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Partiamo da lontano. Dal tuo periodo di formazione nella facoltà giuridica padovana 

Naturalmente è a Padova e alla sua Università che devo la mia formazione, prima quella generale di base (classica) e poi quella giuridica. Ma penso che abbia contribuito, ovviamente in senso diverso, anche il periodo iniziale della mia vita: periodo che – pur essendo di famiglia veneta – ho trascorso nella bilingue Bolzano e che ha lasciato una certa impronta nel mio carattere, piuttosto schivo e riservato, com’è proprio degli altoatesini. Fra i ricordi di allora resta particolarmente nitido, poi, quello dell’anno che, lasciata Bolzano, passai a Innsbruck, frequentando la terza media tedesca e senza certo immaginare che, più di quarant’anni più tardi, avrei insegnato diritto nella locale Università.  

Ma veniamo a Padova e al suo glorioso ateneo, in Italia secondo per età solo alla tua Alma Mater bolognese. Che poi, a dirla tutta, l’università patavina si è formata più di ottocento anni fa per iniziativa di un nutrito gruppo di docenti e di discepoli dell’ateneo bolognese fuoriusciti da quest’ultimo perché non sentivano adeguatamente protetta la loro libertà. Non a caso il motto che ha sempre contraddistinto la mia università è universa universis patavina libertas, che è al contempo affermazione di libertà e messa a disposizione della stessa, tutta intera (universa) e per tutti (universis). Ed è in questo clima di libertà – garantito dalla Serenissima veneziana – che per diciott’anni, a cavallo tra XVI e XVII secolo, insegnò Galileo e che Elena Lucrezia Cornaro Piscopia fu la prima donna al mondo a conseguire la laurea. 

La storia dei giuristi dell’Università di Padova (che nacque proprio come universitas iuristarum) è stata, nel secolo scorso, una storia illustre. Nella prima metà del secolo passarono per Padova figure di spicco come Francesco Carnelutti, Vittorio Polacco, Adolfo Ravà, Donato Donati, per un breve periodo Tullio Ascarelli, e soprattutto Francesco Santoro Passarelli, che vi insegnò per ben un decennio, dal 1932 al 1942, fondando una scuola civilistica di prestigio, prima con Luigi Cosattini, che però morì durante la guerra, e poi soprattutto con Luigi Carraro, che, come poi dirò, fu il mio relatore all’esame di laurea. 

Fra gli anni ’50 e gli anni ‘80 la Facoltà di Giurisprudenza annoverava docenti di grande levatura. Di alcuni non ho avuto esperienza diretta, come Vezio Crisafulli e Giorgio Oppo (che giusto l’anno in cui ero matricola fu chiamato alla Sapienza romana). Gli altri sono stati tutti miei docenti, come i romanisti Pasquale Voci e Alberto Burdese, l’internazionalista Gaetano Arangio Ruiz, il penalista Giuseppe Bettiol, l’amministrativista Enrico Guicciardi, il filosofo del diritto Enrico Opocher; e soprattutto i due civilisti del vecchio Istituto di diritto privato, Alberto Trabucchi e il già ricordato Luigi Carraro. 

L’Istituto fu diretto da Trabucchi – in modo autorevole ma anche un poco autoritario – dagli anni ’50 fino al suo pensionamento nel 1982. Carraro lo lasciò fare, dedicandosi, oltre che agli studi, anche alla politica. Trabucchi, autore del fortunato manuale di Istituzioni di diritto civile, era soprattutto un giurista di grande sensibilità empirica: buona parte del suo insegnamento di diritto civile si basava sulla discussione in aula di casi pratici, e sono tante le generazioni di laureati e avvocati veneti che nel tempo hanno ricordato l’efficacia di quelle lezioni. Conservo ancora una copia del suo libretto di casi “Quid iuris?” con la dedica “A Carlo Cester, anche se laburista”: per lui il diritto del lavoro era una colpa! Ma non mancava certo di visione del futuro, in particolare quanto alla scommessa europea che da poco era stata lanciata. Fu uno dei primi giuristi ad occuparsi attivamente, in ruoli istituzionali, di quel diritto in via di formazione, ricoprendo per molti anni la posizione prima di giudice e poi di avvocato generale presso la Corte di Giustizia. Carraro, dal canto suo, era un giurista assai raffinato, padrone assoluto del tradizionale metodo giuridico che oggi chiameremmo dogmatico, degno allievo, come ho già detto, di Francesco Santoro Passarelli e creatore di una scuola di notevole spessore; capace, però – anche in ragione degli interessi politici coltivati – di calarsi in problemi socialmente impegnativi, come fece, in piena sintonia con Trabucchi, allorché nel 1974 si batté, peraltro senza successo, per l’abrogazione della legge istitutiva del divorzio.

E il diritto del lavoro? 

