Testo integrale con note e bibliografia

 1. È necessario un intervento legislativo promozionale dell’autonomia collettiva
L’accentuata dinamica delle trasformazioni organizzative del tessuto economico e il diffondersi di forme di dumping rendono sempre più necessaria una risposta regolatoria capace di incidere sui fenomeni disgregativi in atto e di controllarli.
È illusorio pensare che lo strumento legislativo possa dare una risposta efficace a tutti gli effetti di questa turbolenza.
La sua lentezza – nella produzione e nell’applicazione - e la sua rigidità, di fronte alla complessità ed alla mutevolezza dei fenomeni, lo rendono inadatto a questo compito, in particolar modo per quel che riguarda i profili attinenti alla regolazione dei rapporti di lavoro.
Il candidato naturale a svolgere questo compito dovrebbe essere la contrattazione collettiva, perché essa può essere uno strumento flessibile e tempestivo ed è gestita da soggetti che vivono immersi in quella realtà e sono quindi maggiormente in grado di verificare l’efficacia della regolazione da essi prodotta, assumendosi la responsabilità – per quanto rientri nella loro capacità – di tenere insieme le esigenze della competitività delle imprese con quelle della tutela del lavoro .
Purtroppo, le parti sociali non godono di ottima salute. Le profonde trasformazioni del tessuto economico hanno indebolito il sindacato e resa più difficile la sua azione di rappresentanza dei lavoratori.
Lo stesso può dirsi per la rappresentanza dei datori di lavoro, esposta ad accentuate dinamiche di frammentazione. L’impressionante numero dei contratti collettivi depositati presso il Cnel ne offre una corposa testimonianza.
Un sostanzioso contributo all’indebolimento del sistema è fornito dalla permanente anomia del suo assetto istituzionale nell’ambito dell’ordinamento dello Stato. La linea astensionistica in passato è stata una scelta felice del legislatore, perché ha consentito al sistema dei rapporti collettivi di crescere liberamente. Nella realtà attuale essa si rivela controproducente: non favorisce la crescita del sistema bensì la sua consunzione.
In verità, l’anomia ha cominciato a dare problemi già con l’esperienza della contrattazione concessiva e, soprattutto, con la frattura dell’unità sindacale prodottasi in occasione del protocollo di S. Valentino (1984). Tuttavia essi non avevano ancora assunto carattere di gravità. Il sistema era riuscito comunque a trovare i suoi equilibri e il legislatore, dal canto suo, incurante di quei problemi, aveva inaugurato una politica volta a favorire il sistema attraverso una valorizzazione del ruolo della contrattazione collettiva, chiamata a collaborare – in vario modo – alla conformazione del tessuto normativo (si pensi, per fare alcuni esempi classici, alla legge che negli anni ‘80 chiamò la contrattazione collettiva a flessibilizzare il lavoro a termine, o alla legge che negli anni ‘90 regolamentò lo sciopero nei servizi pubblici essenziali, rimettendo agli accordi collettivi – seppure sotto il controllo della commissione di garanzia – la determinazione delle prestazioni indispensabili).
Il sistema contrattuale continuò ad essere valorizzato dal legislatore nella sua fattualità, in genere servendosi del criterio selettivo della “maggiore rappresentatività”, successivamente perfezionato. Per rispondere alle pericolose crepe prodotte dal fenomeno dei “contratti pirata” si fece ricorso, infatti, al criterio selettivo della “maggiore rappresentatività comparata”.
Ma il contesto, nel frattempo, si faceva più complicato e più turbolento, mettendo a nudo una ridotta capacità di governo del sistema di contrattazione collettiva da parte dei soggetti tradizionalmente più rappresentativi, aggravata inoltre da conflitti endogeni , nonché da una decisa svalutazione delle prassi concertative da parte del potere politico.
La confusione ha finito per spiazzare il criterio selettivo della “maggiore rappresentatività comparata”, rendendolo come una lente incapace di mettere a fuoco. Mancano certezze . Quel criterio selettivo incontra crescenti difficoltà ad essere applicato, sia a causa della accentuata turbolenza dell’attuale contesto, che rende assai arduo il compito della individuazione dei perimetri della rappresentanza, sia a causa delle gravi difficoltà applicative del sistema che dovrebbe certificare il peso rappresentativo dei soggetti firmatari dei contratti collettivi, peraltro finora definito solo sul versante della rappresentanza dei lavoratori.
