TESTO INTEGRALE CON TABELLE, NOTE E BIBLIOGRAFIA

Premessa
Quasi dieci anni fa, nel quarto volume di un’articolata ricerca sulle trasformazioni del ceto medio in Italia diretta da Arnaldo Bagnasco , si indicava già allora, nell’Introduzione, il problema ancora oggi in cerca di soluzione: «Si impone così una revisione delle classificazioni tradizionali, sia per scopi analitici, per metter ordine nel lavoro indipendente e ag-giornare la strumentazione utilizzata, sia per finalità euristiche, ovvero per dotarsi di lenti capaci di notare e interpretare le trasformazioni in corso» . Osservazioni dello stesso tenore sono state proposte da Sergio Bologna in molteplici occasioni (Bologna, Fumagalli, 1997; Bologna, Banfi, 2011; Bologna, 2007; Bologna, 2015; Bologna, 2018; Bologna, 2018; Bologna 2019). Come è noto, lo stesso utilizzo alternativo delle espressioni «lavoro autonomo» e «lavoro indipendente» costituisce un sintomo di molteplici ambiguità definitorie non risolte, e neppure la proposta di adoperare espressioni come «lavoratore in proprio» oppu-re «lavoratore autonomo dipendente», e così via, ha fatto fare passi avanti significativi.
Le difficoltà derivano in parte dalla complessità ineliminabile in tutte le classificazioni multidimensionali che fanno ricorso a molte va-riabili e a molte classi al loro interno , in parte alla molteplicità degli scopi e delle sedi in cui esse vengono utilizzate, ad esempio a fini giuri-sdizionali, amministrativi, o statistici. A questi problemi è dedicato il primo paragrafo di questo lavoro, mentre il secondo paragrafo appro-fondisce le dinamiche quantitative (inattese) di medio-lungo periodo, dove si seguirà per convenzione la tradizionale classificazione Istat del lavoro indipendente in quattro classi (imprenditori, liberi professionisti, lavoratori autonomi, altri), nonostante i limiti e le difficoltà sempre più evidenti che ha nel cogliere le trasformazioni di questo segmento del mercato del lavoro . Dopo una panoramica di quanto accaduto nella prima ondata del Covid, nell'ultimo paragrafo si prova a delineare le nuove sfide, indicando alcune priorità di riforma, con particolare riferi-mento alla progettazione di adeguate tutele di welfare .