Hai ragione, ora ci arrivo. Parto ancora da lontano. Nel periodo padovano di Santoro Passarelli uscirono a suo nome delle dispense litografate di Legislazione del lavoro, datate 1936 ed etichettate come “Corso di coltura per funzionari sindacali”, che trattavano in larga prevalenza del rapporto di lavoro e che potrebbero essere considerate l’anteprima delle celebri Nozioni di diritto del lavoro. Ma il passaggio dal sistema corporativo del lavoro a quello della nostra Costituzione fu gestito a Padova, all’inizio e per incarico, non dai civilisti (come in diverse altre sedi universitarie), ma da un costituzionalista, Carlo Esposito. Fu dopo il suo trasferimento a Roma che il diritto del lavoro entrò nel perimetro del diritto civile e fu assegnato, per incarico, a Luigi Carraro, che lo tenne per quasi vent’anni, fino al 1969. Ricordo ancora le sue lezioni sullo sciopero e sulla indisponibilità della pretesa da parte del datore di lavoro in caso di finalità non contrattuali: tesi che non mi convinceva nella sostanza ma che era argomentata con grande rigore. Carraro mi aveva conquistato già come docente di Diritto privato – con delle bellissime lezioni sul negozio giuridico – e perciò decisi di chiedergli la tesi. Il fatto è che vi era un patto non scritto fra lui e Trabucchi (presumo imposto da quest’ultimo), per cui chi avesse voluto laurearsi con Carraro, doveva per forza farlo nella materia dallo stesso insegnata per incarico, cioè in Diritto del lavoro e non in diritto privato. Questo allora fu per me il primo, vero contatto con la nostra amata materia. Da meno di due anni era stata approvata la legge del 1966 sui licenziamenti individuali (scorporata da un più ampio progetto di statuto dei lavoratori) e il quadro sociale e politico cominciava a farsi “caldo”. Mi fu assegnato però un tema piuttosto teorico: quello della natura giuridica del potere direttivo, e fu Marcello De Cristofaro a seguirmi nella preparazione della tesi. Fu allora che iniziai a confrontarmi con il pensiero di Giuseppe Suppiej, che qualificava il potere direttivo come una potestà (teoria che però allora non seguii). 

Dopo la laurea nel luglio del 1968, mi fermai nell’Istituto di diritto privato come assegnatario di borse di studio di varia natura e poi di vari contratti. Il mio precariato durò diversi anni, in coincidenza con un lungo periodo nel quale nell’Istituto non fu bandito alcun concorso per posti di assistente; posto che mi guadagnai con un certo ritardo. 

Nel 1969 Carraro lasciò l’incarico di Diritto del lavoro e passò il testimone di professore incaricato a Suppiej, il primo allievo giuslavorista di Santoro Passarelli alla Sapienza, che, dopo il periodo dello straordinariato a Sassari si era trasferito a Verona (che allora era ancora sede staccata dell’Università di Padova). L’anno dopo, nel 1970, Suppiej fu chiamato alla nuova cattedra di Diritto del lavoro, cattedra che ricoprì fino all’uscita dal ruolo, nel 1999. 

Conobbi Suppiej nel 1969: mi diede subito una sentenza da annotare e mi suggerì di approfondire il tema con un articolo. Ma nella primavera del 1970 dovetti partire per il servizio militare, prima per il corso sottufficiali e poi, per un anno, a Bologna, dove la scuola giuslavoristica di Federico Mancini era – così immaginavo – in pieno fermento “statutario”. Ma la libera uscita dei militari cominciava verso sera e il resto lo fece il mio carattere: non provai nemmeno ad intrecciare qualche rapporto, e di ciò mi è rimasto sempre un certo rammarico. 

Come è stato il tuo periodo di assistente? 

Non è stato, all’inizio, particolarmente esaltante. Il rapporto con Suppiej era decisamente buono ma al tempo stesso un po' freddo, forse perché entrambi avevamo un carattere non molto empatico. 

C’era poi, all’inizio, una notevole concorrenza, nell’Istituto, da parte di persone che si occupavano di diritto del lavoro, anche se un poco alla volta se ne andarono. De Cristofaro, vinto il concorso a cattedra del 1975, si incardinò a Verona e lì rimase fino alla fine della carriera. Con me si fermò Marco Tremolada, di qualche anno più giovane. Devo dire che in quel periodo non ero ben sicuro di quale sarebbe stato il mio futuro, e infatti cominciai a praticare la libera professione con una certa assiduità. 

C’è comunque una cosa che, anche se marginale, ricordo con piacere: l’esperienza del sindacato, la Cisl Università, che fondammo a Padova in un piccolo gruppo, del quale facevano parte, fra gli altri, il civilista Paolo Zatti, il filosofo del diritto Giuseppe Zaccaria, oltre a qualche collega di medicina e di fisica. Ricordo le visite “pastorali” che ogni tanto faceva l’allora segretario nazionale della Cisl Università Luigi Frati, il futuro rettore della Sapienza. E fu questa militanza sindacale che mi agevolò anche nell’attività professionale, perché presto divenni il legale del patronato Inas della Cisl e poi, pur ovviamente non da solo, dell’Ufficio vertenze della Cisl medesima. Di una Cisl, è il caso di notare, allora particolarmente combattiva e vivace, e piuttosto diversa da quella attuale.  

All’interno della facoltà di giurisprudenza il clima era piuttosto vivace, anche per la presenza di gruppi contrapposti. C’era, fra gli assistenti, una forte componente conservatrice, di destra, alla quale si andavano contrapponendo posizioni che in realtà erano assai moderate (Toni Negri e la galassia dell’Autonomia, infatti, erano a Scienze politiche), ma comunque “democratiche”. Anche se, va detto, spazi democratici era piuttosto difficile aprirli, perché il corpo docente era, come ho detto, di grande prestigio scientifico, ma piuttosto chiuso in sé stesso e nelle proprie prerogative. Ci fu, a riguardo, una vicenda che portò scompiglio in Facoltà. Un assistente che aveva presentato domanda per il conferimento di un incarico (naturalmente di materia complementare, come allora si diceva) forte dei provvedimenti urgenti del 1974 (che avevano privilegiato gli assistenti ordinari nell’attribuzione degli incarichi), si vide ciononostante respingere la domanda. Poco dopo, comparve in facoltà un manifesto (non si è mai saputo per iniziativa di chi) con la sarcastica scritta “Teoria del diritto e pratica dell’abuso”. I professori non la presero bene. 

