testo integrale con note e bibliografia
1. La centralità dei trattamenti economici integrativi. Tra incentivazione del merito e controllo della spesa.
E’ stata la Corte costituzionale , nel traghettare l’intero sistema di contrattazione del pubblico impiego oltre il blocco del DL 78/2010 (e dei suoi epigoni), a delineare caratteri e funzioni fondamentali del trattamento economico dei dipendenti pubblici, sì come governato dalla legge e dall’autonomia collettiva.
Nell’affermare che «il reiterato protrarsi della sospensione delle procedure di contrattazione economica altera la dinamica negoziale in un settore che al contratto collettivo assegna un ruolo centrale (sentenza n. 309 del 1997, punti 2.2.2., 2.2.3. e 2.2.4. del Considerato in diritto), e che «in una costante dialettica con la legge, chiamata nel volgere degli anni a disciplinare aspetti sempre più puntuali (art. 40, comma 1, secondo e terzo periodo, del d.lgs. n. 165 del 2001), il contratto collettivo contempera in maniera efficace e trasparente gli interessi contrapposti delle parti e concorre a dare concreta attuazione al principio di proporzionalità della retribuzione, ponendosi, per un verso, come strumento di garanzia della parità di trattamento dei lavoratori (art. 45, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001) e, per altro verso, come fattore propulsivo della produttività e del merito (art. 45, comma 3, del d.lgs. 165 del 2001)», la Corte condensa in maniera chiara la doppia valenza della contrattazione economica, protesa sia a garantire trattamenti fondamentali conformi al dato dell’art. 36 Cost., sia, per la parte accessoria, incentivazione e produttività dei dipendenti pubblici.
Tuttavia, è noto come il mantenimento di questa equilibrata proiezione della contrattazione economica, abbia dovuto scontare, nel trentennio di riforma, plurimi e ricorrenti richiami al contenimento della spesa per il personale, che hanno fatalmente condizionato, e per certi periodi appunto azzerato, politiche serie di incentivazione funzionali al miglioramento delle amministrazioni.
Ferma la determinazione delle risorse disponibili per la contrattazione collettiva nazionale secondo i meccanismi di legge dell’art. 48 D.Lgs. n. 165/2001 e fermi i meccanismi di controllo sulla spesa di cui agli artt. 60 e ss. dello stesso Testo Unico, non è un caso che tali operazioni generalizzate di limitazione della spesa incidano sui trattamenti accessori demandati alla disponibilità della contrattazione integrativa di ente ed ai relativi fondi di amministrazione, specie in alcuni settori (sanità, autonomie territoriali), notoriamente meni inclini, per evidenti motivi di ordine politico e sindacale, ad assecondare condizionamenti eteronimi della spesa per il personale.
Non essendo in questa sede possibile fornire una ricostruzione delle numerose disposizioni di legge che in questi anni hanno inciso sul tema, spesso attraverso tagli lineari che non tenevano conto della condotta finanziaria più o meno virtuosa delle amministrazioni, è invece possibile dare conto della parabola seguita dall’ultima operazione generalizzata di contenimento della spesa per il personale operata per il tramite dell’art. 23 del D.lgs. n. 75/2017, norma appunto destinata, con carattere transitorio, alla disciplina di «salario accessorio e sperimentazione».
La legge affidava anzitutto alla contrattazione collettiva nazionale il compito di perseguire la progressiva «armonizzazione» dei trattamenti economici accessori del personale delle amministrazioni «anche mediante la differenziata distribuzione, distintamente per il personale dirigenziale e non dirigenziale, delle risorse finanziarie destinate all'incremento dei fondi per la contrattazione integrativa di ciascuna amministrazione», così di fatto entrando nel merito delle prerogative della contrattazione nazionale e quindi anche della contrattazione integrativa.
Per quanto concerne il fondo destinato al trattamento accessorio, si prevedeva un contenimento entro i limiti dell’importo determinato per l’anno 2016 , seppure abrogando l’art. 1, co. 236, l. 28 dicembre 2015 n. 208, (a far data dal 1° gennaio 2017), relativo all’obbligatoria riduzione dei fondi, da parte delle amministrazioni, in ragione della diminuzione del personale in servizio. L’art. 23 disciplinava, inoltre, nei co. 4 e seguenti, una fase sperimentale, consentendo di destinare apposite risorse alla componente variabile dei fondi per il salario accessorio anche per l’attivazione di nuovi servizi o per processi di riorganizzazione ed il relativo mantenimento, fermo restando il limite massimo complessivo individuato e nel rispetto della normativa contrattuale vigente così imboccando una nuova via regolativa che, seppur timidamente, tendeva a riconoscere margini maggiori di flessibilità nell’incremento dei fondi.
