è intimamente connesso a quello di colpa, che ne costituisce la negazione (negligenza) . Nelle obbligazioni di comportamento l’inadempimento va commisurato alla diligenza impiegata dal debitore. Pertanto, nelle obbligazioni di comportamento c’è inadempimento quando sussiste la colpa .
Il concetto di colpa è unitario sia in ambito contrattuale che extracontrattuale, anche se sotto il profilo probatorio l’elemento soggettivo nel primo caso è presunto, mentre nel secondo deve essere provato dal danneggiato . La colpa consiste sempre nella violazione di regole di condotta che si riassumono nella distinzione di cui all’art. 43 c.p. applicabile anche alla responsabilità civile : la colpa sussiste in caso di negligenza, imprudenza o imperizia o in caso di inosservanza normativa (leggi, regolamenti, ordini o discipline) .
Quindi, ai fini dell’inadempimento occorre valutare se l’attività svolta dal patrono presenti i profili della colpa professionale. L’accertamento della colpa va eseguito confrontando la condotta effettiva tenuta dal debitore con quella che avrebbe tenuto il professionista di media preparazione .
Per alcuni autori la colpa andrebbe distinta dall’errore professionale, che pur rappresentando una condotta tecnicamente errata sarebbe caratterizzato dall’assenza di colpa . Personalmente ritengo questa distinzione inutile sul piano pratico, perché in ambito della responsabilità civile del professionista ciò che conta è sempre la colpa professionale che è caratterizzata da un errore colposo nella esecuzione dell’attività .
Infatti, il fondamento della responsabilità colposa del professionista è rappresentato dalla disciplina dell’art. 2236 c.c. che introduce un’esimente basata sulla graduazione della colpa .
L’art. 2236 c.c. prescrive che, se la prestazione implica problemi tecnici di speciale difficoltà , il prestatore d’opera non risponde dei danni se non in caso di dolo o di colpa grave; in sostanza, il professionista intellettuale, oltre a non essere vincolato al raggiungimento di un risultato, non risponde ordinariamente per colpa lieve nell’esecuzione della propria prestazione se presenta profili di speciale difficoltà. L’art. 2236 c.c. va raccordato all’art. 1176, 2° comma, c.c.: si tratta di un rapporto di integrazione per complementarietà e non per specialità : normalmente il professionista intellettuale deve impiegare la diligenza qualificata di cui al 2° comma dell’art. 1176 c.c., ma in caso di problemi tecnici di speciale difficoltà risponde solo per colpa grave o dolo.
L’esonero da responsabilità per colpa lieve, peraltro, viene ammesso solo in caso di imperizia del professionista (per errore dovuto a imperfetta conoscenza tecnica), ma non in caso di negligenza (l’errore dovuto a trascuratezza – ad esempio l’avvocato che omette l’esecuzione di accertamenti fondamentali prima di una causa, come l’estrazione di una visura camerale o ipo-catastale) o imprudenza (l’errore dovuto ad avventatezza: ad esempio l’avvocato che si avventura in una causa per cui non ha alcuna competenza); in caso di negligenza o imprudenza, l’avvocato risponde per colpa lieve anche quando la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà .
Molto incerto è il confine tra la colpa grave e la colpa lieve. Tutte le distinzioni proposte lasciano sempre un ampio margine di incertezza. Si è detto che la colpa lieve consisterebbe nella violazione dell’ordinaria diligenza, mentre quella grave consisterebbe nella violazione della diligenza minima . La colpa grave talvolta viene definita come errore grossolano o inescusabile, o come espressione di palese insipienza o ignoranza degli obblighi professionali , o nella totale difformità del metodo o della tecnica praticata rispetto a quelle regole che si possono comunemente considerare acquisite alla scienza e alla pratica . Nella sostanza, quando si definisce la colpa grave come errore grossolano o inescusabile nell’esecuzione della prestazione professionale, si rimane sempre nel vago e non si individua con precisione il confine tra la possibilità di ricorrere all’esimente e la sua esclusione. Pertanto, sul punto è condivisibile l’opinione di chi sostiene che il confine vada individuato nel caso concreto ricorrendo alla discrezionalità consentita dal principio del libero convincimento del giudice che si desume dal 1° comma dell’art. 116 c.p.c. ; il giudice dovrà sempre attenersi ovviamente ai princìpi generali dell’ordinamento e alle regole di buona pratica della professione, valutando come criterio di preferenza il contegno assunto dal professionista sotto l’aspetto della diligenza: se l’avvocato, affrontando una questione di particolare complessità, presti la propria attività con la adeguata attenzione e cautela, la responsabilità potrà essere valutata con minor rigore laddove l’errore sia trascurabile, anche se in parte prevedibile .