Il mio rapporto con Suppiej, col passare del tempo, si fece sempre più disteso. Apprezzavo in lui, dietro una apparente rigidità, grandi doti umane e la capacità di stimolarmi a migliorare senza farmelo pesare. Ricordo che lui – da Verona si era trasferito a Venezia nella grande casa paterna vicino al Ponte di Rialto – molto spesso, per i ritardi dei treni, non riusciva ad arrivare puntuale per la lezione delle dieci. Io avevo il compito di cominciare la lezione, e fin qui, niente di speciale. Il fatto è che, una volta arrivato, andava a sedersi sui banchi fra gli studenti e aspettava che finissi l’argomento, il più delle volte l’intera lezione. Avevo momenti di panico, ma un po' alla volta capii il valore formativo di quel metodo. Del resto, questo era il suo sistema: quello di “costruire” il corso per gli studenti con l’attiva partecipazione dei collaboratori (spesso ci interrogava durante la lezione), come con lui aveva fatto Santoro Passarelli, che voleva presenti a lezione tutti i suoi assistenti. E così, accanto alle discussioni personali sui singoli argomenti di ricerca (che affrontava con noi allievi dopo che ci eravamo chiariti le idee: voleva prima “il dattiloscritto”), c’era il corso di lezioni, cioè il quadro generale. Forse fu anche in virtù di ciò che non fu difficile predisporre, a doppio nome, due ampi e impegnativi lavori di carattere generale: la voce “Lavoro subordinato” per il Nuovissimo Digesto Italiano e la voce “Rapporto di lavoro” per il Digesto Commerciale, che gli erano state affidate. Della stesura dei due lavori mi occupai soltanto io, ma gli stessi erano frutto – anche e soprattutto – della sua visione più ampia della materia. E quando, in modo un poco impertinente, quasi mi lamentai che lui non avesse scritto nulla, mi rispose (garbatamente) che ci aveva messo la firma.

Quello che mi mancò in quel periodo furono i contatti con le altre scuole. Ma l’impostazione di tutto l’Istituto di diritto privato era piuttosto autoreferenziale: che mi ricordi, di convegni ne furono organizzati solo in occasione della riforma del diritto di famiglia del 1975 e, due anni prima, in occasione della nuova disciplina delle controversie di lavoro; i progetti di ricerca comuni erano di là da venire. C’erano solo le riunioni periodiche della direzione della Rivista di diritto civile, che erano occasione per vedere da vicino, nel corridoio dell’’Istituto, alcuni mostri sacri del diritto, da Oppo a Minervini, da Scognamiglio ad Allorio, fino a Rescigno. Oggi i convegni letteralmente dilagano, ma la sobrietà di quei tempi era davvero eccessiva. Va da sé che in occasione dei convegni annuali dell’Aidlass noi padovani ce ne stavamo spesso in disparte e che non fu facile allacciare rapporti con le altre scuole (a tale riguardo, però, voglio ricordare la grande affabilità di Mario Napoli).

Ma il senso di appartenenza alla scuola per me è stato sempre forte.

Anche io ho un ricordo bellissimo del Prof. Suppiej, che fu attento lettore della mia tesi di dottorato e che mi dimostrò grande disponibilità incoraggiandomi subito dopo a pubblicare la mia prima monografia. In quegli anni (1983-86) ci conoscemmo a Padova dove il Prof. Suppej mi riceveva presso la Vostra Facoltà 

Ricordo anch’io come ci conoscemmo, durante le tue trasferte padovane per discutere la tesi di dottorato, tesi che avresti poco dopo sviluppato nella tua prima, pregevole monografia. In effetti, Suppiej era molto disponibile al dialogo (anche se, come ho detto prima, bisognava portargli il dattiloscritto) e buon dispensatore di consigli preziosi. Era un giurista assai raffinato (più santoriano di Santoro, come ebbe a dirgli Gino Giugni, e Suppiej giustamente lo prese come un lusinghiero complimento), metodologicamente rigoroso, ma al tempo stesso molto attento ai valori espressi dalle norme e ai princìpi ispiratori delle stesse, primo fra i quali quello della dignità dell’uomo che nel lavoro impegna il proprio essere: principio che egli ha sempre collocato al di là e al di sopra delle ideologie, nel solco della Costituzione e, tutt’al più, del solidarismo cristiano-sociale. Aveva poi – come ho sottolineato nelle occasioni in cui lo abbiamo ricordato – la capacità di dedurre conclusioni originali e innovative da ragionamenti logici basati sul metodo interpretativo più rigoroso, in tal modo spiazzando tutti: come nel saggio sulla modifica delle mansioni in base allo Statuto dei lavoratori, modifica che egli ricondusse al necessario consenso fra le parti, con abolizione dello ius variandi; o come nel saggio sul lavoro interinale, che egli chiamò sarcasticamente “interposizione brevettata”.

Molto ci sarebbe da discutere (e molto ho discusso con lui, più volte non trovandomi d’accordo) sulla sua costruzione dell’interesse oggettivo dell’impresa e sulla posizione del datore di lavoro come titolare di una potestà, cioè di un potere conferitogli per la tutela non di interessi personali ed egoistici, ma di un interesse più ampio, partecipato anche da altri soggetti. Tuttavia, nonostante la famosa nota di Giovanni Tarello sulle ideologie dei giuslavoristi relative (anche) al rapporto individuale di lavoro – nota nella quale Suppiej fu etichettato come paternalista – quella ricostruzione non manca certo di attualità, specie in quelle situazioni, sempre più frequenti, nelle quali la sopravvivenza delle imprese è un necessario bene di tutti; e la teorizzazione di un interesse oggettivo può servire a gettare le basi per quella responsabilizzazione dell’impresa anche sul piano sociale che può costituire l’avamposto per un suo efficace posizionamento nel quadro costituzionale.

