TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Premessa.

Chi interviene, come il sottoscritto, in un’occasione così prestigiosa come la presente, le Giornate di Studio dell’Aidlass, dedicate ai temi fondamentali del diritto sindacale italiano, non può anzitutto esimersi dal congratularsi, da un lato, con il Consiglio direttivo, per la scelta dell’argomento e dei relatori; e, dall’altro, con quest’ultimi, per le amplissime suggestioni offerte dai loro rispettivi ponderosi e affascinanti lavori.
D’altronde, la discussione odierna concerne dei cosiddetti “temi eterni”. Vale a dire, i rapporti tra ordinamento statuale e intersindacale, la rappresentanza e la rappresentatività sindacale ; la pratica dell’evasione contrattuale e del sottosalario , il dumping sociale e salariale . Tutte questioni già variamente emerse fin dall’avvento della Costituzione repubblicana e affrontate, senza soluzione di continuità, sia da un’abbondante dottrina e giurisprudenza sia in numerosissime altre occasioni convegnistiche . Tale ingente sforzo scientifico e pratico ha sempre avuto come sfondo l’attesa, quasi messianica, dell’intervento, più o meno risolutivo, del legislatore.
Anzitutto, va manifestato pieno apprezzamento per le affascinanti considerazioni di Beppe Pellacani sul ruolo attuale e futuro del sindacato nella prospettiva pluriordinamentale.
Ma, in particolare, è proprio la relazione di Pier Antonio Varesi che stimola alcune considerazioni proprio in relazione all’affinità degli argomenti affrontati con quelli da tempo frequentati dall’autore di queste pagine. Anzitutto, è osservazione scontata che fino a quando non vi sarà una legge attuativa dell’art. 39 Cost., o che si muova su quella falsariga, il sistema di relazioni industriali italiano rimarrà in tensione e sarà pervaso da molteplici incertezze e problematiche .
Peraltro, è noto a tutti che il legislatore, a partire dal 1995, preso atto dell’insufficienza selettiva della formula della maggiore rappresentatività, ha introdotto il nuovo criterio selettivo della maggiore rappresentatività comparata. E ciò proprio allo scopo di contrastare l’avvento di contratti collettivi sottoscritti da soggetti di scarsa o inesistente rappresentatività che si ponevano apertamente in concorrenza con i contratti collettivi siglati dai soggetti sindacali confederali “storici”.
Da allora, comunque, ha cominciato a manifestarsi sempre di più il significativo problema della concorrenza tra sistemi contrattuali collettivi, ovviamente caratterizzati da costi del lavoro diversificati. Con la conseguenza che, pertanto, l’applicazione del contratto collettivo meno oneroso determina il fenomeno del dumping contrattuale. E cioè, qui ci si trova di fronte ad una sorta di eterogenesi dei fini della contrattazione collettiva, la quale è appunto nata per sottrarre i salari dalla concorrenza . Ma in questo caso è proprio la frammentazione della contrattazione collettiva a legittimare la concorrenza sul piano salariale.
D’altra parte, la nascita di questi universi contrattuali paralleli può sicuramente rispondere allo sviluppo di nuove aggregazioni di interessi e di identità che non si riconoscono in quelle storiche e che si fanno portatrici di esigenze differenti e suscettibili di produrre risultati innovativi. Tuttavia, non si può nascondere che, nella maggior parte dei casi, negli ultimi anni, questi universi contrattuali paralleli si concretano attraverso un doppio ordine di effetti. Da un lato, si assiste alla proliferazione di contratti collettivi stipulati da sindacati dei lavoratori e organizzazioni dei datori, dotati di una rappresentatività inequivocabilmente inferiore a quella dei cosiddetti soggetti collettivi “storici”, e che fissano trattamenti economici e normativi meno favorevoli rispetto a quelli contenuti nei contratti siglati da quest’ultimi. E quindi tali contratti “al ribasso” offrono ai datori di lavoro l’occasione per sostenere il formale rispetto della contrattazione collettiva, ma con un risparmio sui costi di gestione del lavoro, in confronto a quanto accadrebbe se costoro applicassero i contratti collettivi dei soggetti collettivi “storici”. E’, infatti, un dato ripetuto quasi fino alla nausea che nella banca dati del Cnel sono registrati più di 900 contratti collettivi nazionali di categoria, con una crescita esponenziale nell’ultimo decennio. Dall’altro lato, come è stato segnalato, la sottoscrizione di un contratto nazionale è sovente una sorta di testa di ponte per potere usufruire di risorse finanziarie, come quelle dei fondi per la formazione, degli enti bilaterali e per avere propri caaf e patronati .
E’ altresì noto che questi contratti collettivi “alternativi” a quelli dei soggetti sindacali “storici” sono stati definiti, dagli addetti alla materia, come contratti collettivi “pirata” , proprio per sottolineare la loro portata predatoria e quindi lo specifico obiettivo di conquistare alla rispettiva regolazione aree del mercato del lavoro, già oggetto della competenza disciplinare dei contratti collettivi dei soggetti collettivi “storici”.