Naturalmente, perché possa essere invocata l’esimente di cui all’art. 2236 c.c., non basta la colpa lieve, ma occorre anche che la prestazione dedotta nel contratto di patrocinio presenti problemi tecnici di speciale difficoltà . Bisogna, quindi, che l’avvocato debba affrontare una questione di particolare complessità.
Pertanto, l’imperizia per cui sussiste l’attenuazione di responsabilità ex art. 2236 c.c. si identifica sostanzialmente nell’errore nella risoluzione di problemi tecnici che trascendano la preparazione media dell’avvocato qualificato o che siano oggetto di una vexata quaestio giurisprudenziale . Si deve trattare di questioni opinabili relative all’interpretazione della legge o del fatto oggetto del giudizio .
Va sottolineato che l’esimente di cui all’art. 2236 c.c. si applica anche quando la responsabilità professionale sia di origine extracontrattuale .
In ambito forense la riflessione sulla diligenza professionale, che costituisce il parametro per valutare la correttezza della prestazione, merita un ulteriore approfondimento.
L’avvocato non va esente da responsabilità se, pur comportandosi secondo i canoni della media diligenza professionale, si avventuri in questioni giuridiche per cui non abbia adeguata preparazione. Il dovere di diligenza di cui all’art. 12 del cod. deont. forense deve associarsi al dovere di competenza di cui all’art. 14 cod. deont. for.: l’avvocato non deve assumere incarichi che non sia in grado di svolgere con adeguata capacità professionale . Se l’incarico professionale richiede competenze diverse da quelle possedute dal legale, questi dovrà invitare il cliente a integrare l’assistenza con altro collega adeguatamente preparato, visto il 2° comma dell’art. 26 cod. deont. for. .
Infine, bisogna tener presente che per alcune attività materiali, come il compimento di atti processuali, le notifiche e le iscrizioni a ruolo, sostanzialmente riconducibili alla vecchia funzione procuratoria , l’obbligazione dell’avvocato è di risultato e non di mezzi, per cui ci si libera da responsabilità solo per impossibilità oggettiva non imputabile ai sensi dell’art. 1218 c.c.

§6. – Il nesso eziologico tra la prestazione inadeguata dell’avvocato e l’esito negativo delle aspettative del cliente-assistito: la causalità di fatto.

La responsabilità professionale dell’avvocato non è scontata neppure se la prestazione risulta inadeguata sotto l’aspetto della diligenza, secondo i criteri indicati al paragrafo precedente.
Infatti, il cliente – parte assistita deve assolvere il proprio onere probatorio sia sotto il profilo del nesso causale, sia sotto quello della sussistenza del danno.
Secondo l’orientamento largamente dominante, in base al principio che l’obbligazione del professionista forense è di mezzi e non di risultato, incombe sul cliente l’onere della prova della dimostrazione dell’inadempimento, la prova del danno e del nesso eziologico tra il comportamento inadempiente e il danno . La colpa professionale forense non si presume, ma deve essere dimostrata dal cliente .
Il nesso eziologico in ambito risarcitorio nel nostro ordinamento si scompone in due momenti : prima deve essere determinato se un determinato evento può essere imputato ad un soggetto; poi il nesso deve essere valutato anche per stimare il danno provocato da quel determinato evento . Il nesso eziologico tra la condotta del soggetto agente e l’evento riguarda la causalità di fatto che viene regolata dagli artt. 40 e 41 c.p. pacificamente applicabili anche in materia civile : si tratta di accertare nel caso concreto se, secondo un criterio di regolarità statistica o adeguata (che esclude il nesso in presenza di un evento imprevedibile ed inevitabile da parte del danneggiante), applicando la regola dell’id quod plerumque accidit, un determinato contegno ha provocato il verificarsi di un certo evento . La causalità di fatto si scompone a propria volta in un elemento positivo e uno negativo: quello positivo è dato dalla prova che un soggetto abbia posto in essere una condizione dell’evento secondo la regola della condicio sine qua non; quello negativo è che l’evento finale non sia stato determinato dal concorso di fattori eccezionali . La prova dell’elemento positivo incombe sul danneggiato , mentre la prova del fatto impeditivo spetta al danneggiante.
