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 TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

 Tutta la Costituzione italiana è conformata a concetti quali “lavoro”, “dignità sociale”, “dignità umana”. E’ il lavoro che conferisce dignità all’uomo tale da concorrere “al progresso materiale o spirituale della società” (art.4 Costituzione). Il lavoro è tutelato sotto molteplici aspetti (fra gli altri retributivo, sindacale, familiare etc…) e lo stesso art.41 nel riconoscere l’iniziativa economica privata come “libera”, ne fissa i confini richiamandosi proprio al vincolo che l’iniziativa economica privata non sia in contrasto con la “dignità umana”. Questi principi sono poi stati trasfusi anche nello Statuto dei Lavoratori.
Dopo cinquant’anni, tra leggi, sentenze e contributi di illustri giuristi, siamo arrivati al 2020 ed è Papa Francesco che ancora una volta esprime una riflessione apparentemente semplice, ma capace di riportare l’attenzione sulla centralità del lavoro. Nella recentissima enciclica “Fratelli Tutti”, sulla fraternità e l’amicizia sociale, al paragrafo 162, Papa Francesco richiama l’attenzione su un punto sostanziale del significato del lavoro “Non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro e della dignità del lavoro”. E sulla dignità del lavoro si era soffermato nell’omelia alla messa del Primo maggio del 2020 : “che tutti possano godere della dignità del lavoro. Il lavoro per usare un’immagine, ci unge di dignità, ci riempie di dignità”. Papa Bergoglio ci ricorda quindi che il lavoro serve a guadagnarsi sì da vivere, ma è anche modalità di crescita morale, di espressione della propria personalità e partecipazione al bene comune: ovvero richiama il monito “non si vive di solo pane” (Vangelo di Matteo capitolo 4, versetto 4). Ricordo altresì che Papa Francesco aveva anche sostenuto (nell’altra enciclica “Laudato sì’” del 2015) che è indispensabile una politica economica attiva orientata a “promuovere un’economia che favorisce la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale perché sia possibile aumentare i posti di lavoro invece di ridurli” e quindi se ne deduce il ruolo essenziale dell’impresa.
La parola chiave rimane da lustri “dignità”. Il lavoro è espressione della persona, essenziale per ognuno, ma anche per la società in cui si vive. Il lavoro, però, per essere dignitoso deve esserlo anche nel suo svolgimento, e nelle relazioni che si instaurano, ed anche nelle modalità della sua cessazione.
Purtroppo, però, nell’ordinamento giuridico il termine “dignità”, è stato talora utilizzato dal legislatore con una valenza che si è posta come radicale discontinuità rispetto alle politiche del lavoro passate. Ad esempio, la parola “dignità” è stata recentemente impiegata dal legislatore nel D.L. 87/2018 “Disposizioni urgenti per la dignità del lavoro e delle imprese”, il c.d. “Decreto Dignità”, in modo assolutamente “sacrilego” pensando alle parole di Papa Francesco.
Nonostante l’impiego fortemente semantico e suggestivo di un termine come “dignità” che potrebbe far prefigurare rapporti che avrebbero dovuto contribuire a mantenere il lavoro nella realtà di tutti i giorni, di contro, quel Decreto non l’ha così favorito in quanto ha creato l’irrigidimento del mercato. E’ accaduto che nel breve periodo si sia registrato un lieve innalzamento delle assunzioni a tempo indeterminato (prevalentemente frutto di trasformazioni di rapporto di lavoro già in atto) ma, poi, successivamente, si sia verificato un aumento dei contratti precari, provocando così un effetto contrario a quello apparentemente perseguito dal legislatore (seppur ampiamente scontato per gli economisti del lavoro) e decisamente in contrasto con le premesse del decreto legge che recitano: “Ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di attivare con immediatezza misure a tutela della dignità dei lavoratori e delle imprese, introducendo disposizioni per contrastare fenomeni di crescente precarizzazione in ambito lavorativo”. Grazie a quel Decreto, frutto di incompetente approssimazione, migliaia di lavoratori non hanno visto il rinnovo dei contratti.