2.La vitalità del criterio selettivo della maggiore rappresentatività comparata.

Come s’è poc’anzi accennato, già diversi anni fa (nel 1995), il legislatore è stato costretto a porre rimedio alla proliferazione della contrattazione collettiva “alternativa” (e, in questo caso, del tutto pirata) per contrastare lo specifico problema dell’individuazione del contratto collettivo di riferimento ai fini della determinazione dell’imponibile previdenziale di fronte ad un’eventuale pluralità di contratti collettivi. Il problema scaturiva dall’interpretazione dilatata del concetto di sindacato maggiormente rappresentativo, ad opera dell’autorità amministrativa e della giurisprudenza, che metteva in crisi l’applicazione dell’art. 1, c. 1, d.l. 9 ottobre 1989, n. 338 (convertito, con modificazioni, dalla l. 7 dicembre 1989, n. 389), secondo cui “la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo”. Di conseguenza, intervenne l’art. 2, c. 25, l. 28 dicembre 1995, n. 549, che dettava una disposizione di interpretazione autentica del suddetto art. 1, d.l. n. 338/1989, in base alla quale esso “si interpreta nel senso che, in caso di pluralità di contratti collettivi intervenuti per la medesima categoria, la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi previdenziali ed assistenziali è quella stabilita dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative nella categoria”.
Da allora la formula della “maggiore rappresentatività comparata” ha progressivamente sostituito quella della mera maggiore rappresentatività ed è stata utilizzata in svariate ipotesi . Come per l’individuazione del contratto collettivo abilitato a gestire i rinvii legislativi di potere normativo, specie per quanto riguarda le cosiddette tipologie flessibili di rapporto di lavoro; ovvero per selezionare i soggetti collettivi competenti a svolgere ulteriori funzioni nel mercato del lavoro anch’esse individuate dalla legge; oppure per determinare il contratto collettivo parametro per quantificare il trattamento economico proporzionato e sufficiente di cui all’art. 36 della Costituzione dei lavoratori operanti in alcuni settori (cooperazione, terzo settore, impresa sociale e, da ultimo, trasporto aereo).
Il che spiega quanto possa essere importante, per un soggetto collettivo, acquisire lo status della maggiore rappresentatività comparata. In assenza di una definizione legale a tale riguardo, è toccato all’autorità amministrativa e alla giurisprudenza, elaborare gli indici sintomatici ai fini della verifica comparativa del grado di rappresentatività, traendo spunto dall’esperienza precedente del necessario accertamento della maggiore rappresentatività. Tutto ciò ha fatto sì che si sia proceduto caso per caso, ogniqualvolta fosse necessario effettuare la suddetta valutazione per dare applicazione al precetto legale che faceva uso della formula della maggiore rappresentatività comparata. E non si può nascondere che tale situazione presenti tuttora molteplici criticità e anche il rischio di accertamenti alquanto contestabili della maggiore rappresentatività comparata .
Beninteso, però, vi sono alcuni punti fermi che vanno ribaditi. Come osserva la dottrina e la giurisprudenza , la formula “sindacato comparativamente più rappresentativo” evoca non la mera misurazione del grado di rappresentatività di ciascuna organizzazione, bensì la comparazione della rappresentatività tra sindacati firmatari di contratti collettivi applicabili nello stesso ambito e quindi in concorrenza tra di loro. Grazie a tale comparazione si dovrebbe, pertanto, pervenire all’identificazione di un unico agente contrattuale o di un’unica coalizione di agenti contrattuali; e quindi giungere ad individuare il contratto collettivo cosiddetto leader applicabile o che funge da necessario riferimento nell’area in cui si effettua la comparazione. Procedendo in questo modo, si dovrebbero evitare gli incidenti di percorso in cui, talvolta, come bene mette in luce lo stesso Varesi, sono incappati autorità amministrativa (per fortuna raramente) e giurisprudenza (l’ultimo esempio è l’ormai famosa decisione del Tribunale di Trani , pure citata da Varesi) che hanno considerato la formula “sindacato comparativamente più rappresentativo” equivalente a quella di “sindacato maggiormente rappresentativo”.
Certo in molti casi l’accertamento della maggiore rappresentatività comparata può comportare alcune difficoltà, visto il fatto che l’individuazione e il peso da attribuire ai relativi criteri selettivi dipende dal giudizio discrezionale dell’interprete . Tuttavia, se si esamina la prassi giurisprudenziale, specie quella in materia di determinazione dell’imponibile contributivo, si può verificare che le criticità emergono perché spesso l’ente previdenziale (l’Inps) pretende l’applicazione dei parametri retributivi del contratto siglato da soggetti sicuramente comparativamente più rappresentativi, senza però assolvere all’onere della prova e quindi come se fosse un dato indiscutibile . Quando invece, nel processo, si fornisce un minimo di comparazione la conseguenza è sempre il riconoscimento della maggiore rappresentatività comparata della coalizione dei soggetti sindacali confederali “storici” . E agli stessi risultati perviene la giurisprudenza prevalente, anche negli altri ambiti in cui opera la formula della maggiore rappresentatività comparata, qualora si effettui un confronto, per quanto schematico, sulla differente rappresentatività degli agenti negoziali dei contratti in competizione .