Il nesso eziologico tra l’evento e il danno attiene invece alla causalità giuridica ed è regolato dall’art. 1223 c.c.: il danneggiato deve provare il danno in termini di danno emergente e lucro cessante che sia in conseguenzialità immediata e diretta con l’inadempimento o l’illecito . Il danno poi deve essere prevedibile da parte del debitore, salvo che sussista il dolo ai sensi dell’art. 1225 c.c. La funzione della causalità giuridica del danno è quella di contenere il quantum risarcibile entro i limiti della normalità, della regolarità e della ordinarietà desunti dalla regola delle conseguenze immediate e dirette espressa dall’art. 1223 c.c. e dalla regola dell’evitabilità posta dall’art. 1227, 2° comma c.c., secondo cui non sono risarcibili i danni che il creditore avrebbe potuto evitare con l’ordinaria diligenza .
Negli stessi termini, quindi, deve essere provato il nesso causale nell’ambito del giudizio di responsabilità professionale forense, scomponendolo nei due diversi momenti della causalità di fatto e di quella giuridica: il cliente deve provare sia l’evento rappresentato causato dalla prestazione professionale non correttamente eseguita, sia il danno .
Per quanto riguarda il nesso eziologico relativo alla causalità di fatto, l’orientamento tradizionale si orienta sul criterio della certezza morale degli effetti dell’attività del professionista: bisogna che sia raggiunta la certezza che, in mancanza dell’inadempimento dell’avvocato, l’esito del giudizio sarebbe stato diverso e ovviamente favorevole al cliente. Si tratta di una prova difficilissima, se non diabolica, perché bisogna provare un fatto certo nell’ambito del processo ove il risultato è sempre condizionato da un’inevitabile alea .
La giurisprudenza più recente, tuttavia, predilige il criterio della probabilità: occorre dimostrare che un determinato comportamento probabilmente avrebbe portato ad un esito diverso del giudizio . Questo orientamento è ovviamente più favorevole al cliente perché mitiga la difficoltà di dimostrare, con riguardo alla situazione valutata ex ante, la certezza del raggiungimento del risultato sperato dal cliente in assenza dell’inadempimento dell’avvocato.
Sia che si applichi il criterio della certezza morale, sia quello probabilistico, in ogni caso bisogna verificare se, qualora l’avvocato avesse tenuto la condotta dovuta, il cliente avrebbe avuto il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, in mancanza, la prova del nesso causale ; l’unica differenza riguarda il grado di certezza o probabilità di questo accertamento. Non basta allegare la diversa condotta che l’avvocato avrebbe dovuto correttamente tenere: bisogna specificare in che termini e con quali argomentazioni giuridiche e di fatto l’avvocato avrebbe dovuto proporre la domanda o l’eccezione , perché bisogna dimostrare la fondatezza del diritto da tutelare sulla base di una valutazione prognostica positiva .
In molti casi di responsabilità professionale forense, poi, il nesso eziologico si pone come causalità omissiva; si tratta dei casi in cui l’inadempimento è rappresentato dal mancato compimento di una determinata attività da parte dell’avvocato (mancato deposito in termini di una memoria, mancata proposizione dell’appello ecc.). Nella causalità omissiva l’evento di danno si verifica perché l’agente non pone in essere il comportamento dovuto. Il nesso omissivo è sempre regolato dall’art. 40 c.p.: non aver impedito l’evento che si ha l’obbligo di impedire equivale a commetterlo .