E’ significativo che le stesse parti sociali storicamente più rappresentative – preoccupate dal progressivo logoramento del sistema e dalla conseguente loro delegittimazione – abbiano avvertito l’esigenza di reagire, dandosi importanti regole mirate a mettere ordine al suo interno (mi riferisco al c.d. testo unico prodotto nello scorso decennio) e siano poi pervenute (con il Patto della fabbrica, 2018) a porsi il problema di dare efficacia generalizzata ai contratti per reagire alla allarmante crescita di forme di dumping.
Dunque, esse hanno avvertito l’esigenza di ordine nel sistema. Ma è chiaro che quella esigenza corrisponde anche ad uno spiccato interesse pubblico di un ordinamento pluralistico come il nostro, quello di avere un sistema di relazioni collettive capace di regolazioni più efficienti, maggiormente in grado di promuovere, con fini tessiture, quella coesione sociale che la legge, da sola, ha difficoltà ad assicurare.
Occorre quindi che il legislatore intervenga. L’esigenza di una valorizzazione dell’autonomia collettiva richiede un quadro organico e stabile. Esso andrebbe perseguito attraverso la esplicita ripresa di una linea di politica legislativa di sostegno.
Questa volta il sostegno dovrebbe essere dato, non al sindacato dei lavoratori (come fu al tempo dello Statuto dei lavoratori), bensì al sistema delle relazioni collettive nel suo complesso.
Con il patto della fabbrica – pur molto importante – le parti sociali (Confindustria, Cgil, Cisl e Uil) sembrano aver preso una strada troppo lunga. In esso si prevede come necessario pervenire ad una intesa tra tutte le associazioni datoriali “per arrivare ad un modello di certificazione della rappresentanza datoriale capace di garantire una contrattazione collettiva con efficacia ed esigibilità generalizzata” e l’impegno, dei sottoscrittori di quel patto, a “proporre” - sulla base del lavoro istruttorio del Cnel – “laddove se ne ravvisi la necessità, l’adozione da parte di tutti i soggetti coinvolti, di regole che assicurino il rispetto dei perimetri della contrattazione collettiva”; prevedendosi che tutto questo possa fornire il “presupposto per l’eventuale definizione di un quadro normativo in materia”. Come si vede, la strada è lunga e non è sicuro che ci sia una tappa di arrivo.
In breve: da un lato, è altamente improbabile che si riesca a trovare il consenso di tutti (in particolare, come si è detto prima, sul versante datoriale vi sono fenomeni di sovrapposizione non piccoli: ad esempio tra mondo della cooperazione e quello della piccola industria, tra Confindustria e Confcommercio nel mondo del terziario; fenomeni il cui riassorbimento è contrastato anche dai corposi interessi delle istituzioni della bilateralità che si sono andate radicando); dall’altro lato, non si tiene conto che gli obiettivi che si vogliono perseguire (efficacia generalizzata del contratto collettivo e delimitazione dei perimetri della rappresentanza) non sono a portata dell’autonomia privata, potendo essere raggiunti solo da una legge che, stante l’esistenza dell’articolo 39 della Costituzione, segua le linee da esso dettate.

2. La proposta formulata dalla CGIL con la Carta dei diritti dei lavoratori presenta alcune controindicazioni essendo formulata nella prospettiva della seconda parte dell’articolo 39 della Costituzione e non riflette una filosofia genuinamente promozionale
La richiesta di un intervento legislativo è stata avanzata senza indugi dalla Cgil (è contenuta nella Carta dei diritti universali del lavoro da essa approvata e fatta poi oggetto di una proposta di legge di iniziativa popolare). La proposta è animata dalla buona intenzione di dare gambe agli accordi interconfederali confluiti nel testo unico. Tuttavia, non si può dire che essa risponda alla filosofia promozionale alla quale facevo prima riferimento.
Questa, infatti, richiede che l’intenzione del legislatore sia quella di muoversi a sostegno e in sintonia con le dinamiche positive del corpo sociale. Nella proposta della CGIL, invece, pur se si rispettano le linee del testo unico, la sostanza che prevale è quella dell’imbrigliamento di quelle dinamiche. A ben vedere, più che dare gambe a quelle intese, le si è prese come occasione favorevole per un intervento di eteroconformazione del sistema. Non poteva essere altrimenti, dato che quella proposta si muove nella prospettiva della seconda parte dell’articolo 39 e quindi in coerenza con quell’impianto programmatico.