Ma torniamo al tuo percorso, e al concorso a cattedra del 1985 

Venne prima l’idoneità a professore associato, in seguito alla quale fui chiamato alla Facoltà di giurisprudenza patavina: operazione che Suppiej gestì con grande abilità, visto che la Facoltà di quei tempi non aveva ancora metabolizzato l’introduzione della nuova figura di professore di seconda fascia. Mi fu affidata la materia della previdenza sociale: una materia che non era mai stata oggetto di insegnamento autonomo in Facoltà e che da tempo non era presente neppure nel programma dell’esame di diritto del lavoro. Anche forte dell’esperienza professionale con il patronato sindacale, dedicai molto impegno al nuovo corso, combinando quell’esperienza con l’impostazione teorica tratta dal mirabile manualetto di Mattia Persiani. Ho tenuto quell’insegnamento, per incarico dopo la chiamata a Trieste come professore straordinario, fino al 2005, quando ho passato il testimone al mio primo allievo, Riccardo Vianello.  

Ma veniamo al concorso del 1985: un concorso per ben 18 posti, che si portava dietro le ruggini di quello precedente, nel quale parecchi posti non erano stati assegnati. Io, con la monografia sull’unità produttiva e una provvisoria sul potere dispositivo delle associazioni sindacali, presentai domanda. Suppiej, anche se non voleva sentir dire che un professore fosse impegnato a “portare” qualcuno al concorso, aveva il suo primo allievo del periodo sassarese Marino Offeddu (trasferitosi con lui a Verona) che era pronto. Ma Marino, con il quale avevo un ottimo rapporto, si ammalò gravemente e nel giro di pochi mesi se ne andò, prima della conclusione della procedura del concorso. Alla fine, risultai fra i vincitori, fra i tre che la cosiddetta minoranza della commissione era riuscita a far passare. Ma nel complesso era una bella compagnia, ed è davvero triste constatare che quasi la metà – e già da diverso tempo (a parte Gigi Mariucci, di recente portato via dal Covid) – non c’è più, anche per circostanze tragiche, com’è stato per Marco Biagi, e non solo. 

Raccontami del tuo periodo triestino come professore ordinario 

La ricerca della sede dove farsi chiamare non fu particolarmente lunga. Alla fine, rimase circoscritta fra Venezia e Trieste (sempre nelle facoltà di economia). Gigi Mariucci (che era stato l’unico, nel concorso, ad ottenere il voto unanime della commissione) fu chiamato a Venezia, e io a Trieste.  

L’approccio non si presentava dei più facili, perché a Trieste la cattedra era stata bandita scommettendo sulla vittoria del candidato locale, che non riuscì ad ottenerla, e il rischio di non risultare gradito non era di poco conto. Ma i timori si rivelarono del tutto infondati. Michele Miscione, che ancora non conoscevo personalmente, mi accolse con una gentilezza e una signorilità straordinarie, e diventammo subito amici. Con lui è stata, ed è tuttora, un’amicizia davvero intensa, cementata dai viaggi in macchina da Padova (lui arrivava in treno da Bologna) a Trieste e ritorno, e dalle passeggiate serali sul lungomare della città. Michele era per me, in quei momenti, una inesauribile fonte di informazioni: discuteva ed era sempre aggiornato su tutto, dall’ultima giurisprudenza all’ultima circolare Inps, fino alle ordinarie vicende dell’accademia. 

Ma l’intero ambiente triestino – sia quello della Facoltà di economia, sia quello dell’Istituto di diritto del lavoro di giurisprudenza – mi accolse benissimo, in modo direi familiare. Rimasi un po' sorpreso che tutti si dessero del tu, anche con il personale non docente: abitudine, questa, ben diversa da quelle, austere, della facoltà patavina. Al tempo stesso, però, mi sentii trattato davvero come professore. Risale ad allora la conoscenza anche di Marina Brollo (laureata da non molto) e di Gigi Menghini, già professore associato a giurisprudenza; conoscenza che diventò presto una bella amicizia. Con Gigi l’amicizia si allargò alle rispettive consorti, ci vedemmo più volte anche in vacanza; e quando non molto tempo fa Gigi, rimasto vedovo, si è sposato nuovamente, ha chiesto a me e a mia moglie di fargli da testimoni. 

Quando arrivai a Trieste, Cecilia Assanti era appena stata nominata al Consiglio Superiore della Magistratura, e nei primi quattro anni la incontrai solo poche volte. Al suo rientro, con lei si instaurò un rapporto decisamente collaborativo (negli ultimi anni, ci facemmo anche promotori del dottorato congiunto fra Padova e Trieste). Cecilia non era una persona facile, era molto rigida – prima di tutto con sé stessa – ed aveva dei percorsi mentali non semplici da seguire, perché la sua vivace intelligenza la portava a saltare diversi passaggi argomentativi – nel colloquio con le persone così come negli scritti giuridici – per arrivare a espressioni e a conclusioni sempre originali, anche se comunque rigorose. Spiace però constatare che nella letteratura di oggi sia del tutto dimenticata, nonostante taluni suoi contributi conservino sicura attualità, com’è sempre delle opere di respiro intellettuale Mi ricordo quando venne nel mio piccolo studio della Facoltà di economia per comunicarmi che sarebbe andata anticipatamente in pensione, e per chiedermi se fossi disponibile a prendere il suo posto nella Facoltà di giurisprudenza. Ne fui onorato e ovviamente accettai, anche se non durò molto, perché dopo soli due anni rientrai a Padova. 

Del periodo triestino ho un ricordo molto intenso, come del periodo nel quale – credo – ho completato la mia maturazione e mi sono aperto ad esperienze molto stimolanti. L’ambiente, del resto, era davvero ricco e vivace. Pensa che, ad un certo punto, i lavoristi a Trieste, fra la facoltà di giurisprudenza e quella di economia, erano Cecilia Assanti, Antonio Vallebona, Gigi Menghini, Michele Miscione, Carlo Pisani, oltre a me; come ricercatori, Marina Brollo e (all’inizio degli anni ’90) un certo Riccardo Del Punta. Davvero una bella squadra! 

