Testo integrale con note e bibliografia

1. Ripercorrere il dibattito tra concezioni contrattualistiche e acontrattualistiche nei rapporti di lavoro significa non solo ripensare ad un percorso scientifico e culturale quanto mai suggestivo, che rinvia alle origini del diritto del lavoro nel nostro paese, ma può anche rappresentare un’occasione propizia per approfondire, con un qualche distacco, le linee di tendenza che emergono nella trama confusa dell’attuale legislazione del lavoro. In questa prospettiva occorre subito avvertire che il tema rimane di grande complessità non fosse altro perché correlato da una parte all’evoluzione della dogmatica civilistica sui contratti e le obbligazioni, da un’altra parte ai rapporti sociali e di produzione in una fase storica di “grande trasformazione”.
Ad una prima impressione l’attenzione conferita al dibattito sul tema specifico può apparire eccessiva e squilibrata, specie in rapporto ai risvolti pratici che ne sono derivati, trattandosi di un confronto che va collocato in una certa fase storica di sviluppo della materia che ha mantenuto una impronta prevalentemente accademica e culturale con limitate ricadute sulla giurisprudenza pratica.
Come ormai diffusamente si riconosce le tesi istituzionalistiche e comunitaristiche di origine germanica, che pure hanno profondamente influenzato la cultura lavoristica della prima metà del secolo scorso, non hanno significativamente insidiato l’impostazione civilistica di derivazione pandettistica ben riflessa nel codice civile che assegna al contratto di lavoro la funzione di rappresentare l’atto costitutivo del rapporto e la fonte prioritaria della sua regolamentazione. Ciò va detto in via pregiudiziale, nonostante che l’art. 2094 c.c. indulga ad una visione istituzionalistica del lavoro nell’impresa nella misura in cui si limita a definire lo status di lavoratore dipendente inquadrato nell’organizzazione produttiva anziché definire l’oggetto del contratto che ne regola l’attività. Ma ciò, come ricerche quanto mai approfondite hanno da tempo chiarito, è il portato di una scelta tecnica storicamente datata, di esaltazione dell’attività produttiva espletata nell’impresa medio-grande e di conseguente inquadramento della fattispecie lavorativa nell’ambito della struttura organizzativa nella quale prevalentemente si realizza, che finisce per conformarne in gran parte i tratti regolativi e la congenie di diritti ed obblighi che vi sono correlati. Come ci viene di continuo ricordato, la disciplina lavoristica è legata a filo doppio con la rivoluzione industriale (G. Cazzetta e P. Passaniti).
Tale dipendenza storico-ideologica, nonostante alcune espressioni lessicali dal contenuto ambiguo (gerarchia, fedeltà, obbedienza, dipendenza), non implica l’adesione a una concezione istituzionalistica e comunitaristica del lavoro nell’impresa, e tantomeno mette in discussione la struttura sinallagmatica di scambio del rapporto di lavoro a favore di una concezione associativa e/o partecipativa, della quale una flebile parvenza è ravvisabile nell’obbligo di collaborazione del lavoratore nell’impresa.

2. Ben più insidiose delle contaminazioni derivanti dalla dottrina d’oltralpe si sono rivelate nel nostro ordinamento giuridico le teorie anticontrattualistiche per così dire autoctone, che periodicamente affiorano come una sorgente carsica nel dibattito scientifico e che in più occasioni hanno messo in discussione l’idoneità del contratto a costituire la fonte prioritaria delle relazioni di lavoro. Queste opinioni, solitamente riconducibili alla “sinistra accademica”, e quindi con un taglio ideologico ben definito, addirittura alternativo a quello che aveva contraddistinto le tesi istituzionalistiche e corporativistiche di matrice germanica (e la stessa configurazione civilistica “del lavoro nell’impresa”), hanno avuto come principali interpreti Umberto Romagnoli e Renato Scognamiglio (su posizioni peraltro niente affatto convergenti né nell’impostazione né nelle conclusioni).