E’ accaduto che con la reintroduzione delle causali giustificative del contratto a termine, eliminate dal Decreto legislativo 81/2015, i limiti ai rinnovi e alle proroghe abbiano ingessato il mercato del lavoro. Gli imprenditori preoccupati della eventualità del sorgere di contenziosi riguardo ai contratti a termine, alla scadenza di questi non li hanno prorogati o rinnovati. Invece la flessibilità di regolamentazione del contratto a termine aveva fatto registrare un calo rilevante del contenzioso nei contratti a termine. Secondo i dati elaborati dal Ministero della Giustizia sull’andamento dei procedimenti giudiziari registrati a livello nazionale si era passati dagli 8019 del 2012 ai 1246 del 2016, non solo ma all’esito dei possibili tre anni di durata, se il prestatore avesse dimostrato vere e proprie capacità, il datore di lavoro lo avrebbe assunto (anzi lo ha quasi sempre assunto) a tempo indeterminato. Ancora una volta un esempio di miopia del legislatore diretta solo ad annullare gli interventi del precedente inviso legislatore.
L’emergenza COVID-19 e la crisi-economica sociale ad essa connessa, stante l’estrema necessità di favorire il rilancio dell’economia e il mantenimento dell’occupazione, hanno determinato la previsione di un regime temporaneo derogatorio. A questo proposito, la Legge 126/2020 (c.d. Decreto Agosto) recita: “In conseguenza dell'emergenza epidemiologica da COVID-19, in deroga all'articolo 21 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 e fino al 31 dicembre 2020, ferma restando la durata massima complessiva di ventiquattro mesi, è possibile rinnovare o prorogare per un periodo massimo di dodici mesi e per una sola volta i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, anche in assenza delle condizioni di cui all'articolo 19, comma 1, del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81”.
C’è da sperare che questa legislazione emergenziale diventi strutturalmente definitiva, considerando la drammaticità del mercato del lavoro nel prossimo biennio.
Vi è da dire che la rigidità dei vari legislatori (come quella accennata) parte da lontano, spesso frutto di ideologie astratte che contrastano con le necessità dell’impresa. Orbene, prendiamo la legge sui licenziamenti collettivi che incide assolutamente con priorità sulla flessibilità della produzione; risale al lontano 1991 (Legge n. 223). Peraltro, si tratta di disposizioni che non hanno subito essenziali modifiche legislative (ed è questa una rarità nel panorama del diritto del lavoro italiano dove, come visto, ad esempio per i contratti a termine, le modificazioni si succedono freneticamente).
La procedura delineata dalla legge sulla mobilità provoca disagio, incertezza ed ansia nella gestione dell’impresa.
Senza alcun dubbio gli organigrammi aziendali, complessi e articolati, non aiutano ad individuare quali siano le figure professionali in eccedenza. Di solito, diventa estremamente faticosa la contrattazione sindacale per delineare un accordo sulla gestione degli esuberi. E‘ una trattativa intrisa di sospetti reciproci e di enormi difficoltà nella precisazione delle esigenze di “dimagrimento” o di riorganizzazione aziendale.
L’imprenditore si propone con la già convinta volontà di estromettere dipendenti ben individuati (di solito non più idonei alla nuova organizzazione). E’ pressoché difficile, quasi impossibile, cercare di spiegare all’imprenditore che la norma non consente scelte mirate. L’imprenditore deve seguire un percorso selettivo estremamente articolato che diventa, nei fatti, una vera e propria corsa ad ostacoli. Il sindacato, dal suo canto, non condivide per lo più le scelte imprenditoriali, teso come è alla conservazione di tutti i posti di lavoro.
Quando il licenziamento è divenuto effettivo e viene (come quasi sempre) impugnato, la difficoltà di capire la scelta imprenditoriale si trasferisce nelle aule giudiziarie.
Il giudice, assolutamente digiuno di organizzazione aziendale, sulla base di criteri meramente formali, finisce col legittimare la “ricostruzione” di un’organizzazione aziendale assolutamente astratta e quindi non adeguata alle nuove necessità aziendali e tendente spesso a mantenere la stessa. Ne deriva che la sorte di un’impresa viene affidata a criteri assolutamente vetusti. Ci si limita a riscontri di comparazione di anzianità o di carichi familiari, dimenticando o relegando per ultime le esigenze della produzione: insomma fra un lavoratore più anziano di servizio rispetto a uno più giovane, ma più capace, devo salvare l’anziano. Ci si dedica, innanzitutto, a riscontri sul rispetto delle procedure formali (basta aver dimenticato l’invio di una convocazione ad una sigla sindacale all’inizio della procedura perché il Giudice dichiari l’illegittimità di tutti i licenziamenti: e questo dopo mesi e mesi).