Nel caso di causalità omissiva, ovverosia quando il danno scaturisce dalla mancata prestazione professionale, il ragionamento del giudice deve basarsi su regole di natura probabilistica che consentano di ritenere la sussistenza del nesso tra l’omissione e l’evento . In altre parole, si deve valutare se il comportamento dovuto avrebbe potuto, in termini almeno probabilistici, evitare o quanto meno ridurre il danno. Naturalmente, per probabilità, deve intendersi un elevato grado di possibilità .
In ogni caso deve essere condotta la verifica di “uno stringente nesso di causalità tra l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente e la condotta dell’avvocato” .
Pertanto, la prova a carico del cliente è molto ardua anche in base all’imputazione della responsabilità con il nesso causale probabilistico. Del resto, considerando l’ambito di estrema aleatorietà in cui viene ad operare l’avvocato, la cui opera è condizionata dalle informazioni del cliente, dal contegno di terzi (C.T.U., testimoni ecc.) e dall’interpretazione delle norme da parte della giurisprudenza, si deve ritenere che questo rigoroso sistema probatorio sia assolutamente condivisibile. Infatti, se fosse applicato un criterio meno severo per il cliente, l’avvocato si troverebbe praticamente esposto al rischio di dover rispondere del buon esito della causa che dipende da innumerevoli fattori esterni alla sua attività e alla sua sfera di controllo.
Si correrebbe il rischio di degradare la responsabilità professionale a responsabilità sostanzialmente oggettiva, come purtroppo è praticamente occorso in ambito medico, dando seguito alla degenerazione della c.d. medicina difensiva . Infatti, del tutto diversa è la situazione in ambito di responsabilità medica , dove viene correntemente applicato il principio di vicinanza della prova, in base al quale il paziente deve provare solo il titolo del rapporto (il contratto nei confronti del medico o della struttura sanitaria) e allegare l’insuccesso della prestazione sanitaria, mentre il medico è gravato dall’onere di provare l’assenza di colpa professionale e, in caso di problemi tecnici di speciale difficoltà, la mancanza di dolo o colpa grave, dovendo anche dimostrare di essersi attenuto alle linee guida dell’Istituto Superiore di Sanità o alle buone pratiche clinico-assistenziali (art. 5 della legge n. 24/2017 c.d. Gelli-Bianco) .

§7. – Il danno risarcibile da perdita di chance: la causalità giuridica.

Una volta data la prova del nesso di causalità di fatto, deve essere provata la causalità giuridica tra l’evento pregiudizievole determinato dalla condotta negligente dell’avvocato e il danno concretamente subito dal cliente . Tra il fatto inteso come evento di danno, ed il danno, inteso come perdita patrimoniale risarcibile, deve sussistere una relazione da causa ad effetto in base alla quale il secondo sia riconducibile al primo .
Infatti, la responsabilità civile dell’avvocato si configura nel caso in cui il proprio operato, viziato da un comportamento doloso, gravemente colposo (nel caso di prestazione particolarmente difficoltosa) o semplicemente colposo (nel caso di prestazione ordinaria), abbia provocato come conseguenza immediata e diretta un danno certo ed effettivo al cliente ai sensi dell’art. 1223 c.c., con i limiti di cui agli artt. 1225 e 1227 c.c. Infatti, il danno va limitato a quello prevedibile (salvo il dolo) e a quello che il danneggiato non avrebbe potuto evitare con l’ordinaria diligenza, salva la riduzione proporzionale del risarcimento nel caso in cui vi sia stato concorso colposo del creditore .
Dal punto di vista astratto, il cliente potrebbe riuscire a dimostrare la responsabilità professionale dell’avvocato (an debeatur) ma non il concreto danno risarcibile (quantum) . Si pensi al caso in cui il credito, anche qualora si fosse vinta la causa, sarebbe stato irrecuperabile per il conclamato stato di insolvenza della controparte.
Anche nell’ipotesi in cui il nesso causale tra l’evento e il danno fosse a propria volta dimostrato, giammai il risarcimento potrebbe essere riconosciuto per l’intero. Infatti, l’alea che incombe su ogni giudizio fa sì che in ambito forense il contegno negligente dell’avvocato possa provocare al più la perdita di una chance di vittoria da parte del cliente, non potendo essere assicurato in alcun caso a priori il risultato rappresentato dal buon esito del giudizio. Per questo motivo il danno risarcibile si presenta come danno da perdita di chance, ovverosia da perdita di una probabilità favorevole .