Sappiamo che l’inattuazione di quell’impianto è stata figlia proprio del rifiuto dell’imbrigliamento e dei pericoli che esso comporta per la libertà sindacale. Ricordiamo tutti le pagine classiche dedicate al tema da Mancini. E ricordiamo anche come lo stesso Giugni , muovendosi nella prospettiva della valorizzazione della politica promozionale, propose che si ponesse mano ad una modifica dell’articolo 39 (lo fece come parlamentare membro della Commissione Bozzi per le riforme istituzionali). Ciò che nell’impianto dell’articolo 39 si è ritenuto costituire una minaccia per la libertà sindacale è, in particolare, l’inevitabile rimessione ad una autorità esterna del compito di delimitazione dei perimetri di applicazione dei contratti collettivi ad efficacia generale e quindi dei soggetti legittimati a negoziarli; l’esercizio di questa autorità inevitabilmente presenta pericoli per la liberà sindacale la quale, in linea di principio, implica la completa autonomia dei soggetti nella delimitazione della sfera della propria organizzazione e della propria azione negoziale.
In verità, la proposta della CGIL crede di poter sventare ogni pericolo su questo versante riproducendo la soluzione che fu trovata nella legge sul pubblico impiego: rimettere alla stessa autonomia collettiva il compito di tracciare i perimetri .
Tuttavia, quella proposta non tiene conto del fatto che quella decisione fu praticabile solo perché, nel pubblico impiego, tutto il mondo datoriale aveva un unico rappresentante, l’Aran.
Non è certo questa la situazione nell’area più ampia che si vorrebbe disciplinare e non è credibile che si possa pervenire veramente ad un accordo al quale possano aderire tutte le confederazioni datoriali.
Se pure un tale accordo si riuscisse a farlo, ci si dovrebbe chiedere pur sempre se siano veramente evitati, in questo modo, i rischi della manipolazione della libertà sindacale. I soggetti sindacali “danneggiati” dalla perimetrazione – potendo quest’ultima essere operata in modo da condannarli ad una situazione di minorità – considererebbero comunque mortificata la propria libertà. Il problema sarebbe risolvibile solo ipotizzando un sistema che assicuri a ciascun soggetto sindacale di verificare il proprio peso rappresentativo nell’ambito da esso stesso predefinito.
Fatta questa considerazione di ordine generale, vediamo ora le cose un po’ più da vicino.
Con il T.U. le parti hanno creato un proprio sistema. È certamente un sistema che tutti dovremmo avere interesse a vedere effettivamente operare nella realtà.
Dobbiamo chiederci, tuttavia, se sia proprio necessario trasporlo in legge. Ne dubito. Si può ragionevolmente sostenere che la proposta della CGIL, più che dare gambe agli accordi, e quindi rispondere ad una filosofia genuinamente promozionale , finisce, invece, per nutrirsene, divorandoli e quindi sostanzialmente azzerandoli.
Facciamo qualche esempio prendendo in considerazione alcuni profili.
Con il T.U. CGIL, CISL e UIL hanno disciplinato, insieme alla Confindustria, il sistema dei rapporti collettivi, segnando – almeno nello scritto – un passo in avanti nella sua maturazione. Esse hanno aperto alla partecipazione di soggetti esterni rispetto al loro sistema; ma hanno posto alcune condizioni, molto importanti per la coerenza di quel sistema e la preservazione del grado di maturità da esso raggiunto.
In particolare, i sindacati della triplice hanno subordinato la partecipazione di altre associazioni alla condizione che queste accettino di condividere le regole e i valori formalizzati negli accordi. Tra le regole convenute non va dimenticato l’obbligo di pace sindacale (previsione indigesta, come è noto, ad alcune associazioni sindacali), nonché quella che – per garantire l’attendibilità del dato associativo (rilevante ai fini del calcolo del peso rappresentativo delle differenti associazioni) – stabilisce che la contribuzione associativa debba essere non inferiore ad una determinata soglia.