Dall’inizio della fase stragiudiziale fino alla fine della eventuale fase giudiziaria, non è assolutamente possibile prevedere l’esito dell’iniziativa dell’imprenditore che si trova nella massima incertezza sul suo futuro.
Se l’impresa non è “liquida” nella sua capacità di adattarsi ai sussulti quotidiani del mercato, diventa, invece, “liquida”, ovvero si scioglie perché perde il suo contenitore che è il mercato stesso. Rimettere al giudice la decisione finale rispetto alle sorti di un’organizzazione aziendale (perché questo è quello che davvero accade nelle aule di giustizia) significa perdere di vista le reali esigenze dell’impresa.
Questo è lo scenario che un avvocato giuslavorista incontra ogni giorno. E, allora, se la società nelle sue diverse articolazioni, oramai tutte comunicanti tra loro (si pensi all’inarrestabile sviluppo dell’evoluzione tecnologica) si propone “liquida” (come sostiene il ben noto sociologo Baumann), come può, invece, l’organizzazione del lavoro restare rigida e immodificabile?
Se come studi e ricerche ci illustrano il 65% dei giovani che frequentano la scuola, nell’arco dei prossimi dieci anni farà un lavoro che ancora non esiste né si riesce ad immaginare (e i lavori che resisteranno saranno organizzati in maniera diversa), allenare la nostra mente alla flessibilità e pensare fuori dagli schemi è una strada obbligata.
In controtendenza la normativa più recente (rispetto alla legislazione sulla mobilità) ci aveva offerto nuove opportunità.
Mi riferisco alla disciplina della mobilità orizzontale prevista dal nuovo testo dell’art. 2103 c.c. (la sua formulazione era ferma al 1970-art. 13 Statuto dei Lavoratori) come novellato dall’art. 3, comma 1 del D.Lgs. 81/2015, nell’ambito della riforma del lavoro attuata con il c.d. Jobs Act. Nel ridisegnare i limiti all’esercizio del potere di jus variandi, è stato abolito il parametro dell’equivalenza, sostituito, invece, dal criterio per cui le mansioni devono essere “riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento” delle precedenti mansioni concordate o effettivamente svolte.
Se la precedente formulazione della disposizione era tutta imperniata sulla rigida tutela della professionalità del lavoratore, la novella legislativa effettua un bilanciamento soft tra le esigenze organizzative aziendali e la conservazione della professionalità del lavoratore.
Il fatto, però, è che, invece di guardare alle novità come elemento propositivo di sviluppo di nuova opportunità, si dà fiato al timore di una paventata perdita di posizione acquisita e consolidata. Una percezione più marcata, soprattutto nei lavoratori anziani, poco avvezzi ai cambiamenti e più orientati al bisogno di certezze “immodificabili” .
Eppure, la norma parla chiaro: il lavoratore può essere assegnato (unilateralmente) a mansioni di livello immediatamente inferiore a quello di inquadramento solo “in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali”. Un perimetro ben delineato che non deve sfociare in alcun arbitrio e assegna al datore di lavoro l’onere della prova del giustificato motivo dell’assegnazione a mansioni inferiori. Ci deve essere, insomma, un nesso oggettivo di causalità tra la riorganizzazione e l’adibizione a mansioni inferiori, rimanendo impregiudicata la retribuzione.
Invece di cogliere la ratio positiva della norma che tutela l’impresa (nella riorganizzazione) ma più ancora il prestatore di lavoro che salva il posto di lavoro, molti operatori del diritto creano ancora vischiosità interpretative volendo preservare l’immodificabilità della mansione come se fosse un diritto fondamentale (ancora una volta il legislatore e poi il Giudice tendono alla conservazione dell’organizzazione sulla pretesa tutela dell’identico posto di lavoro).