.. e del tuo rientro a Padova 

A Trieste sono rimasto dal 1986 al 1999, peraltro conservando, come ho detto, l’incarico di previdenza sociale nella facoltà patavina. E questo indubbiamente facilitò il mio ritorno allorché Suppiej, giusto al finire del secolo, andò fuori ruolo e mi propose come suo successore.

Quella scelta rafforzò il rapporto personale con il mio Maestro, rapporto che si fece sempre più familiare, di una familiarità di stampo quasi paterno. Non condividevo talune sue idee e, per essere sincero, mi sembrava, ma non solo da allora, un po’ troppo a destra politicamente. Ma, oltre all’affetto personale, la condivisione del metodo – il punto di vista giuridico, per dirla con Mattia Persiani – era un collante di grande rilievo e un comune terreno di confronto.

I diciassette anni finali di carriera nella mia facoltà di origine li ho vissuti molto intensamente, un po’ su tutti i versanti. A cominciare da quello didattico (ad un certo punto mi sono trovato in carico quattro corsi), per passare a quello della produzione scientifica, perché quello è stato il mio periodo più prolifico; per finire con quello organizzativo, che già allora assorbiva non poco (anche se è da qualche tempo che sembra diventato assolutamente eccessivo). Non voglio certo farmene vanto, non è nel mio carattere. Voglio solo dire che non mi sono risparmiato, cercando, con non poca fatica, di combinare poi quell’impegno con una attività professionale non marginale.

La scuola padovana di Suppiej, soprattutto nel secolo scorso, non è stata, forse, particolarmente numerosa (quanto al merito, non spetta a me esprimere giudizi). Con me c’era Marco Tremolada, già ricordato, che però per molti anni ha viaggiato per l’Italia, prima a Trento, poi (dopo la vittoria nel concorso a professore di prima fascia) a Catanzaro e poi nuovamente a Trento; con lui, quando non eravamo impegnati in trasferta, ho studiato, lavorato e discusso di diritto per tanti anni nella stessa stanza. Poi è venuta Adriana Topo, allieva di Suppiej, che ora guida il gruppo, e poi il mio primo allievo (previdenzialista) Riccardo Vianello. Anche Barbara de Mozzi e Elena Pasqualetto le considero come mie allieve (spero che loro siano d’accordo), nonostante entrambe si siano laureate con Suppiej (Barbara credo addirittura nell’ultima sessione utile); e poi Andrea Sitzia e Silvia Bertocco (che però è stata allieva di Tremolada). Maria Giovanna Mattarolo era a Scienze politiche. Purtroppo, la grande difficoltà di offrire una qualche prospettiva concreta di inserimento all’università – ma non credo che Padova fosse un’eccezione – ha impedito alla scuola di allargarsi con l’ingresso di nuove forze, che pure ci sarebbero state, eccome, anche di ottimo livello. E non mi pare che, a distanza ormai di anni (anche Tremolada, ritornato a Padova nei primi anni del nuovo secolo, è andato in pensione da diverso tempo), la situazione sia molto cambiata.

È poi del periodo (finale) patavino la mia collaborazione con l’Università di Innsbruck, per lo speciale corso di laurea per studenti altoatesini, istituito in base ad una convenzione stipulata dall’Università di Padova negli anni ’70. Ci ho insegnato per quasi vent’anni (anche oltre il pensionamento), tenendo un corso completo lungo tutto l’anno. A Innsbruck sono particolarmente affezionato, sia per esserci vissuto da ragazzino (come sopra ho detto), sia per averla frequentata nella parte finale della carriera.  E ho costruito (e conservato) rapporti di amicizia, come in particolare con Bernhard Eccher, il civilista.    

Veniamo al tuo rapporto con la nostra materia

La domanda è impegnativa, perché costringerebbe a ripensare il senso del lavoro di una vita. Ma in un certo senso è anche semplice, perché vorrei provare a rispondere non già rimeditando e ripercorrendo il diritto del lavoro e le sue molteplici stagioni (che sarebbe impossibile in questa sede), ma cercando di cogliere i punti di incontro fra la materia e le mie sensibilità non solo di giurista, ma anche di persona.

Appartengo alla generazione che si è formata sullo Statuto dei lavoratori e che ha vissuto quella legge (la considerazione è del tutto scontata) come il segno di un profondo cambiamento rispetto a un quadro normativo generale statico, incapace di interiorizzare davvero la svolta costituzionale e ancora tarato sulle poche norme del codice civile, ispirate ad un mix di collaborazione e autorità sul piano individuale, e, sul piano collettivo, caratterizzate da una quasi totale inapplicabilità. Talvolta mi viene da pensare alla mirabile capacità di parte della dottrina degli anni ’50 e ‘60 di rivitalizzare quel quadro normativamente povero e di coglierne potenzialità che sembravano nascoste, nella dimensione contrattuale tanto individuale quanto collettiva. Con lo Statuto, però, il salto di qualità era sembrato davvero clamoroso a chi come me si era appena avvicinato alla materia, tanto che mi pareva quasi incomprensibile l’originaria contrapposizione fra l’anima garantista dei diritti individuali della prima parte della legge e l’anima promozionale del sindacato della seconda, come se entrambe, in fondo, non fossero espressione dello stesso disegno: quello di una globale risistemazione degli equilibri di potere all’interno di una delle relazioni sociali più tipiche. E ad attrarmi fu proprio la dimensione “diseguale” del diritto del lavoro, che trovava la sua giustificazione nel programma “rivoluzionario” del secondo comma dell’art. 3 della Costituzione, una norma che mi dà ancora emozione ogni volta che la ripenso (e me la dava ogni volta che la leggevo con gli studenti). Il fascino della materia – un “diritto secondo” quasi ribelle rispetto al diritto civile e comunque capace di conquistarsi una sua peculiare autonomia – per me si traduceva soprattutto nella capacità di iniettare nel contesto giuridico spunti di realtà sociale capaci di orientarlo e di condizionarlo, così da riadattare la stessa nozione di eguaglianza. Ed è così che il diritto del lavoro – come la stessa dottrina civilistica ha pur dovuto ammettere – ha funzionato da apripista per la tutela del contraente debole nel diritto “primo”.