1. Le difficoltà nella definizione del lavoro indipendente professionale
L'Oxford English Dictionary definisce il lavoro autonomo come "la condizione in cui si lavora per sé stessi come liberi professionisti o come proprietari d’azienda invece che per un datore di lavoro". Que-sta definizione tiene a sottolineare come un lavoratore autonomo lavori per se stesso "invece che per un datore di lavoro". Tuttavia, alcune per-sone lavorano per un datore di lavoro ma sono fiscalmente indipenden-ti. Questi includono, tra gli altri, i cosiddetti lavoratori interni indipen-denti, individui che sono registrati come lavoratori autonomi ma lavo-rano in un'azienda dove sono soggetti a regole organizzative come i di-pendenti. Queste persone dovrebbero essere considerate lavoratori di-pendenti o indipendenti? Anche Eurostat (Unione Europea, 2018) vede come peculiare questo status professionale chiamato lavoro autonomo dipendente, esso stesso un paradosso linguistico. Il punto è che defini-zioni dicotomiche sono inadeguate per definire i tipi di occupazione bor-derline, tuttavia finora non sono state trovate soluzioni soddisfacenti proprio a causa delle troppe e diverse finalità delle definizioni, oltre che per il loro carattere multidimensionale.
Tradizionalmente, nel nostro paese il lavoro professionale era identificato con la categoria storica delle professioni organizzate in or-dini e collegi, la cui disciplina fondamentale è rinvenibile nel codice civi-le (artt. 2229 e ss.). La normativa codicistica riguarda infatti “le profes-sioni intellettuali” per il cui esercizio la legge richiede l’iscrizione in ap-positi albi o elenchi. Ai fini definitori, dalla disciplina del codice civile si rilevano cinque elementi fondamentali: a) l'autonomia (lavoro prevalen-temente proprio e senza vincolo di subordinazione – esecuzione perso-nale dell’incarico); b) la natura intellettuale della prestazione d’opera; c) l’esercizio dell’attività in forma individuale o associata; d) l'iscrizione in albi ed elenchi tenuti da associazioni professionali (ordini e collegi); e) l'abilitazione all’esercizio subordinata al superamento di un esame di stato.
La demarcazione, molto netta, tra professioni ordinistiche e altre attività di lavoro autonomo è stata nel tempo sottoposta a profondi ri-pensamenti, in parte in ragione dell’emersione sempre più vasta ed arti-colata di “nuove professioni” , in risposta alla elevazione di competenze intellettuali nelle società avanzate, in parte -infine- a causa dell’impatto della normativa europea. Infatti, nella prospettiva del diritto comunita-rio il “libero professionista” che offre servizi sul mercato è equiparato all’imprenditore. La Corte di Giustizia ha più volte ribadito che deve considerarsi “impresa” qualsiasi entità che eserciti un’attività economica finalizzata all’offerta di beni o servizi su un determinato mercato. Fra i servizi rientrano “le attività delle libere professioni”. La natura intellet-tuale di un servizio ovvero la combinazione di elementi personali, mate-riali ed immateriali, o la necessità di un’autorizzazione, non sono tali da escludere un’attività professionale dalla sfera di applicazione delle nor-me in materia di concorrenza e, appunto, riferite alle attività imprendi-toriali. Per questa ragione, nonché per favorire processi di armonizza-zione e mutuo riconoscimento delle qualifiche professionale allo scopo di rendere agile la mobilità interstatale dei lavoratori professionali, l’Ue non considera l’iscrizione all’ordine professionale quale requisito auto-nomo di una specifica categoria di lavoratori, ma declina, piuttosto, la qualifica di «professione regolamentata» per qualsiasi attività professio-nale il cui esercizio è condizionato, in base a norme nazionali, a titoli, qualifiche, percorsi di aggiornamento professionale, ecc. Questa diversa accezione di «professione regolamentata» ha quindi trovato accoglimen-to nel diritto interno a partire dal processo di riforma delle professioni che ha conclusivamente preso corpo con il D.P.R. n. 137/2012 (Rego-lamento di delegificazione in materia di professioni regolamentate). In base a questo rinnovato quadro normativo possiamo concludere che esistono tre categorie di “professioni”: a) le professioni intellettuali re-golamentate in forma ordinistica; b) le professioni a qualsiasi titolo re-golamentate che non assumono la forma ordinistica; c) le professioni non regolamentate, che siano intellettuali o meno.
Ai fini fiscali, indipendentemente dal livello e dalla forma di rego-lamentazione, i lavoratori indipendenti sono definiti come “contribuenti con reddito di lavoro autonomo”, impostazione che viene adottata pure dall’Inps, la quale, ai fini previdenziali, considera le seguenti fattispecie di lavoratori autonomi: agricoli, artigiani e commercianti (piccoli im-prenditori); associati in partecipazione; incaricati alle vendite a domici-lio; prestatori di lavoro accessorio; liberi professionisti . La legge 14 gennaio 2013, n. 4 è poi intervenuta per favorire un processo di emer-sione e qualificazione delle professioni non ordinistiche, consentendo non solo la costituzione di associazioni rappresentative dei lavoratori di queste professioni, ma anche processi di definizione e certificazione di standard professionali tramite norme tecniche e attestati di qualità. Un percorso che ha consentito, negli anni, l’identificazione di moltissime at-tività professionali nell’area delle professioni non regolamentate. Secon-do questa legge, per «professione si intende l’attività economica, anche organizzata, volta alla prestazione di servizi o di opere a favore di terzi, esercitata abitualmente e prevalentemente mediante lavoro intellettuale, o comunque con il concorso di questo, con esclusione delle attività ri-servate per legge a soggetti iscritti in albi o elenchi ai sensi dell’art. 2229 del codice civile, delle professioni sanitarie e delle attività e dei mestieri artigianali, commerciali e di pubblico esercizio disciplinati da specifiche normative». Questa definizione ha tratti simili a quella ricavabile dalle norme del codice civile, ma non del tutto coincidenti: a) esercizio abi-tuale (ma non esclusivo); b) natura intellettuale della prestazione, ma in forma attenuata (in quanto prevalente e solo concorrente); c) molteplici moda-lità di esercizio (forma individuale, in forma associata, societaria, cooperativa o nella forma del lavoro dipendente); d) possibilità (non obbligo) di co-stituire associazioni professionali; e) esercizio non subordinato al supe-ramento di esami di stato.
Se adesso passiamo agli scopi funzionali delle rilevazioni statisti-che, il riferimento primo va all’indagine sulle forze di lavoro (Rfl), una rilevazione che l’Istat svolge nel continuo sulla popolazione residente nelle famiglie italiane e pubblicati dall’Istat con varia periodicità (report mensili, dati trimestrali, data warehouse I.stat). I dati rilevati presso la po-polazione costituiscono la base dalla quale derivano le stime ufficiali de-gli occupati e dei disoccupati, nonché le informazioni sui principali ag-gregati dell’offerta di lavoro. La rilevazione sulle forze di lavoro è ar-monizzata a livello europeo, come stabilito dal Regolamento 577/98 dell’Unione Europea, sotto il coordinamento di Eurostat. Il termine “indipendenti” ha valore statistico ed è utile per meglio comprendere il rapporto di scambio esistente tra la definizione di lavoratore dipendente e lavoratore autonomo. In altre parole, “indipendente” identifica una modalità estrema di una variabile di classificazione che ha altro estremo la modalità “dipendente”. Di conseguenza l'Istat suddivide gli occupati in due grandi categorie: i lavoratori dipendenti e i lavoratori indipenden-ti, sulla base delle autodichiarazioni degli intervistati in risposta ad un questionario standard. Lavoratore indipendente (o autonomo) è definito colui che svolge esclusivamente, in prevalenza o anche solo in parte, at-tività di lavoro che organizza, gestisce e per il cui risultato risponde in autonomia, non essendo legato ad un datore di lavoro da un contratto di dipendenza. Nel tempo – inevitabilmente – la classificazione ha subi-to molti rimaneggiamenti, in particolare nell’attribuzione delle singole professioni alle quattro grandi classi in cui è suddiviso il lavoro indipen-dente: a) imprenditori, b) liberi professionisti, c) lavoratori autonomi, d) altri. Per rimanere ai giorni nostri, la Commissione europea, con la rac-comandazione del 29 ottobre 2009, ha recepito la nuova classificazione internazionale delle professioni, invitando i paesi membri dell’Unione europea a elaborare, produrre e diffondere dati statistici in materia di lavoro secondo la nuova classificazione ISCO08 dell’ILO , oppure se-condo una classificazione nazionale da essa derivata. Analogamente a questa nuova tassonomia internazionale (ISCO08), la CP2011 non ha modificato la logica di fondo adottata in precedenza: il criterio della competenza, inteso nella sua duplice dimensione del livello (skill level) e del campo di applicazione (skill specialization), continua a essere il prin-cipio utilizzato, sia a livello internazionale sia a livello nazionale, per creare i raggruppamenti omogenei di professioni . Giova infine ricor-dare che l’obiettivo della CP2011 è fornire uno strumento per ricondur-re le professioni esistenti all’interno di un numero limitato di raggrup-pamenti, da utilizzare per comunicare, diffondere e scambiare dati stati-stici e amministrativi sulle professioni. Di conseguenza, avverte l’Istat, la classificazione non può in alcun modo essere considerata uno stru-mento normativo per il riconoscimento istituzionale di talune profes-sioni o per la determinazione di standard retributivi e delle condizioni di impiego.
La conclusione di questo lungo excursus è che, in mancanza di una definizione univoca e in presenza di diversi criteri classificatori , e trattandosi di tutele di natura lavoristica, la perimetrazione dell’area debba essere fatta per “esclusione”. Pertanto, da un lato un primo confine verso l’alto viene tracciato tenendo fuori gli imprenditori , dall’altro lato, un secondo confine viene individuato, in basso, nei con-fronti dei “lavoratori subordinati in senso stretto” (art. 2094 c.c.) .