Eppure, la dignità sta anche nel comprendere le ragioni giuste (ma devono essere giuste) dell’impresa.
Quando si affronta il tema della dignità nel lavoro, non possiamo non esaminare il profilo della normativa in tema di protezione avverso il licenziamento illegittimo. Qui entra il gioco l’annosa questione dell’art. 18 dello Statuto Lavoratori, una norma di garanzia che insieme alla Legge 604/1966 e alla 573/1973 ha costituito la Grundnorm di tutela avverso il licenziamento illegittimo. Tuttavia, la norma, complice la sua spesso lassista interpretazione giudiziale (in tal senso mi sia consentito il richiamo al mio contributo “In nome del popolo italiano” in “Art.18: la reintegrazione al lavoro. Storie di vita aziendale…e la riforma?”, 2012) ha determinato che per molto tempo, date la cattiva politica e l’inefficienza ammnistrativa, siano stati trascurati i due temi centrali del lavoro (oggi ancora di più, viste le tremende ricadute socio-occupazionali generate dalla pandemia) che sono la formazione dei lavoratori e le politiche attive del lavoro.
Nel sistema antecedente la riforma dell’art. 18 Stat. Lav. operata dalla Legge Fornero, sia nel caso di un vizio di natura procedurale o di natura sostanziale attinente il licenziamento intimato, per i datori di lavoro sopra i 15 dipendenti, si abbatteva la scure della reintegrazione nel posto di lavoro con conseguenze esiziali sul piano retributivo e previdenziale.Da considerare, come riconosciuto anche dalla Corte Costituzionale, che nel nostro ordinamento la tutela reintegratoria in caso di licenziamento illegittimo non gode di copertura costituzionale (sentenza 148/1999) purché la tutela sia effettiva (recentemente sentenza 194/2018) e quindi (com’è prevalentemente in tutta l’Unione europea), risarcitoria.
Per le conseguenze paradossali del vecchio art. 18 non si può che richiamare quale esempio illuminante quello menzionato da Pietro Ichino nel “Il Lavoro ritrovato” (2015, Mondadori pagg.4-5): per un licenziamento del 1992, dichiarato illegittimo dalla Cassazione nel 2004, il datore di lavoro era tenuto a pagare tutte le retribuzioni e i contributi intercorrenti fra le due date (intorno ai 700.000,00 Euro). La società aveva tre strade: o portare i libri in Tribunale o liquidare l’azienda (con 50 dipendenti da lasciare senza lavoro) o alienare la casa del datore di lavoro per ottenere liquidità. Si è venduta la casa del titolare.
Orbene, è inaccettabile una giustizia così ingiusta da costituire la minaccia per il posto di lavoro di altri 50 dipendenti. Pertanto se al favor lavoratoris cui è informato il nostro ordinamento (si pensi all’inversione dell’onere della prova nel licenziamento: unico caso in tutto il nostro sistema legale) si aggiunge il favor lavoratoris del potere giudiziario non tanto sotto il profilo del merito quanto per i tempi di giustizia (che nemmeno il Terzo Mondo conosce), anche la dignità del lavoratore è in pericolo perché non può essere accettato da un lavoratore corretto che l’inefficienza del sistema giudiziario colpisca non tanto e soltanto il suo datore di lavoro, bensì anche tutti i suoi colleghi.
La infelice e infausta applicazione giudiziaria dell’art. 18 (che era nato senza alcun dubbio con intenti encomiabili e come esempio di civiltà giuridica), tanto da essere approvato da tutti i partiti dell’epoca (ad eccezione dei missini e dei comunisti che singolarmente si astennero) lo ha costretto alla resa nel nuovo secolo. Ancora una volta il diritto ci ha impiegato 42 anni per la revisione dell’istituto, per rendersi conto dell’inadeguatezza concreta nella realtà delle cose.
Due parole, infine, sull’ultima novità del legislatore, lo smart working, passato quasi inosservato alla sua istituzione (giugno 2017), diventato celebre (se ne parla tutti i giorni sui mass media) per essere diventato l’apparente salvatore dell’economia nazionale durante la pandemia, con un totale stravolgimento dei suoi caratteri normativi. Ne parlo perché si ricollega allo Statuto per la dignità “generativa” che realizza.