Orbene, questo i soggetti sottoscrittori del T.U. hanno potuto farlo perché hanno giocato in casa propria. L’articolo 39 non lo consente. Infatti la CGIL ha dovuto elidere, nella sua proposta, questi importanti aspetti, che avevano la funzione di assicurare compattezza al sistema messo su con il T.U. Dunque appare evidente che, se il legislatore volesse intervenire in attuazione di quella disposizione della Costituzione, non potrebbe muoversi veramente in sintonia con quanto previsto dalle parti sociali, anche se, come è intenzione della CGIL, è proprio al T.U. che si vogliono dare le gambe. Ci si consenta il gioco di parole: si può sostenere che la logica del 39 Cost. può mettere in fuori gioco il gioco che è stato fatto dal T.U.
Peraltro, non è neppure scontato che la trasposizione in legge degli altri contenuti del T.U. sia in toto compatibile con la logica dell’articolo 39 della Costituzione. C’è da chiedersi, ad esempio, se sia coerente con quell’articolo 39 la scelta di rimettere alla stessa autonomia collettiva, seppure maggioritaria, le regole per la partecipazione al processo di negoziazione.
La costituzione fissa ragionevolmente il principio maggioritario, ma vuole assicurare a tutti i soggetti registrati la possibilità di prendere parte alla contrattazione attraverso la partecipazione alla rappresentanza unitaria, perché essi possano comunque far sentire la propria voce, anche se minoritaria. La rimessione alla stessa autonomia collettiva maggioritaria della disciplina di questo profilo sembra non offrire quelle garanzie di imparzialità che sarebbe necessario assicurare su questo delicato versante.
Consideriamo anche un altro aspetto della proposta della CGIL. La Carta dei diritti contempla la legificazione delle RSU, ma radicare la RSU nella legge ne altera la natura. Nel sistema attuale, la RSU - benché aperta alla partecipazione di tutti - può essere considerata come la forma unitaria, autonomamente scelta, delle rappresentanze aziendali di CGIL, CISL e UIL. Come tale queste confederazioni l’hanno creata e disciplinata, tanto da poter prevedere di condizionare – come si è visto - la partecipazione di altre associazioni. In altri termini, nella situazione attuale le carte sono nelle mani degli attori principali del sistema; sono essi a condurre il gioco e a dettare le regole perché altri vi partecipino. Invece, radicando la RSU nella legge, è quest’ ultima a fare il gioco. Le conseguenze sono, da un lato, che si è previsto – discostandosi dal T.U, in coerenza con la logica del 39 cost. – che l’ elezione della Rsu possa comunque essere richiesta da tutte le associazioni sindacali (con una certa rappresentatività) nonché dal 20% dei lavoratori occupati nell’impresa (art. 31); dall’altro che la RSU inevitabilmente finisce per presentarsi non più come espressione unitaria delle organizzazioni sindacali firmatarie dell’accordo, bensì come forma di rappresentanza diretta di tutti i lavoratori e come forma di rappresentanza che esclusivamente da essi riceve la propria legittimazione. Così operando si farebbe un passo in avanti oppure un passo indietro? Comunque, a dispetto dell’apparenza, si tratterebbe di un passo non coincidente con quello del T.U.

3. Quali altre possibili soluzioni?
Abbiamo esaminato le perplessità che suscita il progetto della CGIL. Dobbiamo ora chiederci: ma vi sono altre strade per dare gambe alle intenzioni degli attori sociali?
La risposta deve essere positiva. A mio avviso le si può cercare continuando a rimanere – ma con contenuti ammodernati - nella logica tradizionale della legislazione di sostegno al sistema di fatto; sostegno che appare oggigiorno a maggior ragione opportuno nel momento in cui quel sistema sembra essersi evoluto nella stessa direzione del contenuto più qualificante della seconda parte dell’articolo 39 Cost., quello che fissa il principio maggioritario. Su questo versante il legislatore può muoversi con maggiore libertà.
Quale intervento si può allora ipotizzare al fine di contrastare, come è doveroso, le sempre più frequenti pratiche di dumping e per promuovere il ruolo regolatorio delle parti sociali?

3.1. Un intervento sul trattamento retributivo minimo per contrastare il dumping
Per quel che riguarda il primo aspetto sappiamo che le parti sociali, con il patto per la fabbrica (2018), si sono poste l’obiettivo di contrastare il dumping attraverso il conferimento di efficacia erga omnes al contratto collettivo . Bisogna riconoscere che, per l’immediato, quell’obiettivo ben potrebbe essere perseguito efficacemente attraverso una legge sul trattamento retributivo.
