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Come correttamente osservato dagli autori del Manifesto “La rivoluzione digitale rappresenta, in tutta la sua formidabile trasversalità e capillarità, lo sfondo ineludibile di qualunque progettazione del diritto del lavoro del futuro. Non esiste o quasi istituto lavoristico, o prassi gestionale o anche sindacale, che non ne possa essere coinvolto”.
E’ evidente, non solo per gli operatori del diritto, che l’emergenza sanitaria per Covid-19 ha costretto in un limbo il mercato del lavoro, a fronte anche dell’ulteriore divieto dei licenziamenti disposto dall’esecutivo e previsto fino alla metà di ottobre.
Le soluzioni proposte per prevenire ed arginare, all’indomani del termine del divieto, una probabile “emorragia occupazionale”, vanno dalla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario fino all’utilizzo, in parte, del Recovery Fund per compensare un’eventuale perdita della retribuzione in ragione di una diminuzione dell’orario di lavoro.
Tuttavia, la soluzione predominante, cui tutti guardano per la salvaguardia dei posti di lavoro – e forse troppo presto acclamata come panacea assoluta -è lo smart working.
Invero, l’emergenza pandemica che stiamo vivendo ha fatto riscoprire il lavoro agile, una modalità di esecuzione del lavoro subordinato tesa a facilitare la conciliazione tra il tempo della vita lavorativa e quello della vita personale.
Numerosi economisti del lavoro hanno parlato di “gigantesca opportunità” per accelerare l’adozione massiva di quel lavoro agile di cui si parla da anni e che in Italia ha avuto anche un riconoscimento giuridico con la Legge 81 del 2017.
In realtà il settore statale è stato il primo a codificare il telelavoro in Italia, con la legge Madia nel 2015, mentre per il settore privato la legge è arrivata soltanto nel 2017". Il vero pioniere del telelavoro però è stato l'Inps nel 1990, seguito dall'Ibm nel 1995 e dalla Telecom nel 1997.
Ed invero, lo smart working si è rivelato uno strumento prezioso sia per i lavoratori che per le aziende, ed il dibattito attuale è focalizzato sul futuro di questo strumento, ovvero - prima ancora che in relazione ai termini di declinazione delle diverse modalità di fruizione -, sotto il profilo dell’avanzamento del processo di digitalizzazione e delle relative competenze digitali, anche in relazione al diverso ricorso che è stato fatto da parte delle aziende nei diversi settori prima e dopo il lock down.
Già sul finire degli Anni 50 il sociologo e filosofo Marshall McLuhan aveva intuito che la diffusione delle tecnologie di comunicazione non avrebbe determinato un mero miglioramento tecnologico, bensì sarebbe stata l’origine di una rivoluzione mentale destinata a cambiare la rappresentazione e la visione del mondo di intere generazioni. Dunque, il preludio di quel processo che condurrà alla rivoluzione digitale, definita dal filosofo Luciano Floridi “quarta rivoluzione”, dopo quelle di Copernico, Darwin e Freud, che mutarono per sempre la nostra visione del mondo.
Le implicazioni di cambiamenti di questa portata sono molteplici, ma l’aspetto sul quale più direttamente impatterà sono le relazioni tra le persone, perché è indubbio che quando pensiamo al lavoro pensiamo a un ambiente fisico, uno spazio sociale condiviso, all’interno del quale si lavora, e lavorare in smart, come sappiamo, non implica la previsione di orari, tantomeno uno spazio fisico definito dove svolgere la prestazione, avendo a disposizione tecnologie e connettività elevate.
Come da molti già osservato, quello adottato in questi mesi è più telelavoro, ovvero lavoro a distanza (remote working o working from home), essendo chiaro che un conto è il telelavoro, un altro è una organizzazione del lavoro ove parte delle risorse lavorano in modalità smart.
I due istituti attengono a due culture di organizzazioni del tutto differenti, l’una (il telelavoro) ispirata al fordismo, l’altra (lo smart working) post-fordista e 4.0., cui sono, naturalmente, correlati differenti diritti, doveri e tutele.
Ciò che invece li accomuna sono i dati relativi alla effettiva diffusione di questa modalità di lavoro.
Da una ricerca sui lavoratori dipendenti effettuata da Community Research&Analysis per Federmeccanica durante il periodo del lock down, è emerso un utilizzo discontinuo e diseguale tra i vari settori produttivi, laddove gli ambiti ove si è maggiormente concentrato sono quelli in cui le tecnologie digitali erano già diffuse ancor prima dell’insorgere dell’emergenza pandemica (servizi di informazione e comunicazione, fornitura di energia elettrica e gas, assicurative e finanziarie, ecc.), ove quindi è stato più facile adottare in tempi brevi una nuova organizzazione del lavoro.
Ritenere dunque che lo smart working possa rappresentare una rapida e facile soluzione ai problemi occupazionali che verranno, sconta, l’impossibilità per alcuni settori di applicare tale modalità di lavoro, come anche, talora, l’impreparazione di alcune aziende per mancanza di progettazione e, nel contempo, dei lavoratori per scarsa formazione.
Come osservato dagli Autori dell’anzidetta ricerca perché lo smart working possa diventare una modalità più omogeneamente diffusa nel contesto produttivo, c’è bisogno di “interventi organizzativi, manageriali e soprattutto culturali con risorse e tempi lunghi”.
A tale riguardo si è parlato della necessità di predisporre uno “statuto giuridico del lavoro agile”, proprio in ragione degli insegnamenti appresi in questo tempo di lavoro agile “forzato”.
Inoltre, è stato osservato che il lavoro a distanza deve essere interpretato prendendo in considerazione tre diversi aspetti dell’interesse sottostante la sua implementazione: il progetto manageriale-organizzativo, il progetto di vita individuale – di cui all’art. 18, comma 1, L. n. 81/2017 -, e da ultimo il progetto politico di organizzazione della società.
In questo contesto di convivenza di tali complessi interessi, talvolta contrastanti, è evidente che il ruolo da protagonista lo assume non tanto la dimensione legale quanto la dimensione contrattuale-collettiva, che assume rilevanza anche territoriale per promuovere uno sviluppo concertato e sostenibile del lavoro agile, attraverso la riconfigurazione dei luoghi e dei tempi di lavoro, ovvero mediante l’adeguamento di questi ultimi al processo di trasformazione digitale in corso (c.d. digital workplace o workplace 4.0), sostenuta, inevitabilmente, da una implementazione delle competenze necessarie per lo svolgimento della prestazione.

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