Mi dirai che sono cose ormai scontate, ma agli inizi lo erano certamente molto di meno. In quella stagione si aprì poi un vivace e contrastato dibattito sull’interpretazione della norma giuridica, sul ruolo del giudice, e, più in generale – per richiamare la vivace rivista di Stefano Rodotà – sulla politica del diritto. Io non mi lasciai sedurre allora dalle sirene del diritto cosiddetto alternativo, ma l’idea, propria della dottrina più tradizionale, che il giurista potesse e dovesse rimanere insensibile alla realtà sociale, mi sembrava inaccettabile. Tanto più inaccettabile per il giurista del lavoro.

Così ho sempre pensato, anche quando ho riflettuto preparando la relazione all’Aidlass sull’inderogabilità delle norme giuslavoristiche: inderogabilità che è al contempo tecnica di regolazione ed espressione di scelte valoriali necessariamente aperte alla realtà sociale. E così continuo a pensare anche in questa più recente stagione del diritto del lavoro.

In questa prospettiva si colloca, nel mio approccio alla materia, il tema dei valori della persona, cioè del lavoratore come persona che spende sé stesso nel rapporto. Un tema, questo – certamente scontato nell’enunciazione astratta ma sempre problematico nella sua variegata attuazione – nel quale ho sempre trovato punti di contatto fra la visione propria della sinistra storica e la visione cattolica cosiddetta progressista, dalla quale ultima provengo. Mi dirai che è una banalità, e forse hai ragione. Ma è anche vero che il problema non finisce qui, perché occorre individuare, per quanto possibile, gli ambiti entro i quali la tutela dei valori della persona è costituzionalmente e inderogabilmente imposta, per separarli da quelli nei quali gli strumenti protettivi possono essere diversi e articolati. Qui, allora, si colloca il difficile tema, da tempo sul tappeto in ragione delle crisi economiche pressoché permanenti, delle deroghe e dei meccanismi di controllo delle stesse. Qui, ancora, trova spiegazione il serrato dibattito di questi ultimi anni sulla disciplina rimediale dei licenziamenti illegittimi, sospeso fra una sorta di implicita o sotterranea costituzionalizzazione propugnata da alcuni e una pragmatica (troppo pragmatica?) “laicizzazione” sostenuta da altri. Qui, a ben guardare, si pone anche lo spinoso problema della qualificazione della fattispecie del lavoro subordinato, con tutto ciò che ne deriva sul piano delle tutele e dei rimedi.

Certo, l’inderogabilità è andata almeno parzialmente in crisi, e con essa uno dei parametri portanti dello Statuto. Ma a me pare che essa costituisca sempre il punto di riferimento, anche solo per calmierarne lo scostamento.

Quello, insomma, è ancora il cuore della disciplina, con le sue fughe in avanti, i suoi arresti e i suoi adattamenti, recentemente sempre più problematici (alludo alla destrutturazione spazio-temporale, alla quale è stato dedicato un recente convegno dell’Aidlass). E al centro c’è sempre la discussione sulla persona, in un diritto che per la tutela di quest’ultima si fa diseguale: è su questa lunghezza d’onda che la mia sensibilità personale è sempre stata coinvolta. In ragione di ciò non mi convincono certe recenti (e pur brillanti) ricostruzioni che hanno (ri)messo al centro dell’attenzione il sistema dell’impresa, e che, partendo dal suo riconoscimento e dalla sua valorizzazione costituzionale, finiscono per considerarlo preminente. Perché se è vero che il nostro resta un sistema di produzione capitalistica, con tutto ciò che ne deriva dal punto di vista dei rapporti giuridici che lo sorreggono, è anche vero che, alla fine, la gerarchia dei valori non può essere facilmente sovvertita. Credo si capisca, da quanto detto, che la lettura in chiave economica del diritto del lavoro (che peraltro confesso di non aver mai approfondito davvero) non mi persuade. Per essere più precisi, leggendo Pietro Ichino (e Riccardo Del Punta) mi lascio trasportare, perché si tratta di una lettura non solo affascinante, ma anche provvista di notevole rigore logico. Ma quando si arriva al dunque, cioè alla soluzione (per lo più “eclettica”), per me è come svegliarmi da un sogno, per poi rendermi conto che nella realtà non può essere solo così, e che nel diritto ci deve essere un’anima; e magari, per dirne una, che il contenuto assicurativo del contratto di lavoro non sempre spiega e compensa il senso del coinvolgimento personale del lavoratore.

Vuoi parlare dei tuoi temi preferiti di ricerca?