L’articolo 36 Cost. fissa il diritto del lavoratore ad una retribuzione adeguata. All’epoca in cui fu formulato si pensava che alla sua specificazione avrebbe provveduto il sistema dei contratti efficaci erga omnes. Sappiamo che l’inattuazione di questo sistema è stata compensata dalla giurisprudenza che ritiene comunque doveroso il ricorso al parametro fissato dalla contrattazione collettiva. Il legislatore potrebbe dunque legificare questa giurisprudenza. Si tratterebbe, in fin dei conti, di fare il passo ulteriore rispetto a quello già compiuto nel 1989 , quando si decise di imporre ai datori di lavoro l’obbligo del pagamento dei contributi sul lavoro in misura non inferiore a quella che si dovrebbe corrispondere ove si facesse applicazione del contratto stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative .
Nessuna organizzazione potrebbe contestare la legittimità dell’intervento. Ci troveremmo di fronte alla determinazione per legge del trattamento retributivo minimo da corrispondere ai lavoratori, trattamento nel fissare il quale il legislatore può godere di ampia discrezionalità, essendo solo tenuto a rispettare, in linea di principio, da un lato il limite della sufficienza e, dall’altro, quello della parità di trattamento tra i datori di lavoro che si trovino nelle medesime condizioni. Peraltro sappiamo che un passo di questo tipo è stato già compiuto dal legislatore nel settore della cooperazione a favore del socio lavoratore e la Corte costituzionale lo ha ritenuto pienamente legittimo (sentenza n. 51/2015) . Esso avrebbe anche una evidente finalità di tutela della concorrenza.

3.2. Prendere sul serio l’esigenza di certificare il peso rappresentativo degli attori sociali e promuovere in termini di sistema la responsabilità preminente delle parti sociali nella regolazione dei rapporti di lavoro
Per quel che riguarda il secondo aspetto – quello che attiene alla valorizzazione del ruolo regolativo delle parti sociali – bisogna tenere presente che il legislatore già da tempo, persegue una politica di sostegno a questo ruolo. Essa - oltre che nella forma indiretta della politica promozionale espressa dallo statuto dei lavoratori, volta ad assicurare la presenza delle organizzazioni sindacali nei luoghi di lavoro - si articola essenzialmente in due modalità.
La prima – più risalente nel tempo - è quella della incentivazione dell’applicazione dei contratti collettivi realizzata attraverso la previsione del rispetto dei livelli di trattamento da essi previsti come condizione posta al datore di lavoro per godere di particolari benefici. Si persegue in questo modo una finalità di tutela della concorrenza servendosi di uno strumento alternativo a quello previsto dalla seconda parte dell’articolo 39 Cost. (l’efficacia erga omnes del contratto collettivo).
La seconda modalità – inizialmente utilizzata con prevalente finalità di fessibilizzazione delle rigidità del quadro normativo - è quella del rinvio che di frequente il legislatore fa ai contratti collettivi attribuendo ad essi la facoltà di modificare o integrare la disciplina legislativa.
Questa politica presenta alcuni punti deboli che vanno corretti.

3.2.a Il primo è quello della crescente inadeguatezza della formula normalmente utilizzata dal legislatore per selezionare gli accordi collettivi ai quali vuole riferirsi (“contratti collettivi di lavoro stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative”). Come si è già detto, questa formula non offre certezze. Essa non modifica sostanzialmente la genericità che connotava la formula usata in precedenza, quella del sindacato maggiormente rappresentativo, che era stata mutuata dall’articolo 19 dello statuto dei lavoratori. Molti elementi di conoscenza utilizzati sul piano amministrativo, per appurare il grado di rappresentatività degli attori, non si basano su dati oggettivi, ma su dichiarazioni rese da essi stessi (ad esempio, numero degli associati. numero delle vertenze composte). Quindi, occorre innanzitutto un sistema che sia in grado di fornire dati incontestabili circa il peso rappresentativo degli agenti contrattuali, sia sul versante dei lavoratori che su quello dei datori di lavoro .
Assicurare questa certezza non corrisponde solo all’interesse solennemente manifestato dalle stesse parti sociali (nel T.U. e nel Patto per la fabbrica) , bensì corrisponde anche all’interesse pubblico all’esistenza di un ordinamento intersindacale più robusto e quindi dotato di quella maggiore effettività e legittimazione che costituiscono condizione di una seria politica promozionale, la quale presuppone il coinvolgimento, da parte dell’ordinamento statale, di interlocutori qualificati sul versante delle parti sociali. Si giustifica ampiamente, quindi, un intervento del legislatore.