Tale “apertura di credito” verso le amministrazioni e la contrattazione integrativa di ente è stata confermata dai passaggi politici e sindacali successivi alla Riforma Madia, nonché, da ultimo, dal legislatore dell’ultima stagione di riforme; tanto, da poter ormai parlare della norma dell’art. 23 nella forma dell’indicativo imperfetto.
Ed in effetti, sul piano legislativo, con l’art. 1, c. 870 della L. 30 dicembre 2020, n. 178 si è dapprima provveduto ad autorizzare deroghe ai limiti dell’art. 23 per «i trattamenti economici accessori correlati alla performance e alle condizioni di lavoro, ovvero agli istituti del welfare integrativo» , finanziati con i risparmi di spesa del periodo pandemico per buoni pasto e lavoro straordinario, previa certificazione di detti risparmi da parte degli organi di revisione contabile delle amministrazioni; dopodiché, nelle previsioni dell’art. 3 del Decreto Reclutamento DL n. 80/2021, rientra il passaggio di definitivo superamento del limite dell’art. 23, seppure effettuato «secondo criteri e modalità da definire nell'ambito dei contratti collettivi nazionali di lavoro e nei limiti delle risorse finanziarie destinate a tale finalità».
E’ la conferma di una crescente responsabilizzazione del contratto collettivo nazionale di comparto e di area dirigenziale circa il corretto equilibrio tra incentivazione economica e controllo della spesa, ruolo del resto promosso da tutti gli attori politico-sindacali, da ultimo con il Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale del 10.3.2021 il quale, in maniera tutt’altro che equivoca, auspica appunto che «al fine di sviluppare la contrattazione integrativa il Governo, previo confronto, individuerà le misure legislative utili a valorizzare il ruolo della contrattazione decentrata e, in particolare, il superamento dei limiti di cui all’art. 23, c. 2 del d.lgs. n. 75/2017» .
2. Finalizzazione vs. funzionalizzazione dei trattamenti nelle previsioni dei contratti collettivi.
In questo scenario di più flessibile controllo della spesa e dei vincoli per le incentivazioni di carattere economico, lo stesso Patto del 2021, nell’operazione di rilancio delle amministrazioni attuata con il PNRR, riconosce come «le esperienze più efficaci di contrattazione integrativa dovranno rappresentare il percorso per puntare sulla valutazione oggettiva della produttività e la sua valorizzazione economica e professionale, investendo sul suo potenziamento», in ciò sviluppando il sistema di relazioni sindacali di prossimità.
Avendo cioè il sistema (e le parti dei grandi accordi extra ordinem del pubblico impiego) acquisito e metabolizzato la rinnovata centralità della contrattazione collettiva dopo il Memorandum CGIL/CISL/UIL del 30.11.2016 e le coerenti modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 75/2017 sull’assetto delle fonti, lo stesso sistema cerca di finalizzare l’operato della contrattazione collettiva nazionale e integrativa, in una chiara prospettiva di funzionalizzazione dei sistemi di misurazione e valutazione della performance, quale presupposto imprescindibile della contrattazione sui trattamenti incentivanti.
I due sistemi – di valutazione della performance e di gestione dei trattamenti premianti –, pur mantenendo fonti di regolamentazione diverse (unilaterali per la valutazione; negoziali per i trattamenti premianti), non possono che operare in stretta relazione reciproca, caratterizzata da costante dinamica informativa, trasparenza dei processi e continuo aggiornamento/monitoraggio. Del resto, la giurisprudenza contabile e di legittimità appare da tempo univoca nell’affermare il carattere indebito dei trattamenti premiali erogati in assenza dei presupposti dell’assegnazione degli obiettivi e della verifica del loro raggiungimento da parte del sistema di valutazione , ovvero, e in ogni caso, in assenza dei presupposti previsti dal CCNL .
Altre norme del D.lgs. n. 165/2001 e del D.lgs. n. 150/2009, introdotte rispettivamente dai DD.ll.gs. nn. 74 e 75/2017, appaiono significative del corso intrapreso dal legislatore con riguardo al ruolo della contrattazione collettiva in materia di trattamenti premiali, con particolare riferimento al profilo “distributivo” delle risorse incentivanti .