Per noi della scuola napoletana formatisi sotto l’egida di Renato Scognamiglio, il percorso formativo è stato quanto mai accidentato, perché ispirato originariamente da una suggestiva visione del rapporto di lavoro, che poneva al centro dell’attenzione l’atto di inserimento del lavoratore in azienda quale espressione “fisica” della “messa a disposizione delle energie lavorative”, ha dovuto fare i conti con le teorie contrattualistiche, maggioritarie già dagli anni sessanta, che facevano capo ad autori di insuperabile valore, come Mengoni, Mancini, Montuschi, Riva Sanseverino, e con un testo tuttora fondamentale sulla subordinazione di Luciano Spagnuolo Vigorita costruito all’insegna della dogmatica contrattualistica. Ciò ha portato ad un sostanziale ecclettismo di posizioni ricostruttive, volto sostanzialmente a conciliare le due posizioni apparentemente difformi, mentre va segnalata a parte la posizione di qualcuno di noi, tra cui merita di essere ricordato il compianto Fabio Mazziotti che ha sviluppato in termini radicali le tesi del Maestro inquadrandole in una visione dichiaratamente marxista dei rapporti di produzione; posizione all’epoca niente affatto isolata ma che aveva alcuni autorevoli referenti nella scuola milanese tra cui Assanti e Smuraglia.
Echi flessibili e contraddittori di quelle posizioni, spesso rivisitate nell’ottica della dottrina sociale della chiesa (L. Mengoni), sono rintracciabili in quei filoni giurisprudenziali, in particolare della Corte costituzionale, che hanno teorizzato come elemento distintivo del contratto di lavoro subordinato la doppia alienazione del lavoratore, sia rispetto ai mezzi di produzione sia nei confronti delle finalità perseguite che sono ad esso completamente estranee. La tesi, risalente alla famosa sentenza n. 30/1966 redatta da Mengoni - la quale in alcuni passaggi richiama quasi testualmente alcune pagine della monografia di Umberto Romagnoli sul socio d’opera - se da una parte si giustifica in relazione alla fattispecie considerata, che aveva ad oggetto rapporti con matrice associativa, da un’altra parte è rimasta sostanzialmente inespressa e priva di reali conseguenze operative essendo tralaticiamente riportata per descrivere una condizione esistenziale che statisticamente contraddistingue la posizione dei lavoratori dipendenti nelle società post-capitalistiche, benché poco dica sugli elementi costitutivi della fattispecie del contratto di lavoro subordinato.

3. Ancora oggi, rivisto con gli occhi dell’attualità il dibattito tra contrattualisti e acontrattualisti, si è indotti a stemperare ogni radicale contrapposizione valorizzando piuttosto le diverse angolature da cui lo stesso fenomeno giuridico viene osservato. Il rapporto di lavoro nasce in limine in virtù di un atto negoziale costitutivo, che in punto di principio ne regola anche le relazioni reciproche, ciò nondimeno risulta connotato da forti elementi di specialità rispetto alla contrattualistica corrente, sia per lo stato di sotto-protezione sociale che contraddistingue la posizione del lavoratore anche a livello istituzionale, con riflessi immediati sulla sua capacità dispositiva, sia per la forte implicazione della persona del lavoratore, che non si limita a cedere una merce secondo una logica mercantile ma investe nel rapporto la propria persona e le proprie aspettative di vita e di emancipazione sociale. Di qui una legislazione sociale, di stampo prevalentemente pubblicistico, che determina una serie di vincoli legali inderogabili, che riducono a volte l’autonomia negoziale a poco più di un flatus vocis, sino a costituire la premessa teorica della concezione - questa si di matrice giurisprudenziale (è superfluo richiamare le note sentenze della Corte costituzionale n. 121/1993 e n. 115/1994) - che teorizza l’inderogabilità del tipo legale rappresentato dal contratto di lavoro subordinato. Anche quest’ultima tesi, retoricamente riproposta in innumerevoli versioni, non è stata mai compiutamente sviluppata, né nelle sue premesse teoriche né nelle sue implicazioni pratiche, lasciando un margine di approssimazione persino sulla scaturigine costituzionale di una tale costruzione, ed entrando peraltro sempre più in contraddizione con l’evoluzione della disciplina lavoristica e con il peso assegnato, già a livello costituzionale, all’autonomia collettiva nella dinamica delle fonti di regolazione della materia.
A tralasciare ogni approfondimento di tale questione non consentito in questa sede, è evidente che una tale teorica conferisce argomenti sostanziosi a concezioni che enfatizzano il rapporto in quanto tale, sempre suscettibile di travalicare la volontà negoziale consapevolmente o inconsapevolmente espressa dalle parti (per lo più a un livello meramente cartolare). Non è tuttavia facile stabilire fino a che punto un tale dibattito nelle sue implicazioni più radicali abbia effettivamente condizionato la pratica giurisprudenziale. Di certo ha radicato la convinzione che il rapporto di lavoro subordinato debba qualificarsi e ricostruirsi in relazione alle modalità di svolgimento della prestazione, così come la stessa logica è all’origine della convinzione che il datore di lavoro debba essere individuato sulla base di elementi di effettività sostanziale che rinviano all’esercizio continuativo dei poteri di impresa. Ma tali convinzioni, ormai radicate nel subconscio giurisprudenziale, più che essere il frutto di una consapevole scelta dogmatica, sono il portato di una tradizione interpretativa consolidata su alcuni dati normativi di riferimento, tra i quali in primis l’art. 2094 c.c., per quanto attiene alla qualificazione del lavoro subordinato, e gli artt. 1-3, legge n. 1369/60, per quanto attiene alla individuazione dell’effettivo datore di lavoro (con le sue diramazioni in materia di appalti post riforma Biagi, somministrazioni e distacchi).