2. Una rivoluzione silenziosa in corso
Fino a metà degli anni ottanta la crescita del lavoro autonomo era trascinata da quello che oggi potremmo chiamare il «lavoro autonomo tradizionale», composto da figure come gli artigiani, i commercianti, i coltivatori diretti, e così via . 

Nel ventennio successivo vi fu la stagione del “lavoro autonomo di seconda generazione” (Bologna, Fumagalli, 1997), con una leggera crescita del numero dei lavoratori indipendenti in quadro di forte ri-cambio delle principali figure interne. Da un certo momento in poi, grossomodo a cavallo degli anni duemila, per l’esattezza a partire dal 2004-05, non è più stato così. Da quella data gli avvenimenti prendono una piega imprevista ma incontrovertibile; inoltre, queste dinamiche non riguardano solo l’Italia ma si ritrovano, pur con diversa intensità, in tutti i paesi europei (Osservatorio delle libere professioni, 2020). Dalla figura 1 si osserva l’andamento dal 1977 delle due tipologie di lavorato-ri : i dipendenti registrano una crescita pressoché continua in tutto il periodo considerato, di converso gli indipendenti, dopo un periodo di stabilità fino al 2004, mostrano un calo consistente e costante in tutti gli ultimi quindici anni.

 

Inoltre, se si prende a riferimento il periodo 2009-19 (Tab. 1), si assiste ad una costante e progressiva erosione dei lavoratori autonomi strettamente intesi (-13,8%) e degli altri lavoratori autonomi (-31,0%), solo in parte compensata da una crescita delle libere professioni, ordini-stiche e non (+25,0%), visto che alla fine il saldo complessivo dell’intero lavoro indipendente è di -436.072 unità (-7,6%), passando dalle circa 5.700.000 unità del 2009 alle circa 5.300.000 unità del 2019.

 

Va anche detto, come si può vedere in Tabella 2, che a crollare è re il “tradizionale lavoro in proprio”, visto che calano gli agricoltori (-3,6), ma, soprattutto, gli artigiani (-12,0%) e i commercianti (-13,3%) .
Le informazioni che provengono dall’Inps confermano per lo stesso periodo la dinamica negativa degli artigiani (-16,4%), mentre è meno accentuata quella dei commercianti (-1,6%), con ogni probabilità dovuta all’iscrizione alla Gestione commercianti dell’Inps di liberi pro-fessionisti di nuova generazione.

 

Nel complesso delle due Gestioni la perdita nel decennio è di circa 350.000 unità, solo in minima parte compensata dalla crescita di oltre 70.000 unità nelle iscrizioni alla Gestione separata. Analoga conferma viene anche dalle serie storiche di Movimprese .
Da cosa dipendono questi andamenti inversamente proporzionali tra loro autonomo tradizionale e (nuovo) lavoro indipendente profes-sionale? Una prima risposta viene dall'analisi per classi di età e per ti-toli di studio che evidenziando il drastico ridimensionamento delle coor-ti di età giovanili con bassa istruzione (-20% circa, quasi un milione di persone in meno), solo in parte compensata dalla crescita impetuosa di coorti di età più anziane con alta istruzione (Tabella 3). Come si è det-to, nell’arco di 10 anni si osserva una riduzione dell’aggregato dei lavo-ratori indipendenti di quasi 440.000 unità. Il calo dipende in toto dal mancato ingresso dei giovani nel lavoro indipendente: nella classe di età 15-44 anni si passa infatti dai 3.084.238 occupati del 2009 ai 2.132.123 del 2019, con una flessione di più di 950.000 unità. Se si tiene conto dei titoli di studio, la caduta tra i non laureati, sempre tra i 15 e i 44 anni, è stata di oltre un milione di persone. Si sta dunque verificando un pro-gressivo invecchiamento dei lavoratori autonomi, non compensato da adeguati ingressi giovanili (Tabella 3). La sola eccezione è data dal seg-mento dei giovani laureati, la cui crescita (+10%) va a beneficio quasi esclusivo della libera professione (Tabella 4). Tuttavia, anche in questo caso, l’apporto giovanile è molto più ridotto di quanto ci sarebbe potuto immaginare, nonostante una definizione molto generosa della classe di età giovanile (dai 15 ai 44 anni), soprattutto se si tiene presente che i laureati complessivi nella stessa classe di età sono aumentati del 21%. Si osserva poi come i laureati crescano in tutte le fasce di età (comples-sivamente +35%), tanto che la loro incidenza sul totale dell’occupazione indipendente aumenta di quasi dieci punti percentuali, passando dal 18% del 2009 al 27% del 2019.
Il rigonfiamento delle classi di età più anziane dipende solo in par-te da un effetto demografico -l’invecchiamento delle coorti di età giova-nili entrate nel mercato del lavoro nel decennio trascorso- mentre appa-re più rilevante l’apporto di una componente aggiuntiva di ingressi late-rali in età avanzata nel mondo del lavoro indipendente (sopra il 45 anni, ma anche sopra i 65 anni), come effetto di espulsioni dall’area del lavo-ro dipendente e di carriere lavorative sempre più intermittenti, altale-nanti tra i lavori alle dipendenze e lavori autonomi, a cui si aggiunge una quota crescente di pensionati che integrano il loro reddito con atti-vità autonome e/o liberoprofessionali.