E’ anzitutto rilevante il passaggio relativo all’abbandono del modello imposto dal legislatore del 2009 con riguardo alla destinazione delle risorse decentrate, che, nella previsione dell’art. 40, c. 3 bis del D.lgs. n. 165/2001, sì come riferita ai trattamenti accessori di cui all’art. 45 del D.lgs. n. 165/2001 , doveva in “quota prevalente” essere collegato alla performance “individuale”. Pur mantenendo la norma una proiezione della destinazione economica tramite contrattazione integrativa all’interesse (contrattuale) dell’amministrazione verso «adeguati livelli di efficienza e produttività dei servizi pubblici», si prevede ora che la contrattazione integrativa incentivi «l'impegno e la qualità della performance, destinandovi, per l'ottimale perseguimento degli obiettivi organizzativi ed individuali, una quota prevalente delle risorse finalizzate ai trattamenti economici accessori comunque denominati ai sensi dell'articolo 45, comma 3».
Ferma dunque la competenza della contrattazione integrativa circa la distribuzione dei trattamenti in sede decentrata agli esiti della valutazione di performance (individuale ed organizzativa), e ferma anche la destinazione ad incentivi della quota prevalente delle risorse del fondo di amministrazione, il profilo giuridico di rilievo risiede nell’eliminazione di ogni vincolo di destinazione delle stesse in qualche modo “predeterminato” dal legislatore: è l’autonomia negoziale a stabilire se tale quota prevalente debba essere a sua volta maggiormente rivolta a premiare la performance “individuale” dei dipendenti ovvero quella “organizzativa”, in attenta considerazione del contesto organizzativo, delle disponibilità di ente oltre che delle valutazioni di ordine sindacale.
E’ qui che si innesta un ulteriore importante snodo di competenza (e di responsabilità) demandato alla contrattazione nazionale di comparto o di area dirigenziale, a coniugare l’esito delle valutazioni con l’erogazione dei trattamenti incentivanti distribuiti dalla contrattazione integrativa.
L’art. 19, c. 1 del D.lgs. n. 150/2009, in luogo delle “vituperate” fasce di merito, presenta infatti un meccanismo di integrale rinvio al contratto collettivo nazionale il quale «stabilisce la quota delle risorse destinate a remunerare, rispettivamente, la performance organizzativa e quella individuale e fissa criteri idonei a garantire che alla significativa differenziazione dei giudizi di cui all'articolo 9, comma l, lettera d) [le valutazioni di performance n.d.r.] corrisponda un'effettiva diversificazione dei trattamenti economici correlati» . Chiaro, dunque, il legame indissolubile ed imprescindibile fra valutazione ed erogazione dei trattamenti incentivanti; ma chiaro anche il vincolo determinato dalla contrattazione nazionale rispetto a quella integrativa, la quale sarà chiamata a “distribuire”, ma solo nell’osservanza delle quote di risorse definite dal CCNL (e non più dalla legge).
3. I trattamenti di performance.
La chiave di prevalenza – se della performance “individuale” o di quella “organizzativa” (“collettiva”, nel lessico e nella interpretazione sindacale) – è dunque rimessa alla contrattazione collettiva, con minore condizionamento legale nella ripartizione del fondo di amministrazione, pur nel perseguimento del “fine” dei trattamenti di performance, cioè quello di garantire «adeguati livelli di efficienza e produttività dei servizi pubblici». Tuttavia, a fronte di una maggiore elasticità nella distribuzione degli emolumenti incentivanti, la performance “a matrice collettiva”, storicamente preferita dal fronte sindacale, porta il rischio di un appiattimento dei trattamenti, specie se non vengono correttamente definite e gestite dalla dirigenza le fasce di merito attraverso le quali deve avvenire la differenziazione della valutazione (cfr. art. 9, c. 1, lett. d) che collega espressamente la valutazione dei dirigenti anche «alla [loro] capacità di valutazione dei propri collaboratori, dimostrata tramite una significativa differenziazione dei giudizi»).
Sul versante della contrattazione nazionale di comparto tale processo di “collettivizzazione della performance” ai fini del trattamento incentivante, non pare tuttavia essersi manifestato in modo evidente, mantenendo i CCNL profili di flessibilità, ma anche di eterogeneità nell’indirizzo alla contrattazione integrativa, con riguardo sia alla composizione finanziaria del fondo per la contrattazione (a), sia con riguardo alla distribuzione delle risorse (b).
(a) I contratti nazionali hanno infatti provveduto, da un lato, come da disposizione di legge (art. 40, c. 4 ter d.lgs. n. 165/2001), ad una operazione di drafting dei testi contrattuali circa la razionalizzazione e semplificazione delle modalità di costituzione ed utilizzo dei fondi, operazione senz’altro complicata dall’accorpamento/riduzione dei comparti di contrattazione imposto dal D.lgs. n. 150/2009 , la quale ha tuttavia prodotto positivi effetti di omologazione nella gestione dello strumento tecnico di finanziamento della contrattazione di secondo livello.