Per quel che riguarda il versante dei lavoratori una disciplina è stata già elaborata dal T.U. È sotto gli occhi di tutti che il sistema stenta a decollare. Occorre quindi, a mio avviso, un sostegno pubblico che ne assicuri il funzionamento (in forme più impegnative di quelle attuali, che passano attraverso l’attività dell’Inps e del Cnel).
Per quel che riguarda, invece, il versante dei datori di lavoro, una disciplina va elaborata ex novo.
La certificazione del peso rappresentativo degli attori implica che a monte vi sia una perimetrazione dell’area all’interno della quale quel peso va calcolato. Il legislatore la potrà determinare liberamente, senza il timore di invadere sfere riguardanti la libertà sindacale degli attori. Guidato dal criterio della ragionevolezza la determinerà di volta in volta, in funzione degli obiettivi della propria politica promozionale, seguendo i perimetri registrabili nella realtà effettuale delle relazioni collettive e, laddove si dovessero registrare sovrapposizioni, assumendosi la responsabilità di risolverle attraverso una definizione di aree merceologiche nelle quali inquadrare le diverse aziende, ovviamente – e qui ci sarebbe una differenza strutturale con la prospettiva dell’art. 39 Cost. - ai fini della applicazione della sua politica promozionale.
Detto questo, va anche rilevato che la conoscenza del peso rappresentativo degli attori, di per sé, non è ancora sufficiente. Vanno chiariti altri elementi, la cui mancanza finisce per configurare la formula del sindacato comparativamente più rappresentativo - seppur irrobustita dall’ elemento della pesatura – come una mera variante terminologica del concetto di sindacato maggiormente rappresentativo.
Quella formula, infatti, trova una proiezione applicativa solo in casi analoghi a quelli con riferimento ai quali è stata introdotta (come norma interpretativa); cioè l’esistenza di due o più contratti – stipulati da soggetti maggiormente rappresentativi - tra i quali va individuato – appunto attraverso un procedimento di comparazione - il contratto al quale il legislatore ha voluto fare riferimento.
Al fuori di questi casi il “comparativamente” sembrerebbe appeso al vuoto. Potrebbe avere una sua utilità solo se la formula fosse chiamata a svolgere, a monte, una funzione abilitativa, cioè la funzione di consentire in via anticipata l’indicazione dei soggetti sindacali abilitati alla stipula dei contratti ai quali il legislatore intende fare rinvio. Ma per questo occorrerebbe una apposita disciplina che al momento manca .

3.2.b Il secondo elemento di debolezza riguarda, a mio avviso, la politica di esplicito coinvolgimento delle parti sociali nella tessitura del quadro normativo posto dal legislatore.
L’affidamento di questa responsabilità, pur rappresentando un grosso salto qualitativo nella politica promozionale, non è stato accompagnato – come forse sarebbe stato opportuno – dalla consapevolezza che si rendevano necessari mutamenti di paradigma sul piano tecnico. Si è infatti continuato a ritenere che, per poter fruire di questa “tessitura”, il datore di lavoro debba comunque applicare il contratto collettivo nel quale essa è contenuta. Quindi, l’affidamento di questa responsabilità regolativa è stata concepita, nella sostanza, come un ulteriore incentivo, anomalo, all’applicazione del contratto di riferimento.
È difficile negare che così si siano venute a creare alcune assurde incongruenze di non poco momento. Ad esempio, prendiamo il contratto di apprendistato: la sua disciplina è in gran parte rimessa ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (art. 42, co. 5, del d. lgsl. 81/2015). Dobbiamo chiederci: quindi il datore di lavoro che non applica quel contratto collettivo è addirittura escluso dalla possibilità di usare quel tipo di contratto? Si potrebbero fare anche molti altri esempi di questo tipo.
A mio avviso non ci si è resi conto del fatto che il legislatore, in questi casi, ha cominciato ad associare le parti sociali (dotate di peso rappresentativo) allo svolgimento del proprio ruolo, conferendo ad esse un potere normativo. Quindi, sarebbe stato più ragionevole ritenere che questo coinvolgimento delle parti sociali dovesse comportare l’applicazione generalizzata di quanto da esse disposto per effetto della chiamata in causa da parte del legislatore. Invece, questa prospettiva non è stata presa in considerazione e si è dato per scontato che, essendo contenute in un contratto collettivo, le disposizioni redatte in esercizio di quel potere normativo debbano avere la stessa efficacia soggettiva del contratto.