Ho privilegiato in modo deciso quelli relativi al rapporto individuale di lavoro. Al diritto sindacale, come ho sopra ricordato, ho dedicato una monografia sul potere dispositivo delle associazioni sindacali e sulle transazioni collettive, stampata in forma provvisoria, anzi parziale, che però tale è rimasta; e mi sono poi occupato anche di temi previdenziali. Ma è al contratto e al rapporto che ho dedicato la gran parte della mia attenzione. Anzitutto con la prima monografia, sull’unità produttiva: una ricerca partita da un approfondimento in ordine al campo di applicazione dello Statuto dei lavoratori, e poi allargata alla ricostruzione di un concetto più generale sulle articolazioni organizzative e sulla rilevanza qualificatoria del comando sul lavoro ai fini della loro identificazione. Di particolare impegno, poi, è stata per me la scrittura del contributo – in realtà anch’esso una monografia – al Commentario al codice civile diretto da Schlesinger e Busnelli con oggetto il primo comma dell’art. 2104 c.c. sulla diligenza del prestatore di lavoro: tema particolarmente ostico – la “zona alpina” del diritto delle obbligazioni, diceva Luigi Mengoni – che spero di essere riuscito a semplificare, nei due ambiti fra loro interconnessi della diligenza come criterio valutativo dell’adempimento della prestazione (e non come criterio di integrazione del contenuto della stessa) e del giudizio di responsabilità.

Della relazione Aidlass sull’inderogabilità già ho detto. Le ricerche rimanenti, dopo diversi contributi sul trasferimento d’azienda, hanno avuto ad oggetto l’argomento che mi ha impegnato (e attratto) maggiormente: i licenziamenti. In particolare, molte energie ho speso (ad una certa età la ricerca, quando è anche quantitativamente rilevante, è faticosa, e la redazione delle note comincia a pesare) per scrivere, in 400 pagine, il capitolo del Trattato Cedam Persiani-Carinci sulle tutele in caso di licenziamento illegittimo. Con un aggravio di fatica, perché – partito con l’art. 18 dello Statuto nella versione precedente – mi sono trovato a dover rivedere tutto dopo la l. n. 92/2012, per poi aggiornare una parte significativa del contributo in seguito al Jobs Act. Dopodiché, ho commentato praticamente tutte le sentenze della Corte costituzionale in materia.

Non intendo certo entrare qui nel merito di un dibattito particolarmente acceso e politicamente polarizzato. Ma solo per riprendere il filo del discorso prima abbozzato, vorrei evidenziare come su questo tema – il livello di tutela rimediale del licenziamento illegittimo – si giochino in modo evidente il ruolo e il limite della tutela della persona di cui prima parlavo. Ruolo e limite che, se non sono in discussione con riguardo alle ipotesi di discriminazione e in genere di nullità, possono variare allorché si discuta di ingiustificatezza. A meno che – e il vero punto di frizione appare proprio questo – non si arrivi ad affermare chiaramente, e non solo a sottintendere fra le righe, che la reintegra è costituzionalizzata, e che il diritto della persona si è inverato nella conservazione effettiva del posto. Non credo di aver tradito il mio approccio originario, né di essermi spostato a destra se non condivido questa conclusione. Ma, al di là dello specifico posizionamento in questo specifico dibattito, c’è da prendere atto, dopo il pacchetto di sentenze costituzionali degli ultimi anni, che sembra affermarsi in concreto un modello, si direbbe, co-legislativo, nel quale legislatore e giudice delle leggi “cooperano” (anche in antitesi fra loro, per quanto possa sembrare strano) secondo uno schema regolativo nuovo. C’è indubbiamente il rischio di una invasione di campo da parte della giurisprudenza costituzionale (l’ho segnalato più volte anch’io), ma quella potrebbe essere la dimensione con la quale occorrerà misurarsi.

Il fatto è che la vicenda riguardante i licenziamenti svela come, a monte, il discorso generale sul metodo nel diritto del lavoro resti ancora – e non potrebbe non essere così – in discussione. Come acutamente rilevava Riccardo Del Punta in una delle sue ultime riflessioni, da un lato c’è la tendenza a vedere, nella “parte”, cioè in ogni singola norma, il “tutto”, ossia la protezione del lavoratore intesa come la missione della materia; dall’altro lato occorrerebbe verificare l’opportunità di una prospettiva più riduttivamente di tipo “procedurale”, basata su elementi e informazioni anche di altro tipo – per lui di carattere soprattutto economico e forse più prosaicamente politico – in grado di suggerire, nella dialettica con altri interessi meritevoli anch’essi di protezione, soluzioni solo approssimativamente vicine a ciò che si ritenga giusto secondo quella missione, e peraltro dotate di efficienza regolativa. E mentre adottare la seconda prospettiva non credo significhi consegnarsi al pensiero economico unico dominante (come certo Del Punta non intendeva fare), anche la prima va maneggiata con cura, anche se costruita sulla base della tavola dei valori della Costituzione. Ciò in quanto la forte legittimazione giuridica che dalla Costituzione deriva – penso ancora al valore della persona di cui all’art. 2 – va combinata con altri fattori di quella tavola, il cui peso comparato è suscettibile di variazioni nel corso del tempo. Una cosa, a mio parere, è definitivamente superata: lo strumentario di tipo logico e solo astrattamente razionale di cui si avvaleva la giurisprudenza dei concetti. Il resto – i valori giuridici e meta-giuridici, gli imput economici e sociali – resta ancora materia magmatica. E nell’esperienza giuridica, a mio parere, è giusto che sia così.

Vogliamo parlare un po' dell’accademia e delle scuole?

Mi aspettavo questa domanda, che ti confesso mi mette un po’ in discussione con me stesso, perché nella mia carriera – sia per carattere che per contingenze concrete – sono rimasto un poco al margine dell’accademia che “contava”. Ciò non mi ha certo tolto tranquillità negli studi – che è poi il terreno sul quale tutti dobbiamo misurarci – ma qualche opportunità forse me l’ha tolta. Ma oggi, ormai da tempo uscito dai ruoli attivi, non ho rimpianti.