Molte sono infatti le criticità verificate nelle esperienze di questi anni nell’ambito della costituzione, incremento e finalizzazione dei fondi , sovente appunto attribuibili alla scarsa chiarezza dei testi contrattuali ed alla sovrapposizione di disposizioni in materia prodotte nelle varie stagioni di contrattazione collettiva nazionale. A ciò è da aggiungersi, come già accennato, la straordinaria produzione di norme legislative volte al contenimento ed alla riduzione delle disponibilità dei fondi, oltre che la fisiologica difficoltà degli enti di gestire in modo virtuoso lo strumento rispetto alla stabilità/variabilità delle risorse da utilizzare: la criticità più frequente è quella della progressiva erosione delle risorse stabili del fondo determinata dall’imponente svolgimento di progressioni economiche orizzontali, al cui finanziamento vengono quindi indebitamente destinate risorse variabili, che potrebbero poi risultare non più disponibili ed utilizzabili nel medio-lungo periodo.
All’esito delle stagioni contrattuali 2016-2018 e 2019-2021, appare senz’altro confermata tale competenza della contrattazione nazionale nella determinazione dei contenuti del fondo per la contrattazione integrativa; nondimeno il legislatore ha mantenuto linee di contenimento e di controllo dei fondi destinati ai trattamenti accessori, naturalmente percependo che proprio a livello decentrato/integrativo di amministrazione si gioca, storicamente, specie per le amministrazioni diverse da quelle statali, la partita più rilevante e complessa verso il contenimento e controllo della spesa per il personale.
(b) Nel fornire indicazioni circa la ripartizione delle risorse del fondo da parte della contrattazione integrativa i CCNL hanno poi optato per una soluzione di compromesso: da un lato, in parziale deroga all’art. 40, c. 3 bis, è stabilito che la “quota prevalente” delle risorse del fondo debba essere destinata a remunerare una serie di voci di trattamento accessorio più ampia della performance organizzativa ed individuale (comprendendovi indennità correlate alle condizioni di lavoro, ad obiettive situazioni di disagio, rischio, al lavoro in turno, a particolari o gravose articolazioni dell’orario di lavoro, alla reperibilità allo svolgimento di attività implicanti particolari responsabilità); dall’altro, si impone alla contrattazione integrativa di destinare alla performance individuale almeno il 30% di tali risorse “prevalenti” inviando così segnali significativi circa l’importanza “interna” della valutazione individuale, rispetto a quella collettivo/organizzativa.
Il profilo individuale della performance, sempre dal punto di vista dell’incentivazione, è tuttavia recuperato nei contratti collettivi nazionali per il tramite dell’istituto denominato “Differenziazione del premio individuale”, sul quale viene giocata la partita più alta, cioè quella premiale di eccellenza.
La previsione, già presente nel CCNL 2016/2018, non ha suscitato particolare calore verso l’attuazione della differenziazione in melius del premio individuale in sede di contrattazione integrativa; piuttosto si è trattato di definire, ove le risorse lo hanno consentito, il concetto di «limitata quota massima di personale valutato», a cui la maggiorazione può essere attribuita. L’espressione lessicale, associata al carattere di eccellenza del premio, indurrebbe ad una lettura restrittiva; ma il significato di “limitata quota” è stato stemperato e contaminato dai CCNL 2019-2021, i quali hanno provveduto a “diffondere” ed “espandere” l’area premiale, prevedendo che in sede di contrattazione integrativa sia possibile correlare l’effettiva erogazione di una quota delle risorse del fondo, per tutti i dipendenti, eccellenti e non, al raggiungimento di uno o più obiettivi riferiti agli effetti dell’azione dell’ente nel suo complesso, se oggettivamente misurabili .
4. I CCNL 2019-2021: dalle PEO ai “differenziali stipendiali” nelle aree di inquadramento.
Le progressioni tra le posizioni economiche, in cui tutti i contratti di comparto hanno suddiviso le aree professionali del personale non dirigenziale , costituiscono a tutt’oggi la più importante forma di valorizzazione della professionalità e del merito nelle pa.
Proprio per questo la contrattazione collettiva non è legittimata ad introdurre meccanismi automatici di progressione nelle posizioni economiche o che avvengano in virtù di valutazioni discrezionali dei dirigenti: l’unico percorso ammesso è ancora una volta quello selettivo, nel quale la progressione economica si svolge in ragione delle valutazioni della performance dei dipendenti.