Non v’è dubbio, peraltro, che enormi vantaggi scaturirebbero da una stabilizzazione per legge dei criteri per attribuire la qualifica di sindacato maggiormente rappresentativo e, di conseguenza, per individuare la coalizione di sindacati comparativamente più rappresentativi e quindi il contratto collettivo cosiddetto leader in uno specifico ambito. E’ evidente, peraltro, che tale operazione debba riguardare sia i sindacati dei lavoratori sia le organizzazioni dei datori.
Ciò ovviamente non può prescindere dall’affrontare il problema della perimetrazione dell’area contrattuale di riferimento del contratto collettivo leader: vale a dire la questione della delimitazione dello spazio entro cui va misurata la maggiore rappresentatività comparata degli agenti negoziali, affinché si possa, sulla base di tale calcolo, pervenire all’identificazione del contratto collettivo leader .
Questo problema è, in genere, apparente, quando ci si trova di fronte ad un contratto collettivo siglato da soggetti collettivi di scarsa rappresentatività che ritagliano un più limitato campo di applicazione del medesimo contratto rispetto a quello più ampio del contratto collettivo sottoscritto da soggetti sindacali confederali “storici”. Qui l’uso accorto dei criteri scaturenti dalla prassi amministrativa e giurisprudenziale dovrebbe permettere di evitare usi opportunistici della libertà contrattuale.
Ma il suddetto problema è reale e si enfatizza quando si sovrappongono o si intersecano i campi di applicazione di contratti collettivi siglati da soggetti sindacali confederali “storici” o da alcuni di essi; sebbene la stessa Cassazione tenda a risolvere la questione attraverso un metodo misto che fa leva sia sulla maggiore pertinenza del contratto collettivo all’attività svolta dal datore sia sulla numerosità degli agenti negoziali da entrambi i lati . A questo riguardo, dovrebbero essere questi stessi soggetti a procedere rapidamente ad una manutenzione del proprio sistema contrattuale, in modo da evitare le suddette interferenze. D’altra parte, un’operazione siffatta è già prevista nell’accordo interconfederale del marzo del 2018: il cosiddetto “Patto della Fabbrica”. Infatti, in questo accordo le parti si impegnano ad una ricognizione dei perimetri contrattuali per apportarne, eventualmente, “i necessari correttivi, intervenendo sugli ambiti di applicazione della contrattazione collettiva nazionale di categoria, anche al fine di garantire una più stretta correlazione tra Ccnl applicato e reale attività di impresa”.
E’ comunque auspicabile un intervento legislativo “leggero”, sulle orme di quanto prefigurato anche da Varesi, che potrebbe codificare i criteri sviluppati dal meritorio lavoro del Cnel nella classificazione dei settori contrattuali e nell’individuazione dei contratti collettivi in questi prevalenti ; così pervenendo alla perimetrazione delle aree in cui effettuare il calcolo della rappresentatività degli agenti negoziali. Un primo passo, in questa direzione, è stato compiuto con la recente introduzione (con l’art. 16-quater del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 settembre 2020, n. 120) del cosiddetto codice alfanumerico unico dei contratti collettivi di lavoro. Si tratta di un codice che è attribuito dal Cnel e che è da utilizzare per tutte le comunicazioni obbligatorie. In questo modo, sarà possibile calcolare la rappresentatività dei soggetti che sottoscrivono i contratti collettivi sulla base del numero dei lavoratori a cui sono applicati. Così, sarebbe possibile raggiungere l’immediato risultato di misurare la rappresentatività degli agenti negoziali, ai fini dell’operatività di tutte le disposizioni legali che rinviano ai contratti collettivi siglati da soggetti comparativamente più rappresentativi .
Qualora si procedesse oltre, e si affidasse al Cnel il compito di determinare i perimetri delle aree contrattuali , un percorso del genere non dovrebbe incontrare l’ostacolo dell’art. 39 della Costituzione laddove si rifletta sul fatto che la libertà sindacale non può essere intesa come un valore assoluto, bensì bilanciabile con le esigenze di tutelare i lavoratori da varie forme di dumping salariale e di assicurare uniformità di trattamento e identico “prezzo” della forza lavoro negli stessi ambiti di attività economica . E, d’altra parte, non può essere trascurato che la classificazione dei settori contrattuali e tutta l’attività del Cnel è frutto di un’ampia opera di concertazione tra le parti sociali più rappresentative a livello nazionale e presenti all’interno di questo organo costituzionale.