Tuttavia, riconosciuto il giusto peso alla tradizione ricostruttiva consolidata, ciò non vuol dire asserire che il rapporto di lavoro abbia di per sé valenza costitutiva e che venga a configurarsi in relazione all’inserimento del lavoratore nella struttura organizzativa dell’impresa, ma vuol dire piuttosto che l’effettiva volontà delle parti negoziali debba essere ricostruita attraverso un procedimento logico più complesso rispetto a quello consueto nella dogmatica civilistica dei contratti e ciò anche al fine di neutralizzare operazioni di mascheramento e di simulazione favorite dallo squilibrio delle forze in campo e rese quanto mai redditizie per i vantaggi economici che vi sono correlati.
A questo riguardo - è superfluo dirlo - la valorizzazione dell’autonomia contrattuale non ha granché a vedere con il peso formale tributato dalla giurisprudenza al nomen iuris prescelto dalle parti negoziali, con la sottintesa aspirazione di qualificare il rapporto di lavoro e di condizionare l’indagine giudiziaria, giacché tale richiamo ha una valenza meramente retorica, densa di fumosità, visto che viene solitamente effettuato nel momento stesso in cui se ne esclude qualunque seria portata qualificatoria, sinanche in rapporti di lavoro in cui la autodeterminazione delle parti negoziali andrebbe valorizzata per non riprodurre la storica contraddizione insita nel diritto del lavoro sin dalle origini di proteggere eccessivamente situazioni privilegiate e di tralasciare del tutto situazioni socialmente ed economicamente emarginate. Né sembra che elementi di novità siano stati introdotti dalla normativa in materia di certificazione degli accordi negoziali individuali, anche per la flebile vincolatività delle relative procedure e per lo scarso appeal che continuano ad avere nei confronti di coloro che dovrebbero utilizzarle.
Persino norme “manifesto” che in passato hanno costituito il punto di riferimento delle teorie acontrattualistiche, quali l’art. 2126 c.c., sono agevolmente riconducibili in una logica contrattualistica atteso che la norma, nel disciplinare gli effetti (circoscritti) della prestazione resa in presenza di un contratto nullo o annullabile, convalida indirettamente il valore genetico e regolamentare dell’atto contrattuale quale fonte privilegiata di regolazione del rapporto.

4. D’altro canto, la forte riduzione dei margini regolamentari riconosciuti all’autonomia privata, unitamente a tecniche tranchant, come quella della sostituzione automatica delle clausole illegittime, utilizzata in maniera pervasiva nelle relazioni di lavoro, per non parlare dell’apparato sanzionatorio molto spesso perentorio (v. la disciplina in materia di rapporti flessibili), devono confrontarsi con una crescente fenomenologia di segno contrario, rappresentata per un verso dalla varietà di modelli tipologici di impiego della manodopera, che offrono opzioni sempre più articolate e personalizzate, sia sull’asse tipo/sotto tipo, sia su quello generale/speciale, per altro verso dall’ampia flessibilità organizzativa, modale e temporale all’interno del rapporto, ove spesso un peso non trascurabile viene vi è più riconosciuto alla volontà del lavoratore (in vario modo espressa, formalizzata e sacramentata) (si pensi da ultimo al lavoro agile e allo smart working).
Allo stesso tempo un ampio riconoscimento dell’autonomia contrattuale è riscontrabile nell’attuale regolamentazione del rapporto di lavoro pubblico, la cui riforma, ormai risalente, è avvenuta proprio all’insegna della valorizzazione della consensualità negoziale, quale naturale contrappeso ai poteri organizzativi, spesso autoritativi, che caratterizzavano il funzionamento delle amministrazioni pubbliche. In quel settore la scarsa incidenza delle situazioni fattuali, sia nella fase costitutiva del rapporto sia nella fase di svolgimento della prestazione (si veda l’ampio contenzioso sull’attribuzione delle posizioni organizzative, sui trattamenti accessori, sullo ius variandi, e così via), costituisce una barriera insuperabile anche rispetto ad operazioni di trasmigrazione delle tutele dal settore privato a quello pubblico, frequentemente veicolate dalla giurisprudenza della Corte europea.