Anche per questo profilo, come noto, il legislatore si è fatto carico di trasporre nel disposto normativo il principio di selettività, prevedendo esplicitamente, al comma 1-bis dell’art. 52 del d.lgs. n. 165/2001 , che «le progressioni all’interno della stessa area avvengono, con modalità stabilite dalla contrattazione collettiva, in funzione delle capacità culturali e professionali e dell’esperienza maturata e secondo principi di selettività, in funzione della qualità dell’attività svolta e dei risultati conseguiti, attraverso l’attribuzione di fasce di merito». Con riguardo a queste procedure, che hanno natura giuridica squisitamente privatistica , il giudice ordinario ha così finito per esercitare, facendo ricorso ai canoni di correttezza e buona fede contrattuale e transitando per il principio di selettività, un sindacato sostanzialmente analogo a quello che opera il giudice ammnistrativo in merito alle procedure concorsuali, secondo i canoni di legittimità dell’atto amministrativo.
Non deve poi essere dimenticato l’art. 23 del D.Lgs. n. 150/2009, rubricato “Progressioni economiche” il quale, per essere collocato nel titolo III del D.Lgs. n. 150, ha carat¬tere imperativo, non può essere derogato dalla contrattazione collettiva ed è inserito di diritto nei contratti collettivi ai sensi e per gli effetti degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile, a decorrere dal pe¬riodo contrattuale successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore del decreto (ex art. 29 D.Lgs. n. 150/2009), e cioè, osservando la sequenza storica della contrattazione post-Brunetta, al netto del blocco del 2010, dalla contrattazione della tornata 2016-2018.
Secondo questa norma, le amministrazioni pubbliche riconoscono selettivamente le progres¬sioni economiche di cui all’articolo 52, comma 1-bis, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 sulla base di quanto previsto dai contratti collettivi nazionali e integra¬tivi di lavoro e nei limiti delle risorse disponibili, fissando e confermando dunque il fondamentale principio della competenza della contrattazione di primo e secondo livello nella disciplina di tutti gli istituti economici, e quindi anche per quanto riguarda la disciplina delle progressioni economiche orizzontali (c.d. PEO).
Di fatto, nell’esperienza passata, come ricordato da numerose prese di posizione dei Giudici contabili , l’istituto è stato utilizzato per riconoscere aumenti economici che si consolidano nel trattamento dei dipendenti pubblici senza il ricorso a strumenti realmente selettivi: tanto, viste le altissime percentuali di riconoscimento delle progressioni, da far dubitare della correttezza della collocazione dell’istituto nel novero dei trattamenti di carattere accessorio, come tale finanziato dalle risorse del fondo per la contrattazione integrativa di amministrazione, con assorbimento pressoché integrale delle relative risorse “stabili”; tanto, come ovvio, da identificare nelle PEO l’obiettivo primo di ogni richiesta sindacale al tavolo della contrattazione collettiva integrativa.
La Riforma Madia, nel confermare il testo dell’art. 23 del d.lgs. n. 150, non ha quindi potuto che ribadire la necessità che le progressioni abbiano effettivo carattere premiante, per far sì che l'acquisizione di incrementi retributivi risulti realmente idonea a valorizzare professionalmente il dipendente chiamato a svolgere le medesime mansioni del profilo posseduto. Per questo si ribadisce la necessità che le progressioni vengano riconosciute ad una «quota limitata di dipendenti» e, pur essendo venuto meno nell’art. 23, per effetto della modifica dell’art. 19, il riferimento alla fascia di merito alta quale criterio di priorità per le progressioni, l’esito della valutazione di performance resta indice fondamentale per l’affermazione del principio di selettività che deve governare il processo di progressione economica .
I contratti collettivi 2019-2021 hanno superato il modello delle posizioni economiche plurali all'interno di ogni area/categoria, per accedere a quello di un’unica retribuzione di accesso all’area rispetto alla quale, successivamente, per effetto della progressione, potranno essere acquisiti dei “differenziali stipendiali” nella misura e per un numero massimo di volte definito, per ogni area, dai diversi CCNL.
La denominazione corretta dell’istituto economico, pur sotto la rubrica «Progressione economica all’interno delle aree» (cfr. art. 14 CCNL Funzioni centrali; art. 19 CCNL Sanità; art. 14 CCNL Funzioni locali) è dunque oggi quella di “differenziale stipendiale” nei CCNL Funzioni centrali e Funzioni locali e di “differenziali economici di professionalità” nella Sanità.