Non è da escludere che in questa direzione abbia giocato un argomento ricavabile dalla seconda parte dell’art. 39 Cost.: la sua inattuazione impedirebbe che un contratto collettivo possa contenere norme dotate di efficacia erga omnes. Così argomentando, tuttavia, non si terrebbe conto del fatto che il fenomeno del quale stiamo parlando è nuovo ed è fuori dalla portata di quella disposizione. L’articolo 39 è funzionale alla produzione di un effetto di generalizzazione dell’efficacia soggettiva di un atto di autoregolamentazione, cioè di un atto frutto dell’esercizio della autonomia privata (il potere che i privati hanno di disporre liberamente dei propri interessi nel rispetto dei limiti posti dall’ordinamento). Nel nostro caso la sostanza è diversa: i soggetti collettivi selezionati esercitano un potere che è esplicitamente delegato dalla legge in funzione dell’obbiettivo di assicurare al tessuto normativo di quest’ultima una maggiore vicinanza alle situazioni oggetto di disciplina.
Non ci si è resi conto del fatto che si era venuta a creare una situazione che non era più giustificabile alla luce del principio di tutela della concorrenza che animava l’iniziale finalità incentivante della politica promozionale. Infatti qui ci troveremmo di fronte ad un incentivo che non è esterno al contratto collettivo, bensì presente al suo interno e che lo stesso contratto è stato abilitato a creare. Il risultato è quello di una penalizzazione secca del datore di lavoro che non applichi il contratto di riferimento; egli sarebbe, infatti, escluso dalla possibilità di fruire delle regolazioni prodotte dal contratto sulla base del rinvio della legge. Ci sarebbe allora da chiedersi se per caso un “incentivo” così potente all’applicazione del contratto collettivo non rischi di entrare in rotta di collisione con il principio di eguaglianza e con lo stesso articolo 39 Cost. .
Se si condividono queste considerazioni, sarebbe forse opportuno proporre di strutturare in termini più congruenti la valorizzazione del ruolo regolativo delle parti sociali nella prospettiva di quanto affermato nel § 1.
Da un altro lato, bisognerebbe riconoscere apertamente che non si sta facendo opera di incentivazione della applicazione del contratto collettivo, bensì di conferimento di un potere normativo destinato a produrre regole che contribuiscono alla conformazione del tessuto normativo governato dallo stesso legislatore e che pertanto devono essere fruite/rispettate da tutti.
Da un altro lato, si dovrebbe operare per evitare un inconveniente al quale si è più volte assistito in passato, allorquando la collaborazione a questa funzione normativa è apparsa costituire per gli attori una occasione per farne una indebita posta da scambiare nel gioco negoziale che si svolge nei rinnovi contrattuali. In questa prospettiva potrebbe essere utile la previsione di una fase specializzata della produzione normativa negoziale, con la presenza attiva di una Pubblica Amministrazione autorevole. A questo proposito suggerimenti utili potrebbero venire dal modello degli articoli dello statuto dei lavoratori riguardanti la disciplina dei controlli a distanza e quella delle visite personali di controllo e dalla sua esperienza applicativa.
In buona sostanza, occorrerebbe riflettere sulla necessità di perseguire una politica promozionale più lucida e coraggiosa, orientata dall’idea che - nella misura massima possibile -la regolazione dei problemi del mercato del lavoro debba essere rimessa alla responsabilità delle parti sociali (pienamente legittimate sulla base del principio democratico) e alla duttilità della fonte collettiva.
Sempre a proposito di politica promozionale chiudo queste brevi considerazioni con due semplici accenni ad ulteriori interventi che sarebbe opportuni per irrobustirla.
Il primo: occorrerebbe restituire all’articolo 19 dello Statuto, con gli opportuni perfezionamenti, la funzione per la quale esso era stato concepito e che ha perso nel 1995 a causa di un improvvido referendum. La funzione di legittimare incondizionatamente in azienda la presenza delle organizzazioni sindacali più rappresentative.
Il secondo: è tempo di riconoscere – e qui la proposta della CGIL è pienamente condivisibile - il diritto alla contrattazione collettiva.

 

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