 

Se ora spostiamo il fuoco della nostra analisi sui soli liberi profes-sionisti, la crescita decennale del 25% è dovuta quasi solo all'incremento elevatissimo dei laureati (+41%), i quali nel 2019 costituiscono oramai oltre i due terzi dell'universo. Tuttavia, va notato -con sorpresa- che nella fascia di età 15-44 anni non vi è stata una crescita della componen-te giovanile quanto piuttosto un “effetto sostituzione” interno: tra il 2009 e il 2019 il saldo è nullo, semplicemente qui vi è stato un calo dei professionisti privi di istruzione terziaria e una parallela crescita dei lau-reati. Nelle classi di età 45-64 anni e più di 65 anni l'aumento è invece significativo (oltre mezzo milione di unità in più) e, com’era da atten-dersi, trainato dai titoli di studio più elevati.
Non è questa la sede per un'analisi di ancora maggiore dettaglio (ma si veda Osservatorio delle libere professioni, 2021), basti dire che se si procede ad una ulteriore disaggregazione degli Ateco si nota che i cali più intensi riguardano le “Professioni esecutive del lavoro d'ufficio” (-44,7%) , in particolare gli “Impiegati addetti alla raccolta, al controllo, conservazione e recapito della documentazione ” (-63,1%), e che questi cali possono essere imputati all’automazione delle professioni in que-ste aree. A questo stesso motivo può essere ricondotto anche il forte calo che ha riguardato nel periodo la maggior parte delle professioni dell’area “Artigiani, operai specializzati e agricoltori” (-19,9%), i “Con-duttori di impianti, operai di macchinati fissi e mobili e conducenti di veicoli” ( -22,8%), le “Professioni non qualificate” (-8,6%%). L’idea che se ne ricava è che negli anni duemila -in modo inatteso e quantitativa-mente rilevante- vengano a maturazione una molteplicità di processi di spiazzamento lavorativo che dipendono dal progresso tecnico (automa-zione, tecnologie digitali, internet) che colpiscono in modo più che proporzionale l’area del lavoro indipendente.

In tabella 5 si può apprezzare, seppure tramite una fonte piuttosto grezza, l'effetto di polarizzazione dei redditi in atto tra i lavoratori indi-pendenti , fatto che costituisce con ogni probabilità una delle cause della sempre minore desiderabilità sociale di questo percorso lavorativo. In soli cinque anni, tra il 2014 e il 2019, i professionisti con Cassa si ca-ratterizzano per un reddito medio nazionale in crescita (+4,4%), men-tre i professionisti iscritti alla gestione separata Inps vedono calare in misura significativa i propri introiti (-10%). L'effetto di polarizzazione dei redditi appare evidente, con un divario crescente negli anni, che por-ta nel 2019 a una forbice più che doppia tra i redditi medi dei due uni-versi (35.5571 euro medi degli iscritti alle casse contro i 15.364 euro de-gli iscritti alla gestione separata Inps).
Da ultimo, i dati Oecd (2017) mostrano come in Italia sia solo una frazione minima della forza lavoro ad aspirare o a cercare un po-sto di lavoro autonomo. Appena l'1,6% delle persone italiane in cerca di lavoro è orientato al lavoro autonomo, ancora più bassa la propen-sione tra i disoccupati (l'1,2%), mentre appena l'1,8% di coloro che sono già attualmente occupati in posizioni dipendenti sono disposti a cambiare il loro status per diventare indipendenti. Inoltre, il cosiddetto "lavoro autonomo dipendente" è un fenomeno di una certa importanza solamente nei paesi in cui poche professioni sono regolamentate, co-me il Regno Unito (6,7%), Cipro (7,3%) e Slovacchia (9,9%). Nel com-plesso dell’UE-28, questa categoria rappresentava il 3,5% del lavoro au-tonomo e lo 0,5% dell'occupazione complessiva nel 2017. In Italia, il la-voro autonomo dipendente ammontava al 4,3% del lavoro autonomo e allo 0,9% dell'occupazione complessiva (European Union, 2018).
Una analisi condotta sui microdati della Rilevazione Istat sulle forze di lavoro evidenzia che pochi italiani condividono l'obiettivo di avviare un'attività in proprio e la propensione a uscire dal lavoro auto-nomo è molto più alta di quella per entrarvi. Nel 2019, il 61,5% dei la-voratori autonomi che hanno perso il lavoro ha dichiarato di cercare un posto di lavoro dipendente, mentre il 7,7% insisteva per rimanere nell’alveo del lavoro autonomo e un altro 30,8% era indifferente a en-trambi gli status. La propensione a rimanere nella condizione professio-nale dipendente era invece più alta per gli ex dipendenti (83,9%), di cui solo l'1,8% avrebbe accettato il lavoro autonomo, mentre il 14,3% era indifferente ad entrambi gli status.

3. L’emergenza Covid e il rinnovato interesse per le tutele
Il Covid ha costituito un banco di prova per tutti i livelli di go-verno e per la stessa rappresentanza degli interessi ((Feltrin, 2020a). Anche il lavoro indipendente ne è stato, com’era facile attendersi, pe-santemente coinvolto. Nella Tabella 6 si osserva la quota di lavoratori dipendenti e indipendenti la cui attività è stata “bloccata” fino al 3 maggio 2020: come si può notare il blocco delle attività ha riguardato il 31,8% degli occupati.

 

Gli indipendenti registrano una percentuale più elevata (40,2%) di lavoratori con Ateco bloccati e al loro interno i liberi professionisti sono la tipologia di lavoratori che è risultata meno colpita dalle dispo-sizioni attuative del decreto (16,8%). Vi sono almeno due indicatori che possono dare una prima approssimazione della gravità degli effetti sul lavoro indipendente professionale del lockdown nella prima parte del 2020. Il primo è relativo alle richieste di indennità pervenute alle Casse di previdenza private, il secondo riguarda le richieste alla Gestione Se-parata dell’Inps.