Questa (nuova) denominazione è rappresentativa di un cambio di prospettiva delle progressioni economiche all’interno delle aree, perché, secondo i contratti:
a) i differenziali remunerano non il merito in senso lato, cioè «il maggior grado di competenza professionale progressivamente acquisito dai dipendenti nello svolgimento delle attribuzioni proprie dell’area e della famiglia professionale»;
b) i differenziali sono dichiaratamente «incrementi stabili del trattamento economico» o dello “stipendio”, rivelando dunque la reale natura delle progressioni quale voce del trattamento tabellare (cfr. art. 20, c. 4 Sanità) assai poco coerente con il loro finanziamento nell’ambito dei fondi per i trattamenti accessori (cfr. art. 79 CCNL Funzioni locali Fondo risorse decentrate), con la necessaria variabilità degli stessi fondi nella modalità di costituzione (risorse stabili/risorse variabili), ma soprattutto di distribuzione. Lo conferma nei CCNL la norma sulla struttura della retribuzione (es. art. 44 CCNL Funzioni centrali) che colloca il «differenziale economico di professionalità secondo la nuova disciplina di cui al CAPO II del Titolo III (Ordinamento professionale), ove acquisito e a cui si applicano i medesimi effetti previsti dall’art. 48 (Effetti dei nuovi stipendi)» tra le voci del trattamento economico fondamentale, quindi ben distinto, almeno nella nomenclatura dell’art. 45 del D.Lgs. n. 165/2001, dai trattamenti della retribuzione accessoria. Dal punto di vista tecnico contabile questo segna una distonia, perché, se si tratta di trattamento tabellare, la sua funzione non è quella di valorizzare la professionalità acquisita e valutata;
c) i differenziali non riguardano l’area delle “elevate professionalità” o “elevate qualificazioni”, assimilandosi da questo punto di vista la nuova categoria ai principi di onnicomprensività del trattamento economico dei dirigenti;
Un primo vincolo alla contrattazione integrativa deriva dal CCNL, che in tabella (es. Tab. 1 nel CCNL Funzioni centrali) indica: 1) la misura annua lorda di ciascun “differenziale stipendiale”, da corrispondersi mensilmente per tredici mensilità, distintamente per ciascuna area del sistema di classificazione; 2) il numero massimo di “differenziali stipendiali” attribuibili a ciascun dipendente, per tutto il periodo in cui permanga l’inquadramento nella medesima area.
Il numero di “differenziali stipendiali” attribuibili nell’anno per ciascuna area viene invece definito in sede di contrattazione integrativa, naturalmente in coerenza con le risorse previste per la copertura finanziaria degli stessi.
I contratti nazionali, affermando la selettività della procedura di attribuzione, passano a definire direttamente i criteri di partecipazione, selezione ed attribuzione dei differenziali, così ancora una volta vincolando, in parte qua, per la nota dinamica di rapporti fra contrattazione nazionale e integrativa (art. 40, c. 3 quinquies D.Lgs. 165/2001), la contrattazione di secondo livello; possiamo allora senz’altro dire che i contratti integrativi vengono per la gran parte spogliati della competenza in materia di individuazione dei criteri per le progressioni orizzontali, fino a questo momento materia assai sensibile e centrale dei contratti di amministrazione.
Una volta fissata da parte della contrattazione integrativa la quota di risorse da destinare ai differenziali economici di professionalità, opera quindi un doppio circuito fissato appunto dalla contrattazione nazionale: in prima battuta è stilata una graduatoria fino a concorrenza del numero di attribuzioni fissato per ciascuna area o percentuale di addensamento del personale nelle aree e nei ruoli; questa graduatoria si forma, nei CCNL, sostanzialmente rispettando i criteri derivabili dalla legge, a) per non meno del 40% del punteggio in base alle valutazioni di performance; b) per un’ altra quota non superiore al 40% in base all’esperienza professionale maturata, anche a tempo determinato o parziale nel comparto nonché presso amministrazioni di altro comparto nello stesso o corrispondente profilo professionale; per la quota residua fino al 100% in base ad ulteriori criteri previsti dalla contrattazione integrativa, comunque correlati a capacità culturali e professionali acquisite anche attraverso i percorsi formativi. Chiaro, dunque, il vincolo determinato dal CCNL, che impone ai contratti di secondo livello di attribuire il maggior peso dei criteri alle valutazioni di performance, in linea con quanto appunto stabilito dalla legge.
In seconda battuta operano le priorità nell’attribuzione dei differenziali dettate dall’anzianità, qui denominata “esperienza professionale”, privilegiando i dipendenti che, titolari di anzianità (10/20 anni), abbiano conseguito un minor numero di progressioni economiche. Ancora una volta in via residuale rispetto a quanto definito dalla contrattazione nazionale, i contratti integrativi potranno poi definire ulteriori criteri di priorità, nel rispetto del principio di non discriminazione.