3.Il salario minimo all’italiana.

In una direzione siffatta, e cioè sempre quella di un intervento legislativo “leggero”, si potrebbe generalizzare, per tutti i settori economici, il meccanismo (poc’anzi accennato) di determinazione legale del trattamento economico proporzionato e sufficiente di cui all’art. 36 della Costituzione, in vigore in alcuni ambiti, attraverso il rinvio alle tariffe dei contratti collettivi dei soggetti comparativamente più rappresentativi. In particolare, la specifica disciplina operante per il mondo della cooperazione ha trovato l’autorevole avallo della Corte costituzionale con la sentenza n. 51/2015. Sicché, se si generalizzasse tale schema, il trattamento economico fissato dai contratti collettivi siglati dai soggetti comparativamente più rappresentativi costituirebbe, ex lege, la retribuzione proporzionata e sufficiente di cui all’art. 36 della Costituzione . Così, l’intervento legislativo apparirebbe coerente la tradizione del sistema di relazioni industriali italiano, perché rafforzerebbe la stessa contrattazione collettiva “qualificata”, svolgendo una funzione di supplenza alla mancanza di efficacia generale della contrattazione collettiva di diritto comune. E’ noto, peraltro, che in Parlamento sono in discussione alcuni disegni di legge, presentati in questa legislatura, che adottano un modello così configurato .
A questo proposito, va sottolineato che il legislatore dovrebbe comunque prevedere un correttivo ad un rinvio illimitato alle determinazioni dell’autonomia collettiva, seppure “qualificata” da una grande rappresentatività dei suoi attori. L’esperienza attuale mette in luce l’esistenza di contratti collettivi che prevedono trattamenti retributivi estremamente bassi, seppure siano stati firmati da sigle sicuramente rappresentative . E uno di questi (quello della vigilanza privata) è stato per giunta censurato ex art. 36 della Costituzione da alcune pronunce giurisprudenziali . Il che rende necessario che il legislatore introduca un sistema di fissazione di una soglia minima salariale oraria che sia inderogabile al ribasso dalla contrattazione collettiva, la quale così potrebbe muoversi solo nella direzione di un innalzamento della medesima in relazione alla classificazione del valore degli apporti lavorativi nei vari ambiti di riferimento .
Uno dei punti su cui, in quest’ultimo periodo, la discussione è stata più accesa ha proprio riguardato la determinazione in concreto di tale soglia minima salariale oraria. Il dibattito italiano sul salario minimo legale è stato peraltro arricchito dalla presentazione, il 28 ottobre 2020, da parte della Commissione europea, di una proposta di direttiva “relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea” . Secondo gli standard internazionali, più accreditati, di cui tiene conto anche la proposta di direttiva, l’ammontare del salario minimo legale, per essere “adeguato”, non dovrebbe collocarsi al di sotto della soglia del 60% del salario lordo mediano e del 50% del salario lordo medio.
Il disegno di legge n. 658, comunicato alla Presidenza del Senato della Repubblica, dall’ormai ex Ministro del lavoro Catalfo, il 12 luglio 2018, e nuovamente riformulato, il 12 maggio 2021, con il n. 2187, pur rinviando alle tariffe dei contratti collettivi siglati dai soggetti comparativamente più rappresentativi a livello nazionale (individuati secondo i criteri selettivi ivi previsti), stabilisce una soglia minima inderogabile di 9 euro lordi all’ora. Questa soglia, ad avviso del proponente, sarebbe “in linea con i parametri di adeguatezza indicati dalla Commissione europea nella proposta di direttiva citata (il 60% del salario mediano)”. Peraltro, lo stesso disegno di legge affida ad una Commissione tripartita composta dalle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale “il compito di aggiornamento e controllo dell’osservanza del trattamento economico proporzionato e sufficiente”. E anche nel disegno di legge a prima firma Nannicini, comunicato alla Presidenza del Senato l’11 marzo 2019, emerge la consapevolezza che le retribuzioni adeguate sono solo quelle fissate dai contratti collettivi dei soggetti comparativamente più rappresentativi, anche se qui non è chiaramente affrontato il problema dell’identificazione di una soglia minima inderogabile che anche quest’ultimi sarebbero tenuti ad osservare .