La Tabella 7 riporta il numero di domande pervenute e accolte e la platea di riferimento di ciascuna cassa previdenziale (calcolata in base al numero di professionisti iscritti a ciascuna cassa). In media si stima che siano all’incirca un terzo (32,8%) i liberi professionisti iscritti alle Casse di previdenza private che hanno fatto richiesta della prima inden-nità prevista durante il lockdown. Le categorie che hanno richiesto mag-giormente tale indennità sono i biologi, gli psicologi e i geometri, con una percentuale di domande presentate superiore al 60% rispetto alle rispettive platee di riferimento. Seguono gli avvocati, gli ingegneri, gli architetti, e i veterinari con percentuali intorno al 50%. Tutte le altre ca-tegorie si attestano sotto il 40%, mentre in coda, sotto il 12%, troviamo quasi tutte le professioni sanitarie, i notai e gli addetti in agricoltura.
Nello specifico per i liberi professionisti senza cassa si contano poco più di 300 mila domande accolte. Rapportando questo dato alla platea dei beneficiari, stimata in quasi 369 mila unità (dato 2018) si os-serva come all’incirca l’82% dei liberi professionisti iscritti alla gestione separata Inps abbia beneficiato dell’indennità. Una percentuale decisa-mente superiore a quella che si riscontra tra gli iscritti alle casse ordini-stiche, dove la quota di beneficiari sulla platea di riferimento è stimata attorno al 30%.

Nella Tabella 8 l’analisi si concentra sulle domande arrivate e accolte all'interno della Gestione Separata dell’Inps. Nel complesso, al-la data del 22 maggio, si contavano oltre 4 milioni 815 mila domande di indennità pervenute ad Inps: la percentuale di accoglimento si atte-sta all’82%, ma si osserva una forte diversificazione per categorie: la quota di riscontri positivi è infatti molto elevata tra i lavoratori auto-nomi (92%) e agricoli (86% circa), mentre scende notevolmente tra gli stagionali del turismo (41%) ma anche tra i lavoratori dello spettacolo (59%) e tra i professionisti e collaboratori (60%).
I dati raccolti mostrano bene come la prima ondata del Covid abbia avuto un impatto ampio e diffuso su quasi tutta l’intera platea dei lavori indipendenti, professionali e non, come pure il fatto che il recu-pero nei mesi primaverili non è stato sufficiente a coprire integralmente le chiusure di marzo. Con ogni probabilità analoghe tendenze si potreb-bero riscontrare una volta che si avessero a disposizione i dati completi della seconda ondata (inverno 2020-21). In ogni caso, appare evidente come l’accesso alle previdenze previste dalle Casse e all’Inps è stato molto esteso a riprova della carenza delle tutele di base che caratterizza questo mondo, come pure della necessità sempre più avvertita di co-struire un plafond minimo di misure di welfare disegnate sulle specifici-tà di queste tipologie di lavoratori.