Il dato “sindacale” è dunque quello di un regresso regolativo della contrattazione integrativa in materia di progressioni orizzontali e comunque di una forte parcelizzazione delle procedure direttamente governata dalle regole fissate dalla contrattazione nazionale. Il che di nuovo dimostra la sfiducia nella contrattazione di secondo livello, ritenuta incapace di gestire in modo equilibrato e rispettoso dei criteri di legge le progressioni stipendiali, in un luogo in cui la valorizzazione della professionalità dovrebbe partire dal dato specifico del tipo di organizzazione in cui essa è chiamata ad operare, nonché, in quel contesto, della qualità della prestazione individuale
5. Un welfare aziendale per il settore pubblico: tra incentivazione e attrattività delle amministrazioni.
Tra le forme di incentivazione in senso lato, che possono contribuire a rendere più attrattivo l’impiego nella “pubblica amministrazione” secondo linea di promozione del lavoro pubblico post-pandemico (si v. ad es. i contenuti del DM 22 luglio 2022) , si deve dare conto della definitiva inclusione, nell’impianto della contrattazione collettiva nazionale, di forme di welfare integrativo, la cui regolamentazione è demandata alla contrattazione di secondo livello.
Del resto, proprio nel settore pubblico si erano manifestate le prime forme di welfare autofinanziato da parte dei dipendenti tramite contributo obbligatorio (c.d. welfare pseudo-aziendale), dedicato al benessere individuale e collettivo perché rivolto anche a figli, genitori e altri soggetti a carico del prestatore . Tuttavia, solo con i CCNL 1990/2000 si può parlare di avvento del welfare integrativo nelle amministrazioni pubbliche, inteso come complesso dei benefici di natura assistenziale e sociale che originano dalle previsioni della contrattazione collettiva integrativa di ente , con vincoli relativi sia alla tipologia di benefici che di tipo finanziario.
Forte impulso verso una nuova prospettiva di welfare nelle pubbliche amministrazione è derivato dalla Legge Madia (art. 14 L. n. 124/2015), la quale collega le misure e l’erogazione di servizi di welfare aziendale alla promozione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle pubbliche amministrazioni . Secondo la norma, le amministrazioni pubbliche, nei limiti delle risorse di bilancio disponibili a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, procedono, al fine di conciliare i tempi di vita e di lavoro dei dipendenti, a stipulare convenzioni con asili nido e scuole dell'infanzia e a organizzare, anche attraverso accordi con altre amministrazioni pubbliche, servizi di supporto alla genitorialità, aperti durante i periodi di chiusura scolastica, così coniugando l’esigenza di erogazione a minor costo di servizi a favore del personale alla possibilità di una migliore combinazione dei tempi di lavoro e famigliare. Altrettanto forte incentivo è poi derivato dalle previsioni del citato Accordo Renzi-Madia/CGIL-CISL-UIL del 30.11.2016, dove si legge dell’impegno del Governo «a sostenere la graduale introduzione anche nel settore pubblico di forme di welfare contrattuale, con misure che integrano e implementano le prestazioni pubbliche, di fiscalità di vantaggio – ferme le previsioni della legge di bilancio 2016 – del salario legato alla produttività e a sostenere lo sviluppo della previdenza complementare».
La contrattazione nazionale, prima nella tornata 2016-2018 e poi nell’attuale 2019-2021 non ha particolarmente brillato nella definizione delle possibili voci di welfare, che sostanzialmente riproducono l’elenco dell’art. 51, c. 2 DPR 22 dicembre 1986, n. 987, lett. f bis con riguardo ad opere e servizi utilizzabili dalla generalità dei dipendenti o da categorie di dipendenti, «per specifiche finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto» cui è certamente esteso il beneficio di cui all’art. 1, comma 190, lett. a) numero 1, legge n. 208/2015, e cioè il valore di tali opere e servizi non concorre ai redditi di lavoro dipendente non solo quando tali spese siano sostenute “volontariamente” dal datore di lavoro, ma anche quando l’offerta di prestazioni a “contenuto sociale” sia oggetto di un piano di welfare aziendale realizzato «in conformità a disposizioni di contratto o di accordo o di regolamento aziendale».
L’elenco contrattuale (es. Sanità 2022), non tassativo, prevede dunque la concessione di benefici di natura assistenziale e sociale in favore dei propri dipendenti, tra i quali: a) iniziative di sostegno al reddito della famiglia (sussidi e rimborsi); b) supporto all’istruzione e promozione del merito dei figli; c) contributi a favore di attività culturali, ricreative e con finalità sociale; d) prestiti a favore di dipendenti in difficoltà ad accedere ai canali ordinari del credito bancario o che si trovino nella necessità di affrontare spese non differibili; e) polizze sanitarie integrative delle prestazioni erogate dal servizio sanitario nazionale anche a copertura di particolari eventi avversi (es. ictus, infarto, ecc.); f) contribuzione delle spese per l’attivazione di convenzioni per asili nido ove non presenti in azienda.