Qui finalmente si può dire che sia forse il primo esempio di liquidità del rapporto di lavoro.
Non si tratta di una nuova tipologia contrattuale, ma di una peculiare modalità di svolgimento del rapporto. La sede aziendale acquista un ruolo marginale, l’orario di lavoro incontra soltanto limiti massimi e mantiene libertà nello svolgimento. Responsabilità del prestatore e fiducia del datore in assenza di controllo visivo diretto sono i due criteri ispiratori.
Centralità nella regolamentazione della modalità di esecuzione di smart working è l’accordo tra le parti. L’art. 18 della Legge 81/2017 lo definisce “quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell'attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all'interno di locali aziendali e in parte all'esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell'orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.
Il legislatore libera, con questa modalità, il lavoratore dalle gabbie delle cosiddette sedi protette (Ispettorato del Lavoro, sindacato, Giudice) in cui il prestatore di lavoro deve solitamente passare perché la sua volontà si consideri genuina (quando di contro è mediata). Finalmente il lavoratore può manifestare senza vincoli la sua piena volontà di decidere la modalità nuova di lavoro, addirittura disciplinando (assieme al datore di lavoro) l’esercizio del potere direttivo del datore stesso, il suo potere di controllo, le possibili sanzioni disciplinari.
Questa innovazione (rivoluzionaria) ha aperto un diretto dialogo fra datore di lavoro e prestatore, fino a ieri ignoto, perché contraddistinto da decenni di conflittualità sindacale.
Un dialogo nuovo che amplia quella dignità personale del prestatore di lavoro che ora può gestire anche da solo. Sicuramente nel 1970, dopo poco più di 20 anni dalla fine di una guerra e di un regime disastroso per i diritti fondamentali, il lavoratore, ancora debole nelle relazioni lavorative, necessitava di tutto un apparato normativo di tutele assolutamente essenziali in quel momento storico, in cui le relazioni economiche del mercato del lavoro erano dominate da un’industria in espansione che mirava innanzitutto al profitto ed a consolidare la sua forza nelle relazioni industriali.
A mezzo secolo di distanza da quel nucleo fondamentale di norme, rimangono e rimarranno sempre vivi i principi dello Statuto (anche se alcune norme andrebbero aggiornate o ancor più puntualizzate alla luce della giurisprudenza di 10 lustri): oggi però emerge un lavoratore che non solo ha bisogno di un lavoro (ex art. 4 Cost) ma di un lavoro dignitoso, perché la sua personale dignità si sostanzia nella dignità del lavoro che quotidianamente assolve, come sostiene Papa Francesco.
E quindi da uno Statuto di tutela dei diritti fondamentali (ossia quello di 50 anni fa) si deve passare ad uno Statuto del lavoro, autonomo e subordinato, che garantisca il diritto effettivo ad un’occupazione generale, con un salario minimo ed una gestione compartecipata dell’organizzazione aziendale: orbene lo smart working è il primo passo verso questa compartecipazione diretta del lavoratore. Il suo successo potrebbe portare ulteriori innovazioni in un diritto che ha bisogno di confronti, scelte, ed innovazioni immediate.
Per ora la norma statale è sempre stata in ritardo, se non addirittura controproducente: che forse una legge passata inosservata nel giugno del 2017, aprirà strade impreviste?
Questo nuovo dialogo affermato nello smart working riconosce (nel senso di grado ulteriore) una piena dignità allo stesso lavoratore che va a completare quella dello Statuto. Lo Statuto vedeva il lavoratore nella posizione “difensiva” dei suoi diritti, e quindi il lato passivo della tutela; oggi con la nuova legge sul lavoro agile si apre un percorso nuovo in cui il prestatore di lavoro è soggetto attivo dell’impresa nei momenti in cui realizza obiettivi in cui lui stesso ci mette della sua creatività per la realizzazione di nuove opportunità. Una dignità più piena, più “attiva”, più “generativa” e più coerente agli artt. 4 e 36 della Costituzione. Sarà questo l’inizio di un definitivo nuovo dialogo di partecipazione nel futuro delle imprese? Il tempo lo dirà.

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