4. Quale welfare e quali tutele per il lavoro indipendente
La sfida del welfare state nelle democrazie mature è quella di garantire che tutti i lavoratori, a prescindere dalle modalità con cui svolgono l’attività lavorativa, siano essi autonomi o subordinati, dispongano di protezioni nei momenti di difficoltà . Tuttavia, la strada che conduce dall’enunciazione di un principio generale ad una incisiva politica di ri-forma è irta di difficoltà. Uno dei pericoli maggiori è quello di farsi tra-scinare dalle emergenze, cadendo nella trappola dell'istituzionalizzazio-ne di soluzioni adottate in condizioni di stato di necessità. Lo shock causato dalla pandemia ha concentrato l'attenzione su alcune misure straordinarie di sostegno al reddito, per poi estendersi al se e al come di una possibile regolazione strutturale degli ammortizzatori sociali in questo ambito. L’interesse si è ulteriormente rafforzato dalla circostan-za che per la prima volta i lavoratori autonomi sono stati espressamen-te inclusi tra i destinatari delle risorse che l’Unione Europea ha attivato per il sostegno al reddito in questa fase emergenziale .
Come è noto, nella seconda ondata del Covid, nell'inverno 2020-21, è stato introdotto in via sperimentale l'Iscro (Indennità straordinaria di Continuità reddituale e Operativa), da riconoscersi in caso di reddito da lavoro autonomo inferiore al 50% rispetto alla media degli ultimi tre anni e non superiore a 8.145 euro. Inoltre, nel cosiddetto "decreto so-stegni" (Decreto legge 22 marzo 2021, n. 41), è riconosciuto un contri-buto a fondo perduto a favore di tutti i soggetti che svolgono attività d’impresa, arte o professione titolari di partita Iva, con ricavi o com-pensi non superiori a 10 milioni di euro, che abbiano subito perdite di fatturato pari ad almeno il 30%, calcolato sul valore medio mensile, tra il 2019 e il 2020 .
Il nostro punto di vista è che nell'emergenza debba prevalere, come è inevitabile, la regola del "tutto va bene", qualunque siano le soluzioni di eccezione di volta in volta adottate. Non resta che prenderne atto, non senza però rinunciare alla ricerca di una impostazione più sistema-tica, di lungo respiro, distinguendo gli interventi strettamente legati all’emergenza da quelli che si impongono in una prospettiva struttura-le, ovvero tenendo conto dei profondi cambiamenti nel mercato del lavoro indipendente contemporaneo, la cui conseguenza più rilevante è l'accentuarsi dei dualismo al suo interno.
Dall’analisi quantitativa svolta nei paragrafi precedenti emergo-no quattro grandi trasformazioni in corso nel lavoro indipendente sotto la pressione della digitalizzazione e dell'automazione: 1) la riduzione drastica di moltissime professioni manuali, impiegatizie esecutive e di intermediazione (commerciale, finanziaria, bancaria); 2) la crisi verticale e irreversibile dell'artigianato e del commercio tradizionali; 3) l'espan-sione accelerata di alcune professioni con istruzione terziaria (in parti-colare nell'information tecnology, nelle professioni tecniche, nell'area sani-taria e del benessere, nella cultura e tempo libero); 4) la crescita di una area di lavori manuali non operai a bassissima qualificazione (nella logi-stica, nelle pulizie, nei servizi di cura, e così via). Il tutto accompagnato da un sensibile aumento della polarizzazione dei redditi che riguarda tutte le fattispecie del lavoro indipendente.
All'interno del segmento del lavoro indipendente, che -lo ripe-tiamo- è in costante riduzione a partire dai primi anni duemila, si osser-va il consolidarsi di una componente “forte”, ma minoritaria, che potrebbe trarre molti vantaggi dall’innovazione tecnologica, dalla ri-composizione delle filiere produttive, dalle trasformazioni dei mercati, dalle nuove tendenze della domanda di beni e servizi, dalla spinta ad una maggiore strutturazione dei tradizionali studi professionali. Dall’altra parte, invece, c'è una componente “debole”, molto più ampia della prima e in ulteriore continua espansione negli anni duemila, con-centrata in alcuni settori merceologici e aree territoriali a basso valore aggiunto, dove il costo del lavoro costituisce il principale fattore compe-titivo. L’ obiettivo di una politica pubblica strutturale dovrebbe essere quello di attenuare l’effetto polarizzante muovendosi in due direzioni: in primo luogo, attraverso incentivi alla transizione verso l’alto, verso l’area del lavoro autonomo "forte", anche sotto la spinta di adeguate politiche economiche e fiscali che ne favoriscano un maggior profilo (auto)imprenditoriale ; in secondo luogo, adottando politiche del la-voro che aiutino l’area debole. In questo caso, il problema non è quello di mummificare un segmento di redditi di sopravvivenza che finisce per ingabbiare le persone in lavori poco convenienti, ma provare a farli evolvere fuori dalla trappola del lavoro indipendente a bassa remunera-zione.
Ne discende che le politiche di welfare dovrebbero integrarsi con le politiche più complessive di sviluppo del lavoro autonomo profes-sionale ed essere coerenti con questa doppia strategia. A partire dal raf-forzarmento degli istituti fondamentali della tutela lavoristica, ovvero le tutele dai rischi di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccu-pazione involontaria: si tratta di un terreno su cui c’è un’ampia condi-visione sull’obiettivo di una loro estensione in chiave universalistica, ma anche una grande varietà di proposte sugli strumenti da adottare. Qui, il passo da fare è quello di provare a far convergere le diverse pro-poste con una qualche procedura a "testo unico".
In ogni caso si tratta di distinguere tre diverse fattispecie. La prima riguarda le professioni ordinistiche e/o regolamentate. Con ri-guardo alle tutele previdenziali, come è noto, la situazione è estrema-mente variegata. Le professioni ordinistiche e le professioni regolamen-tate hanno realizzato il loro pilastro pubblico attraverso le Casse previ-denziali secondo principi mutualistici , mentre per i professionisti di nuova generazione sussiste l’obbligo di iscrizione alla Gestione Separata dell'Inps. La materia è stata oggetto di un ampio dibattito in occasione dei lavori preparatori alla Legge n. 4/2013. In tale occasione si sono confrontate due ipotesi: costituire presso l’INPS “una gestione auto-noma esclusivamente destinata alle professioni”, ovvero, in alternativa, “la possibilità di confluire nelle casse di previdenza delle professioni di cui all’art. 2229 del Codice civile” e di “istituire una o più casse auto-nome”. La questione previdenziale è infine uscita di scena a causa dei vincoli di bilancio che costringevano il parlamento a legiferare senza “nuovi o maggiori oneri” per il bilancio dello stato. Tuttavia, proprio le condizioni straordinarie odierne possono -forse- costituire il momento propizio per reinserire in agenda una proposta di riforma organica del welfare del lavoro indipendente, fondato sulla mutualità, con misure di sostegno che salvaguardino l’autonomia delle casse previdenziali.
Una politica di rafforzamento degli strumenti di protezione so-ciale dei lavoratori autonomi dovrebbe poi fare leva sul potenziamento dei fondi di assistenza sanitaria integrativa, garantendo ai liberi profes-sionisti l’accesso a detti fondi con i medesimi benefici attualmente pre-visti a favore dei lavoratori dipendenti . I flussi della spesa pubblica e privata in sanità, in costante crescita negli ultimi decenni, e le esperien-ze di successo dei fondi integrativi sanitari a carattere mutualistico con-fermano che occorre valorizzare la presenza di questo pilastro all’interno di una rinnovata strategia integrata delle politiche sanitarie, a partire dalla loro estensione ai lavoratori autonomi e alle loro famiglie. Ma questo intervento non è certamente sufficiente a compensare le fragilità dei lavoratori del settore. Al contempo, le casse professionali sono chiamate a raccogliere la sfida di un nuovo modello di welfare per i propri iscritti, gestito in forme mutualistiche e attraverso strumenti manageriali adeguati. Prime esperienze sono già in atto con risultati in larga parte soddisfacenti, sebbene al momento siano concentrate in po-chi ambiti, come la maternità, la malattia, l’assistenza sanitaria inte-grativa e i sostegni alle spese per la famiglia.