Più in generale, va sottolineato come, rebus sic stantibus, non si possa che apprezzare la recente tendenza giurisprudenziale, di fronte ai meccanismi legali di determinazione del trattamento economico, mediante il rinvio alle tariffe dei contratti collettivi degli agenti negoziali comparativamente più rappresentativi, ad un controllo ex art. 36 della Costituzione anche dei prodotti contrattuali di quest’ultimi; e, comunque, a sancire le prevalenza di tali contratti in confronto a quelli firmati da sindacati con scarsa rappresentatività.
Inoltre, proprio laddove non operano i citati meccanismi di determinazione legale del salario (attraverso il rinvio alle tariffe dei contratti collettivi sottoscritti dai sindacati comparativamente più rappresentativi), la giurisprudenza potrebbe svolgere un ruolo significativo nel valutare, sempre alla stregua dell’art. 36 della Costituzione, le tariffe dei contratti stipulati dai sindacati poco rappresentativi, e applicati sul luogo di lavoro, confrontandole con quelle dei contratti (che abbracciano, in vario modo, lo stesso settore di attività economica svolta dal datore) sottoscritti dai soggetti comparativamente più rappresentativi e che quindi fanno capo al sistema confederale “storico”. In questa prospettiva, i giudici dovrebbe partire dal principio che vada sempre applicato il trattamento economico complessivo più favorevole al prestatore di lavoro. E lo stesso approccio potrebbe essere adottato, in via generale, quando nello stesso settore o ambito di attività economica insistono più contratti collettivi, seppure stipulati da soggetti altamente rappresentativi. Proprio in questo caso, l’effetto sarebbe quello di espungere definitivamente dal sistema contratti “poveri” (in primis, come quelli Multiservizi e della Vigilanza privata), dal campo di applicazione omnibus che, al momento, fanno “concorrenza al ribasso, in senso trasversale, ad altri Ccnl vigenti in settori nevralgici come l’edilizia, l’industria elementare, la logistica, l’igiene ambientale” .
D’altra parte, un’operazione siffatta costituirebbe, semplicemente, il frutto dell’adattamento, al nuovo contesto (caratterizzato dalla proliferazione e competizione tra contratti collettivi negli stessi ambiti di attività economica) del modus operandi della Suprema corte che individua il contratto collettivo parametro, ai fini dell’art. 36 della Costituzione, in quello corrispondente all’attività effettivamente svolta dal datore di lavoro . Il che contribuirebbe a fare sì che, negli stessi mercati, la concorrenza non si basi sulle differenze nei costi del lavoro e, per altro verso, a garantire che quest’ultima si svolga tenendo conto del valore primario della giustizia sociale. Alla realizzazione di questo obiettivo un utile contributo potrebbe essere fornito dallo stesso apparato formativo dei giudici del lavoro che facesse circolare e condividere le posizioni più avanzate della stessa giurisprudenza e della dottrina in un’ottica sinergica.
Ovviamente quella prospettata non è altro che un tentativo ermeneutico di razionalizzazione di un quadro alquanto nebuloso e burrascoso. Invero, proprio per evitare che l’equilibrio del sistema contrattuale resti affidato alla sola (per quanto importante) mediazione giudiziaria, con tutti gli inevitabili rischi di soggettivismo che essa comporta, specialmente in ordine alla determinazione della giusta retribuzione ex art. 36 della Costituzione , è sicuramente giunto il momento che il legislatore sia assuma le sue responsabilità.

 

 

 

 

 

 

 

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