Il danno patrimoniale da perdita di chance è un danno futuro consistente non nel mancato conseguimento di un vantaggio economico, ma nella perdita della mera possibilità di conseguirlo , secondo una valutazione ex ante da ricondursi al momento in cui il comportamento illecito ha inciso su tale possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale .
Tuttavia, bisogna dare la prova concreta del danno da perdita di chance e non è sufficiente allegare solo la pretesa negligenza dell’avvocato. Infatti, la chance non è di per sé risarcibile come mera possibilità astratta di un risultato diverso e migliore , ma occorre che essa sussista effettivamente ed in concreto sulla base di una valutazione prognostica basata su allegazioni ed elementi probatori forniti dalla parte assistita . La chance in ambito di responsabilità forense è rappresentata dal consistente fumus boni juris sulla seria e apprezzabile possibilità di successo dell’azione che doveva essere diligentemente esperita . L’onere probatorio specifico sull’inferenza probabilistica incombe sul preteso danneggiato .
Una volta dimostrato il nesso di causalità giuridica in ordine al danno di perdita di chance, si deve considerare il vantaggio economico potenzialmente realizzabile dal danneggiato, diminuito di un coefficiente di riduzione proporzionato al grado di possibilità di conseguirlo, secondo un apprezzamento del giudice da valutarsi caso per caso . Bisogna considerare nella fattispecie il grado di possibilità di vittoria del cliente; questo rappresenterà il danno da perdita di chance in termini percentuali. Deve trattarsi di una percentuale almeno significativa . Non credo che possa essere considerata una chance di vittoria inferiore al venti-trenta per cento . Una volta che il danno sia stato provato in maniera certa e significativa, può essere utile il ricorso al criterio di liquidazione equitativa .
In mancanza di precisi elementi probatori atti a giustificare una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito dell’attività del prestatore d’opera professionale, va esclusa l’affermazione della responsabilità forense.
Si può porre, in casi molto limitati nell’ambito della responsabilità professionale forense, il problema della risarcibilità del danno non patrimoniale . Proprio per la marginalità della casistica nella responsabilità del patrono legale, si tratta l’argomento in termini sintetici.
Il danno non patrimoniale , declinato normalmente in ambito di responsabilità forense nella voce descrittiva del danno morale, è riconosciuto ai sensi dell’art. 2059 c.c. solo nei casi previsti dalla legge. L’evoluzione giurisprudenziale ha dapprima esteso il concetto di danno non patrimoniale a tutte le ipotesi di pregiudizi diversi ed ulteriori rispetto a quelli patrimoniali, purché conseguenza della lesione di un interesse costituzionalmente garantito . In sostanza, oltre all’ipotesi indicata dall’art. 185 c.p. , per cui il danno non patrimoniale era riconosciuto in caso di illecito che configurasse un reato, si è stabilito che anche la Carta Costituzionale rappresenta una fonte legislativa idonea ad integrare uno degli altri casi previsti dalla legge richiesti dall’art. 2059 c.c.
Successivamente, le note sentenze c.d. di San Martino hanno ulteriormente precisato il principio predetto riconoscendo il risarcimento del danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti, anche quando non sussista un fatto reato, né ricorra una delle ipotesi specificatamente previste dalle leggi, purché ricorrano tre condizioni :
a) Che l’interesse leso abbia rilevanza costituzionale (altrimenti si perverrebbe ad una abrogazione per via interpretativa dell’art. 2059 c.c.);
b) Che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità (in quanto il dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. impone a ciascuno di tollerare le minime intrusioni nella propria sfera personale inevitabilmente scaturenti dalla convivenza);
c) Che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita o alla felicità.
Le sezioni unite hanno ulteriormente precisato che il danno patrimoniale ha natura unitaria, anche se può essere qualificato, per ragioni descrittive, nelle classiche voci del danno biologico, morale ed esistenziale . E’ stato anche precisato che il danno non patrimoniale può scaturire dall’inadempimento contrattuale, come avviene normalmente nell’ambito della prestazione forense. Inoltre, il danno non patrimoniale deve essere provato come danno conseguenza e non come danno evento: ovverosia, il danno non è provato in re ipsa in base al semplice accadimento dell’illecito. Successivamente una serie di sentenze del 2011 ha sancito il principio che per la liquidazione del danno non patrimoniale bisogna fare riferimento alle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano .
Tuttavia, l’incertezza interpretativa non è mai cessata del tutto . Infatti, la S.C. è dovuta ancora intervenire proponendo un decalogo di valutazione e di liquidazione del danno non patrimoniale .
Infine, il sistema risarcitorio è stato ulteriormente riordinato con una serie di sentenze emesse a novembre del 2019, note già come le “nuove sentenze di San Martino”, che hanno inciso profondamente sotto l’aspetto della liquidazione del danno nella responsabilità sanitaria .
Il sistema dell’accertamento del danno non patrimoniale, quindi, è in continua evoluzione, anche se riguarda principalmente la responsabilità sanitaria, ove il danno alla persona ricorre costantemente.
Pertanto, in ambito legale, il danno non patrimoniale può ricorrere esclusivamente quando per negligenza del patrono sia stato leso un diritto di rango costituzionale, come la libertà personale, l’onore, la famiglia, la dignità soggettiva o il diritto di elettorato attivo e passivo .
Si può pensare, in particolare, all’attività degli avvocati penalisti che abbiano provocato con un contegno colpevolmente negligente l’applicazione di misure restrittive della libertà professionale; oppure al caso in cui l’avvocato, magari nell’ambito della commissione di un illecito penale (ad es. infedele patrocinio ), procuri intenzionalmente gravissimi danni al cliente tanto da provocare addirittura stati di morbilità.
Al di fuori di queste situazioni molto particolari non può ricorrere il danno non patrimoniale in ambito forense, e men che meno nei casi in cui si controverta di mere obbligazioni pecuniarie civili.
Un’ultima riflessione va fatta in tema di compenso dell’avvocato in caso di accertata responsabilità professionale. Ovviamente, se non viene accertata responsabilità, il compenso forense va sempre riconosciuto. Viceversa, se vi è stata responsabilità professionale, bisogna distinguere tra contratto di patrocinio e contratto di clientela; nel primo caso, che riguarda normalmente solo una determinata questione, la dichiarazione di risoluzione per inadempimento comporta la ripetizione del compenso secondo le regole ordinarie di cui agli artt. 1458 e 2033 c.c. ; ovviamente, se non è stato pagato il compenso, può essere sollevata l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c.; invece, nel contratto di clientela, che riguarda l’assistenza o la consulenza continuativa, l’eventuale risoluzione non travolge le prestazioni già eseguite, visto l’art. 1458 c.c.. Ovviamente occorre che l’inadempimento sia stato di non scarsa importanza, considerato l’art. 1455 c.c.
E’ necessario, in ogni caso, che il cliente abbia ritualmente proposto la domanda di risoluzione del contratto e di ripetizione del compenso (o di accertamento negativo del credito), non potendo essere ricompresa la domanda restitutoria in quella di risarcimento .
Va precisato, infine, che la Suprema Corte ha ritenuto dovuto il compenso all’avvocato anche in caso d’errore professionale, ma senza che il cliente sia stato in grado di dimostrare un concreto danno in base alla condotta negligente del professionista .

§7. – Casistica giurisprudenziale.

Al termine di questo lavoro, è opportuno analizzare i principali casi concreti di responsabilità trattati dalla giurisprudenza .