Certamente, in linea con il settore privato e con soluzione di continuità rispetto all’esperienza pregressa delle pubbliche amministrazioni, si assiste ad una forte incentivazione dello strumento contrattuale, del resto promosso al riguardo dal Patto del marzo 2021, per il quale «6. Le parti concordano inoltre sulla necessità di implementare gli istituti di welfare contrattuale, anche con riguardo al sostegno alla genitorialità con misure che integrino e implementino le prestazioni pubbliche, le forme di previdenza complementare e i sistemi di premialità diretti al miglioramento dei servizi, estendendo anche ai comparti del pubblico impiego le agevolazioni fiscali previste per i settori privati a tali fini».
In tale ambito, il dato di interesse sviluppato dalla contrattazione nazionale, consiste nell’opportuno ed integrale rinvio che il CCNL fa alla contrattazione collettiva integrativa, sia con riguardo alla scelta degli strumenti, sia con riguardo ai criteri di accesso ai benefici: si tratta cioè di materia interamente demandata alla contrattazione di secondo livello, rispetto alla quale non è indifferente il ruolo istruttorio svolto in sede di partecipazione sindacale, sia attraverso le procedure di «Informazione», sia attraverso l’attività degli «Organismi paritetici per l’innovazione», che, laddove costituiti, proprio su questi temi, si occupano stabilmente di instaurare «relazioni aperte e collaborative su progetti di organizzazione e innovazione, miglioramento dei servizi, promozione della legalità, della qualità del lavoro e del benessere organizzativo…» .
Il carattere di sistema è che, diversamente dal settore privato, l’amministrazione non può unilateralmente costruire un piano di welfare aziendale, che tenga conto dello sviluppo dell’ente, del tipo di organizzazione del lavoro, delle evoluzioni delle esigenze familiari e professionali del personale, in quanto nel settore pubblico, ratione materiae, il collegamento tra pubblica amministrazione e welfare aziendale è dato unicamente dalla contrattazione collettiva (nazionale e integrativa), con i limiti da questa derivanti, a pena di nullità delle (diverse) previsioni introdotte al secondo livello. Ciò costituisce probabilmente una rigidità, perché, al di là del dato finanziario, le amministrazioni non possono adattare il modello alle specifiche esigenze della popolazione dipendente, variabili nella dimensione temporale e territoriale di riferimento.
Particolare importanza rispetto alle finalità qui osservate, assume tuttavia il carattere universale dei trattamenti, nel senso che essi interessano la generalità dei dipendenti a tempo indeterminato, determinato (con spese ammissibili solo se sostenute nel periodo di effettivo servizio), pieno, parziale, in comando (a condizione che non usufruiscano di analoghi contributi da parte dell’amministrazione presso cui sono comandati) ed anche dei dirigenti.
Per lo più, fino a questo momento, si è però trattato della perpetuazione di misure storiche, aventi la tipica natura di sussidi, in ragione della difficoltà di instaurare nuovi percorsi in un sistema connotato da una indubbia carenza di risorse. Le ragioni sono da ricercare infatti nella difficoltà per le pubbliche amministrazioni di stanziare risorse economiche per il welfare aziendale; si è dunque proceduto sulle base delle previsioni di spesa storiche, già consolidate dall’amministrazione per le medesime finalità o previste da norme di legge.
La novità, che appare confermata in alcuni comparti, è quella della possibilità (Funzioni centrali) o addirittura dell’obbligo (Sanità) di finanziare il welfare aziendale con le risorse del fondo per la retribuzione di risultato o meglio per i trattamenti accessori .
Si innestano qui una serie di criticità, perché se il finanziamento del welfare integrativo delle pa deve essere alimentato dalle risorse del fondo per la contrattazione integrativa, qui in assenza di limiti, stante la nominata natura latu sensu previdenziale e non retributiva dei trattamenti , l’erogazione dei benefici può trovare limitazione nelle scelte della contrattazione integrativa proprio in relazione alle quote di fondo investite sui trattamenti di performance, innescando potenziali conflitti di ordine sindacale e nel rapporto con i dipendenti rappresentati: in sostanza, si tratta di stabilire, in relazione ai “bisogni” espressi dalla popolazione dipendente, quanta parte del fondo trasferire sul welfare, privando così proporzionalmente di risorse altre parti del trattamento accessorio, dai differenziali stipendiali orizzontali ai trattamenti di risultato.