La stessa tutela previdenziale, che costituisce una parte complementare del diritto del lavoro, si radica su una coppia di atti negoziali tra loro correlati, quello che attiene al rapporto di base e quello parallelo che si sviluppa nella relazione triangolare con l’ente previdenziale. Si tratta di atti negoziali distinti, intimamente interrelati, che pure consentono margini di negoziabilità, specie a seguito della diffusione di forme di previdenza complementare o negoziale, rimesse integralmente alle scelte dei singoli lavoratori.

5. A questo punto c’è da chiedersi se l’impostazione prescelta sia tuttora valida. In linea di massima risponderei in termini positivi e tuttavia occorre dare conto di alcuni fenomeni che possono adulterare i termini della ricostruzione. Ne indico tre che mi appaiono particolarmente significativi. In primo luogo occorre seguire attentamente lo sviluppo del dibattito civilistico sulla funzione del contratto in genere e sulla sua attualità nelle economie post moderne in presenza di fenomeni correnti di depitizzazione contrattuale e di poliformismo negoziale che segnalano sempre nuovi modelli contrattuali (contratti alieni, atipici, asimmetrici, del terzo contratto, contratti di rete, e così via) contraddistinti da una forte dipendenza dalle soluzioni prescelte all’interno dei rapporti economici e commerciali in cui gli stessi vengono a situarsi. In questo ambito il dibattito civilistico sulla “crisi della fattispecie”, quale categoria di predeterminazione concettuale dei modelli negoziali in vista della prevedibilità delle soluzioni giuridiche, costituisce una spia non secondaria di trasformazioni profonde che investono il cuore della dogmatica civilistica. Se ciò è vero, la crisi della categoria del contratto in generale non può evidentemente lasciare immune da riflessi profondi un contratto polimorfo come quello di lavoro subordinato, per così dire “al limite” per i forti elementi di difformità che storicamente lo contraddistinguono rispetto ai contratti di matrice esclusivamente patrimoniale.
In secondo luogo, per venire a tematiche più pertinenti, occorre attentamente monitorare i cambiamenti che si registrano nel mondo della produzione e del mercato del lavoro, favoriti ed anzi esaltati dalle nuove tecnologie specie informatiche e digitali, ove non trascurabili sono i segni di trasformazione delle condizioni di lavoro unitamente a processi di segmentazione e di flessibilizzazione sempre più diffusi.
Questi fenomeni creano un mercato parallelo, in qualche modo concorrenziale ed alternativo a quello ufficiale, che non trova adeguata corrispondenza protettiva nella trama antiquata disegnata dal codice civile e che pertanto tende ad organizzarsi secondo regole endogene non prive di intrinseca innovatività.
Una eco di tale problematica si ritrova nella recente riforma delle collaborazioni organizzate dal committente introdotta dall’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015, la quale, con un’operazione sommaria, ha sconvolto gli equilibri del sistema giuridico lavoristico ampliando l’area soggettiva della subordinazione, o quantomeno estendendo le relative tutele, riformulando così il discrimen tra il lavoro subordinato (rectius l’area del lavoro subordinato) e il lavoro autonomo (rectius l’area del lavoro autonomo) a seconda del soggetto che organizza l’attività lavorativa. In questa operazione, tecnicamente grossolana, ciò che colpisce è l’attenzione concentrata sull’organizzazione del lavoro e sulle istanze di tutela che vi sono connesse al di fuori della definizione di una fattispecie negoziale compiutamente definita. Il che ha indotto alcuni qualificati interpreti (A. Perulli) a inseguire categorie e fattispecie alquanto improbabili, o quantomeno di controversa ricostruzione, in un sistema completamente disarticolato costruito sulle dinamiche sociali in corso e sulle correlative istanze di protezione quali vanno emergendo nel dibattito politico-sindacale. Un sistema che non a caso è partito dalla disciplina applicabile, e quindi dal regime degli effetti, piuttosto che da una categoria o fattispecie programmatica di riferimento (tutta da ridefinire).
Un fenomeno analogo si è riprodotto nella recente legislazione sui riders e ciclo-fattorini urbani impegnati attraverso piattaforme digitali, ove l’attenzione è tutta concentrata sulle istanze di tutela in una tassonomia di schemi negoziali alternativi e fungibili neppure del tutto compatibili.