L’avvocato è stato ritenuto responsabile civilmente nei confronti del proprio cliente nei seguenti casi:
• Per errore nella notificazione di un atto ;
• Per non aver proposto tempestivamente l’istanza di ammissione di mezzi di prova ;
• Per mancata impugnazione tempestiva di una decisione ;
• Per non aver consigliato un’impugnazione tempestiva di un provvedimento ;
• Per la mancata integrazione del contraddittorio ;
• Per aver depositato tardivamente il ricorso tanto da incorrere in dichiarazione di inammissibilità per decadenza ;
• Per omessa richiesta di prove testimoniali ;
• Per aver rinunciato al mandato senza aver adottato le opportune iniziative a tutela delle ragioni del cliente e senza comunque averlo informato ;
• Per aver iniziato una causa in relazione a un diritto prescritto senza avere preventivamente informato il cliente ;
• Per aver omesso il compimento di atti interruttivi della prescrizione ;
• Per aver omesso di perfezionare una transazione, lasciando nel frattempo decorrere i termini d’appello ;
• Per tardiva opposizione a decreto ingiuntivo con successiva declaratoria di inammissibilità ;
• Per tardiva riassunzione di una causa ;
• Per tardiva contestazione dei fatti costitutivi dedotti a fondamento delle domande dell’attore ;
• Per aver introdotto in sede ordinaria una causa soggetta ad arbitrato in presenza di clausola arbitrale irrituale ;
• Per aver omesso di comunicare al cliente l’avvenuta notificazione di una sentenza di condanna fino a far decorrere il termine per impugnare ;
• Per non aver proposto congiuntamente alla domanda di esecuzione specifica di un contratto preliminare di compravendita l’azione di riduzione del prezzo per vizi del bene ;
• Per non aver tenuto conto di una soluzione giuridica costantemente riaffermata dalle sezioni unite del giudice di legittimità .
Come si può notare, la grande maggioranza delle decisioni riguarda il compimento errato o omesso di attività materiali dell’avvocato che non rientrano nell’assistenza difensiva vera e propria, ma sono collegabili alla vecchia attività procuratoria che non rappresenta un’obbligazione di mezzi, ma di risultato: se l’avvocato sbaglia una notifica o un deposito può liberarsi da responsabilità solo se prova l’impossibilità oggettiva ad adempiere a lui non imputabile ai sensi dell’art. 1218 c.c.
Meritano un approfondimento due ipotesi di responsabilità professionale particolarmente dibattute e ricorrenti.
Il primo caso riguarda la responsabilità dell’avvocato per omessa impugnazione di un provvedimento. Non si tratta affatto di una responsabilità in re ipsa: il cliente non può limitarsi ad allegare semplicemente la mancata proposizione dell’atto di impugnazione deducendo il preteso danno. Il cliente, secondo la regola generale, deve dare la prova dell’incarico conferito all’avvocato . Poi deve dimostrare l’erroneità della pronuncia da impugnare , dovendo consentire al giudice una valutazione pronostica positiva circa il probabile esito dell’azione giudiziale : in sostanza deve essere prodotto l’intero fascicolo di causa, comprensivo delle difese avversarie, per poter sviluppare un vero processo nel processo. Poi deve essere dettagliatamente censurato il provvedimento da impugnare proponendo i motivi che avrebbero probabilmente portato all’accoglimento del mezzo di gravame. In mancanza di questa prova, non può essere riconosciuta la responsabilità dell’avvocato.
Infine, bisogna considerare l’ipotesi di responsabilità per errore nella scelta della strategia processuale. Si tratta di una questione molto delicata perché pone dei rischi molto gravi a carico dell’avvocato; infatti, è impossibile stabilire a priori una strategia che possa condurre con certezza all’accoglimento della pretesa del patrocinato. Ad esempio, è stato ritenuto responsabile l’avvocato che abbia tutelato un credito del cliente tramite rito ordinario anziché con decreto ingiuntivo, per aver allungato i tempi di soddisfazione del credito . La questione può essere opinabile, perché il difensore poteva avere delle ottime ragioni per procedere per via ordinaria: perché la documentazione di cui all’art. 634 c.p.c. era insufficiente, oppure perché, nella certezza dell’opposizione, contava di poter argomentare meglio un’eventuale istanza di ordinanza ingiunzione di cui all’art. 186 ter c.p.c. In un altro caso la responsabilità è stata ravvisata nella mancata citazione in giudizio del Fondo di garanzia per le vittime delle strade nell’ambito di un incidente stradale, pur essendo stato ritualmente citato il responsabile . Anche qui potrebbero esserci state delle peculiari ragioni per evitare la chiamata in causa del Fondo, ad esempio per la sicura solvibilità del danneggiato. Il principio che governa la materia è che la scelta della strategia processuale può essere foriera di responsabilità solo se la sua inadeguatezza rispetto alle aspettative del cliente risulti valutata e motivata dal giudice ex ante, restando esclusa nel caso in cui le questioni giuridiche o fattuali presentino margini di opinabilità . E’ vero che, secondo l’ultimo orientamento della Suprema Corte, la scelta della strategia processuale spetta all’avvocato , anche quanto la linea difensiva sia stata ispirata dalla volontà del cliente o addirittura concordata. Tuttavia, si tratta di una tesi assolutamente criticabile. Infatti, ciò che conta, è che l’avvocato abbia svolto adeguatamente il proprio dovere informativo all’atto della stipula del contratto di patrocinio. Infatti, laddove il difensore abbia correttamente illustrato al cliente la questione giuridica e le possibili soluzioni, non potendo garantire il risultato della causa, dovrà andare esente da responsabilità. Infatti, in questo senso si esprime quella avveduta giurisprudenza che sposta l’asse della responsabilità professionale dalla strategia processuale a quello dell’obbligo informativo, dando adeguato rilievo al consenso informato del cliente-assistito .