Manca invece una strategia per i veri e propri strumenti di soste-gno al reddito. Essi potrebbero essere facilmente considerati in pro-spettiva solidaristica nelle professioni dove i redditi medi si sono man-tenuti sui livelli elevati, mentre più complesso è il quadro delle profes-sioni che subiscono decurtazioni generalizzate dei redditi e dove si ri-schiano seri problemi di sostenibilità finanziaria. Sono difficoltà ed im-pegni che le casse sono chiamate ad affrontare in una prospettiva con-divisa, superando prassi consolidate, ma senza tuttavia subire l’interferenza della legislazione statale.
Il secondo caso è quello dei professionisti e dei lavoratori indi-pendenti iscritti alla Gestione separata dell'Inps. Il legislatore, a partire dal Jobs act del lavoro autonomo, ha mostrato un timido interesse per questi lavoratori, limitandosi alle tutele minime per maternità, gravi-danza, congedi parentali, malattia e infortunio. La più comprensiva de-lega introdotta nell’art. 6, che avrebbe potuto condurre ad una discipli-na generale delle tutele sociali per questi lavoratori, è rimasta inattuata, come pure diverse altre delle deleghe contenute nella legge. Il cammino è stato di recente ripreso con l’ulteriore ampliamento delle tutele in fa-vore degli iscritti alla Gestione separata operata con il decreto-legge 3 settembre 2019, n. 101, il quale, pur senza intervenire direttamente sul testo della legge n. 81, come sarebbe sembrato più corretto dal punto di vista della chiarezza normativa, ha ulteriormente ridimensionato le condizioni per l’accesso ad alcuni strumenti di tutela per i lavoratori au-tonomi.
Infine, un discorso a parte va fatto per la terza fattispecie, i la-voratori autonomi della gestione separata che non rientrano nel campo di applicazione della Legge n. 4/2013 (partite Iva, collaboratori coordi-nati e continuativi, beneficiari di borse, assegnisti di ricerca, lavoratori occasionali), che da trent’anni sono al centro di una disputa infinita tra i giuslavoristi e oggetto di una serie di interventi normativi non risolu-tivi . Non è questa la sede per una analisi puntuale delle varie propo-ste e delle soluzioni parziali fin qui adottate, mentre appare utile cerca-re di comprendere le ragioni della loro scarsa efficacia. A noi sembra, sperando di non essere tacciati di semplicismo, che l’errore di fondo sia stato, sin dall’inizio, quello di non credere nella natura genuinamente autonoma di questi rapporti, dividendosi tra chi vuole vietarli e chi in-vece codificarli come un terzo genere. Per gli uni, si trattava sempre e comunque di rapporti sostanzialmente subordinati da contrastare per via ispettiva e giudiziaria; per gli altri, i c.d. riformisti, il riconoscimento normativo e l’estensione delle tutele fondamentali avrebbe favorito la loro emersione e al tempo stesso contenuto l’eccessiva espansione. Questa seconda impostazione, ad esempio, si può rivenire nella legge Biagi, in particolare nella regolazione delle collaborazioni a progetto, delle c.d. mini co.co.co, del lavoro accessorio. Sul piano dell’estensione delle tutele, però, la legge fa pochi passi avanti, non coglie gli obiettivi dichiarati e, un po' paradossalmente, manca l'obiettivo proprio nel caso della soluzione più innovativa e convincente, le co.co.pro., a causa delle controversie nate dall'estensione dell'utilizzo di questa nuova fattispecie agli operatori dei call center.
Il problema è sempre lo stesso, non a caso è tornato a galla ogni qualvolta successivamente si è posto mano alla materia con un approccio opposto, forzando la nozione di subordinazione, prima nella riforma del lavoro Fornero, poi nel Jobs Act. La nozione di subordi-nazione viene oltremodo dilatata ricorrendo a nuovi parametri, quali “l’etero-organizzazione” e la “dipendenza economica”, ma neppure uti-lizzando questi nuovi termini di raffronto si riesce a specificare un con-fine netto tra autonomia e subordinazione. Come è noto in dottrina, mere condizioni di fatto non si traducono in un criterio di carattere generale astratto e pertanto non sono idonee a qualificare una qualsi-voglia fattispecie giuridica. L'intervento normativo così congegnato appare sempre lacunoso, pertanto inefficace, come testimoniano tanto le pronunce della magistratura spesso ondivaghe quanto le incertezze ampiamente diffuse tra gli operatori.
A nostro avviso, pertanto, è da evitare una impostazione che porti a considerare le collaborazioni unicamente come “falso lavoro au-tonomo”, al tempo stesso sarebbe sbagliato inseguire, per altra via, una sorta di “parasuborsinazione” il cui connotato distintivo sarebbe la “di-pendenza economica” e segnatamente la “mono-commitenza” . La di-rezione di sviluppo che sembra più ragionevole è quella del riconosci-mento di tali forme all’interno del lavoro autonomo (agevolato) e perciò considerarle analogamente al resto del lavoro indipendente. Invece di perseverare nell’inseguimento del “terzo genere” o farsi ammaliare dalla suggestione del “genere unico”, la strada da percorrere è quella di assicurare ai collaboratori una adeguata protezione sia sul piano personale in termini di prestazioni e servizi di welfare, sia riconoscendo loro maggiori garanzie sul piano contrattuale nei confronti della com-mittenza .
Pertanto, entrando nel merito delle tutele, non sussistono dubbi sulla priorità di assicurare protezioni piene per quanto riguarda infor-tuni, malattia, maternità/paternità e vecchiaia . Più complicato appare il problema del sostegno al reddito. Molti osservatori avanzano la pro-posta di un ammortizzatore sociale con causale il “mancato guada-gno”, ma una soluzione del genere si può comprendere solo in situa-zioni di emergenza come l'attuale, vale a dire in presenza di eventi straordinari e temporalmente delimitati come quelli che stiamo speri-mentando. Meglio focalizzate sembrano essere altre ipotesi di lavoro. Ad esempio, in questo ambito è stato il Cnel a muoversi per primo at-traverso la proposta presentata dalla “Consulta del lavoro autonomo e professionale” di un progetto di legge “Tutele delle lavoratrici e dei la-voratori autonomi e dei liberi professionisti iscritti alla Gestione separa-ta Inps”, poi approvato dall’Assemblea del Cnel e attualmente all’esame del Senato . Oltre a portare a compimento due importanti obiettivi di tutela in materia di maternità e malattia già delineati dalla legge n. 81 del 2017 , il progetto di legge del Cnel individua uno strumento di ga-ranzia del reddito per i lavoratori autonomi iscritti alla Gestione separa-ta, denominata “Indennità Straordinaria di Continuità Reddituale ed Operativa” (ISCRO), il cui obiettivo è garantire una continuità redditua-le a quei professionisti e lavoratori autonomi che, a causa di un evento legato alla propria vita personale, familiare, o a condizioni economiche, rischino di interrompere l’attività e/o di abbandonarla definitivamente.
Ancora più difficoltoso è riconoscere il diritto al trattamento di disoccupazione, nella sua accezione genuina di strumento di tutela per chi perde involontariamente il lavoro, non essendo possibile nel lavoro autonomo individuare e delimitare il periodo di disoccupazione . Più che su un ammortizzatore sociale ad hoc o su una estensione della Dis-Coll si dovrebbe riflettere su una soluzione che consenta anche ai lavoratori autonomi, i quali siano costretti a sospendere o cessare l’attività per cause indipendenti dalla loro volontà, di accedere alla Naspi, facendo valere come requisito contributivo i versamenti alla ge-stione separata Inps. La Naspi, infatti, è uno strumento già concepito in chiave "universalistica selettiva" e, con alcune correzioni, potreb-be garantire una tutela adeguata per tutti i disoccupati, a prescindere dal lavoro in precedenza svolto.
Le esigenze di protezione dei lavoratori nelle situazioni di di-scontinuità lavorativa e contrattuale, sempre più frequenti in epoca con-temporanea quando si alternano impieghi con diverse tipologie con-trattuali (lavoro dipendente e indipendente), si sposa con la necessità al-trettanto pressante di sostenere quei lavoratori che vivono struttural-mente una condizione di sotto-occupazione involontaria . Si tratta di uno dei temi più rilevanti da affrontare nell’immediato futuro, non tanto e non solo sotto il profilo delle tutele previdenziali e del sostegno al reddito, ma anche in termini di politiche attive del lavoro , dal momento che si tratterebbe di favorire un percorso di loro inserimento stabile nell’area del lavoro subordinato attraverso politiche di sostegno al reddito integrate, utilizzando gli strumenti della formazione profes-sionale e gli incentivi alle assunzioni, anche perché si tratta dell’aspirazione di gran lunga maggioritaria in questo segmento di lavo-ratori (vedi par. 2).