Una tale impostazione sembra assecondare l’ottica casistica e topica della giurisprudenza del lavoro, la quale opera molto spesso per intuizioni preventive o per precomprensioni della realtà da classificare, salvo poi ad individuare una circostanza o più circostanze di fatto suscettibili di conferire un qualche supporto argomentativo ad una operazione già premeditata. Un tale processo avviene all’insegna di un’ideologia aggregante e semplificatrice tale da includere in un’ampia categoria situazioni sociali e produttive vagamente affini ma anche in gran parte eterogenee.
Il fenomeno evidenziato non è affatto isolato ove si consideri la tendenza della giurisprudenza ad estendere la categoria della subordinazione ad una serie di figure professionali tradizionalmente di ambigua collocazione, ciò anche a prescindere da una chiara consapevolezza dei requisiti qualificanti, attraverso tecniche ricostruttive che intervengono sulla nozione tradizionale di lavoratore dipendente sopravvalutando alcuni elementi fattuali e sottovalutandone altri pure compresi in una consolidata tradizione ricostruttiva. Si pensi ad esempio alla recente sentenza in materia di lavoratori impegnati nelle agenzie ippiche (Cass. 13.2.2018, n. 3457), ove viene del tutto oscurato qualunque valore classificatorio connesso alla fase costitutiva o programmatica della relazione negoziale, come evidenziato dalla circostanza che il lavoratore possa persino rifiutare la prestazione lavorativa che gli viene offerta, in tal modo raccordandosi strettamente alle novità normative innanzi richiamate che riguardano soggetti, come i ciclofattorini urbani, che hanno una sostanziale libertà di accettare le prestazioni offerte ma che poi, entrati in un circuito rigidamente organizzato, risultano fortemente vincolati in termini molto più pervasivi di quelli che contraddistinguono un classico rapporto di lavoro dipendente. Oppure si pensi alla recente giurisprudenza in materia di lavoro giornalistico, che ha incluso nella categoria del lavoro dipendente i collaboratori pubblicisti ancorché discontinui nell’effettuare la prestazione superando così opzioni ricostruttive tradizionali spesso formalistiche o meramente burocratiche (Cass. n. 1867/2020).
Tendenze analoghe affiorano persino con riferimento a rapporti che orbitano in gran parte nel settore pubblico, come nel caso, ad esempio, dei medici impegnati nelle case di cura private e/o nelle aziende ospedaliere, ovvero nel caso dei Giudici onorari o Giudici di pace i quali rivendicano ormai da tempo uno status giuridico ed economico affine, se non coincidente, con quello dei Giudici togati (v. Trib di Sassari 24.1.2020).
Sarà un’impressione, ma sembra che molte barriere stiano improvvisamente franando determinando un vuoto di punti di riferimento teorici e la difficile ricerca di un nuovo equilibrio.

6. Persino il sistema previdenziale sembra perdere quale referente di base il contratto di riferimento, e segnatamente quello di lavoro subordinato. Come ben evidenziano recenti ricerche (M. Cinelli), il sistema di welfare nel nostro paese sta registrando una significativa trasfigurazione nella direzione dell’estensione di alcune tutele di base, originariamente appannaggio del lavoro dipendente, a fronte di una contrazione, o minore efficacia, di altre tutele, in particolare di quelle di matrice pensionistica destinate ad essere progressivamente ridimensionate. Vi è un nucleo duro di protezioni elementari che ha ormai una portata trasversale e generalista (tutela della malattia, maternità, congedi parentali, indennità di disoccupazione, protezione dei redditi nella sospensione dell’attività) suscettibile di investire il lavoro sans phrase in tutte le sue forme e manifestazioni, e che appare trascendere una logica strettamente negoziale di stampo assicurativo-contributivo. Ciò più che il risultato di posizioni teoriche da tempo prefigurate dalla migliore dottrina previdenzialista a favore di un sistema di welfare di stampo solidale e universalistico (Persiani, Cinelli, Sandulli), finanziato dalla fiscalità generale, in conformità al modello tratteggiato dall’art. 38 Cost., sembra il naturale portato della disgregazione del mercato del lavoro e della diffusa precarizzazione oltre che della progressiva contrazione delle risorse disponibili sempre più insufficienti ad assicurare adeguate condizioni di vita al lavoratore ed alla sua famiglia. Fatto sta che quando più operano logiche pubblicistiche di impronta perequativa, tanto più si riducono i margini dell’autonomia privata e si allenta il nesso di correlazione, se non di stretta interdipendenza, tra l’attività lavorativa espletata e le corrispondenti tutele previdenziali, che ormai attingono ad altri presupposti teorici di giustificazione.

 

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