Quindi, anche in tema di strategia processuale non può essere condivisa la tesi secondo cui incomba sull’avvocato la relativa responsabilità quando sia stato assolto adeguatamente il dovere informativo. L’avvocato può anche accettare la difesa in una causa c.d. persa senza incorrere in responsabilità, purché informi opportunamente il cliente e lo assista diligentemente.

§8. – Conclusioni.
La responsabilità professionale forense sta conoscendo un momento di ampia espansione dovuto sia a motivazioni di tipo giuridico, collegate ai nuovi perimetri elaborati dalla giurisprudenza in ambito della responsabilità professionale in generale, sia a cause di tipo sociale, economico e ordinamentale . Infatti, i confini della responsabilità professionale si sono sempre più allargati riducendo l’ambito di operatività delle obbligazioni di mezzi, ormai spesso ricondotte nell’alveo di quelle di risultato. D’altra parte, il grande aumento del numero di professionisti ha causato un progressivo decadimento della qualità professionale che giustifica rapporti sempre più tesi con i clienti congiunti ai sempre maggiori rischi di errori determinati dalla complessità del sistema. Oggi la professione forense viene sempre più assimilata anche a livello legislativo a un’impresa ed è in atto ormai da diversi anni un processo di indirizzo verso criteri mercantilistici che sembra condurre alla mercificazione della prestazione del giurista .
La funzione pubblica dell’avvocato segna sempre più il passo rispetto a quella privatistica , intesa nel senso deteriore di strumento della dialettica eristica tesa ad ottenere il soddisfacimento delle ragioni del cliente per fas et nefas. Il cliente-assistito tende sempre più a considerare l’avvocato come strumento per ottenere il soddisfacimento dei propri pretesi diritti, aldilà del torto e della ragione, confondendoli con i desideri.
Di fronte a questa situazione, si è verificato un altro fenomeno deprecabile. Si è spezzato il patto di colleganza tra avvocati. E’ vero, ma fino ad un certo punto, che il dovere di fedeltà e di difesa è preminente rispetto a quello di colleganza.
Tuttavia, ora, di fronte a questa crescita esponenziale del contenzioso professionale forense, bisogna ammettere che spesso all’origine delle cause contro gli avvocati ci sono dei nuovi difensori “crumiri” che bacchettano l’operato dei colleghi con il senno di poi. Ragionando con il senno di poi si vincono anche le lotterie, oltre alle cause.
I colleghi, invece, dovrebbero fare da filtro, quali autentici promotori di legalità, sulle ipotesi di responsabilità professionale forense, provvedendo a selezionare le situazioni di reale manifesta negligenza degli avvocati. Ma questo succederà solo quando il numero degli avvocati tornerà ad essere equilibrato rispetto alle esigenze del mercato, probabilmente nell’arco di un paio di generazioni. Infatti, ora lo spropositato numero degli avvocati degenera nel malcostume forense, per cui si tende ad accettare qualsiasi incarico, senza alcun serio vaglio critico della questione giuridica.
Bisogna sempre tenere presente che nelle cause, sin dai tempi di Aristotele, si può solo utilizzare un metodo argomentativo retoricamente corretto che consente di non incorrere negli errori.
Ma nessun metodo difensivo può garantire il buon esito di una lite in giudizio.

 

 

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