5. Una conclusione sul ruolo delle relazioni sindacali
Un approfondimento, infine, si rende necessario con riguardo a quella componente di questa "area debolissima" che si identifica con i lavoratori gestiti mediante piattaforme digitali. L’interesse per questo fenomeno, che potrebbe sembrare eccessivo se rapportato alla sua ef-fettiva portata quantitativa , si spiega perché in esso si condensano quasi tutte le questioni non risolte di quella che un tempo fu chiamata l’area grigia del mercato del lavoro: la difficoltà di individuare la tipolo-gia contrattuale, di stabilire l’equo compenso, di assicurare le tutele es-senziali. L’attenzione è giustificata per l’effetto dirompente che il feno-meno ha rispetto agli schemi tradizionali utilizzati per definire il confi-ne tra autonomia e subordinazione. Quello che spaventa è la potenziali-tà delle nuove tecnologie di spostare all’esterno funzioni tradizional-mente proprie dell’area della subordinazione, affidandosi a lavoratori formalmente autonomi, privi di potere contrattuale, mal pagati e privi di tutele.
È diffuso l’allarme che i nuovi modelli organizzativi, abilitati dal-le tecnologie digitali, finora applicati nell’area delle cc.dd. sharing eco-nomy e gig economy, si espandano in altri settori, trasformando i lavorato-ri dipendenti in prestatori d’opera, con retribuzioni nette (forse) più al-te, ma senza tutele previdenziali e contrattuali. Insomma, una forma di lavoro parasubordinato, ma diverso dalle collaborazioni coordinate e continuative, perché non identificabile in base al criterio della dipen-denza economica da un unico committente, ma dalla frammentazione in una molteplicità di rapporti di modesto valore di volta in volta con singoli e diversi committenti. La nostra opinione è che, come è avvenu-to in passato di fronte a processi di riorganizzazione ben più profondi delle attività produttive, si tenda a sopravvalutare l’effetto disruptive e a sottovalutare la capacità di reazione collettiva. Quanto sta avvenendo in questi ultimi mesi induce appunto ad una maggiore cautela e, forse, ad un maggiore ottimismo. Ci riferiamo tanto alla vicenda dei driver quanto a quella dei rider, emblemi quasi per antonomasia dello sfrutta-mento del lavoro da parte dei colossi delle piattaforme digitali. In en-trambi i casi i lavoratori hanno cominciano a sindacalizzarsi e ad esprimere una certa forza collettiva ottenendo alcuni primi risultati . La crescita dei margini di molte attività e le prospettive di ulteriore cre-scita di questi segmenti di mercato rafforzano i lavoratori, ne accresco-no il potere contrattuale e creano le condizioni affinché anche nella “nuova economia” si sviluppino i "tradizionali" sistemi di relazioni in-dustriali. Come a dire che la contrattazione collettiva si sta dimostran-do lo strumento più efficace di regolazione anche di questi rapporti di lavoro, come dimostra l'estensione da parte di Just Eat del contratto nazionale del settore logistico ai riders, con un inquadramento come la-voratori subordinati. Il contratto garantisce tutte le tutele -salariali, assicurative e previdenziali- comprese quelle di fonte contrattuale, come l’ assistenza sanitaria integrativa e la bilateralità. All’interno della disci-plina generale viene introdotta una disciplina speciale in materia di in-quadramento, parametri retributivi, orario di lavoro flessibile, che tiene conto delle peculiarità operative e gestionali dell’impresa.
Come tante altre volte in passato, la prassi contrattuale può fun-gere da apripista e da sperimentazione di possibili soluzioni vantaggiose per tutte le parti in gioco, le quali, poi, con il passare del tempo e il consolidamento delle prassi migliori, il legislatore può tradurre e razio-nalizzare in norme generali. In conclusione, il "nuovo che avanza" può essere meglio regolato, almeno nella sua fase aurorale, dalla contratta-zione sindacale e/o dell'azione collettiva , invece che cercare di irrigidirlo subito in quadri normativi inevitabilmente affrettati.

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