Il discorso sull’accademia e sulle scuole sembra prestarsi a varie letture, a seconda che si adotti una prospettiva culturale o si guardi al processo di autoconservazione; anche se, a ben guardare, la via giusta sarebbe, a mio parere, quella di cercare una virtuosa sintesi fra le due prospettive.

Il primo punto di vista è, tutto sommato, abbastanza scontato, nel senso che (come è già stato sottolineato da altri nelle precedenti interviste in questa rivista) le scuole hanno costituito nel tempo uno strumento di aggregazione intorno a scelte culturali omogenee, riconducibili più o meno ad una stessa visione – per dirla con una espressione riassuntiva, molto usata negli anni ’70 – di politica del diritto. E lo sono anche adesso, per quanto più frammentate, e tuttavia raggruppabili e riconoscibili secondo uno schema negli ultimi tempi ormai polarizzato: da una parte i sostenitori, a tutto campo, del “principio lavoristico”; dall’altra parte, una variegata schiera di interpreti più propensi a rivalutare quanto meno un più articolato bilanciamento di interessi. Tutti peraltro – mi pare si possa dire – senza rinnegare, in fondo, il metodo giuridico tradizionale: basti ricordare, a riprova, con quanta intensità proprio i sostenitori del “principio lavoristico” (nonché critici nei confronti del “cambio di paradigma”) abbiano difeso la valenza giuridica del “fatto insussistente” posto a base del licenziamento, ai fini dell’applicazione del regime sanzionatorio. Naturalmente schematizzo, perché il panorama della dottrina giuslavoristica e delle scuole è sicuramente più articolato, secondo una trama di interessi capaci di aggregare più fitta rispetto a prima, come mi pare avvenuto con riguardo sia al diritto europeo e ai complessi problemi, di fonti e di sistema, che ne derivano, sia alla comparazione giuridica.

La scuola della quale ho fatto parte è derivata, come più volte ricordato, da quella romana di Francesco Santoro Passarelli, nella quale il mio Maestro si è formato e con la quale è rimasto in sintonia anche quando, in tempi ormai non più tanto recenti, in quella scuola sono state intrecciate alleanze (il termine proprio non mi entusiasma, lo uso per comodità), in parte diverse da quelle più risalenti. Per quella strada anch’io ho continuato, e non tanto per dovere di scuderia (anche se è piuttosto normale che l’allievo segua il maestro), quanto perché mi sono sembrati positivi i frutti di quelle alleanze o, se preferisci, di quella vasta aggregazione all’interno dell’accademia giuslavoristica che in realtà ha pescato da molte delle varie scuole. Buoni frutti, credo, sul piano culturale, con un fecondo sviluppo editoriale (di riviste, trattati e monografie) e con la capacità di aprire fronti nuovi di interesse e di ricerca (penso, ad esempio, al pubblico impiego).  Certo, in tutto questo processo non ci sono solo luci, perché la coesistenza di vaste aggregazioni (anche culturali) comporta qualche frizione e – forse inevitabilmente – l’esercizio di fatto di un qualche potere (di coordinamento?), che per sua natura può creare malumori. Ma il saldo, a mio parere, è largamente positivo.

Le divisioni – che ci sono state – personalmente le ho vissute sempre con disagio. Nella seconda consiliatura del direttivo Aidlass alla quale ho partecipato, qualche anno fa (la prima, dell’inizio del secolo sotto la presidenza di Scognamiglio, era stata molto tranquilla), ho sempre cercato di stemperare le non poche tensioni con il gruppo “contrapposto”, e qualche volta forse ci sono anche riuscito. Ma quando ci sono di mezzo ragioni personali o contrasti politici, è più difficile. Dico in generale, perché, per quel che mi riguarda, sul piano personale non ho cattivi rapporti proprio con nessuno; mentre, sul piano politico in senso ampio, una posizione (approssimativamente e tanto per intenderci) di sinistra moderata come la mia trova abbastanza facilmente un accomodamento. E tanto più passano gli anni (i prossimi per me saranno ottanta), tanto meno si ha voglia di litigare. A meno che il tutto non si risolva semplicemente nella – passami l’espressione forse un po’ datata – dialettica democratica e pluralista, tanto nel dibattuto scientifico, quanto nei momenti organizzativi.

A questo proposito, senza in alcun modo entrare in recentissime (e non gradevoli) polemiche e nel profondo rispetto per le varie scelte culturali all’interno della nostra comunità scientifica, devo dire che provo dispiacere nel constatare una crescente disaffezione nei confronti della nostra storica associazione di giuslavoristi, fin quasi al suo ripudio; disaffezione e ripudio che la stessa, nonostante i suoi difetti, credo non meriti. Frequento l’Aidlass dall’inizio degli anni ’70, allorché l’associazione si limitava a organizzare i convegni annuali o poco più, e penso che molto sia stato fatto, per farla crescere e adeguarla ad esigenze sempre più complesse. Come quelle che hanno portato, di recente, alla creazione della parallela Aidlass forense, che a mio parere ha invertito la tendenza, da anni sempre più marcata (una mutazione quasi inavvertita), di caratterizzarsi come associazione solo accademica (un po’ autoreferenziale), con conseguente perdita di proficui rapporti con la magistratura oltre che con l’avvocatura, rapporti che nella fase iniziale erano assai più coltivati.

Passando al secondo punto – quello della autoconservazione delle scuole, e, più in generale, dell’accademia – non è facile negare che si tratti di materia assai delicata, nella quale il sistema della cooptazione deve combinarsi con interessi fra loro in inevitabile concorrenza. Ora, è facile criticare il sistema della cooptazione, spesso sotto tiro dei media, visto che si presta ad abusi o anche solo a più sfuggenti prepotenze. Ma, soprattutto dall’esterno, spesso non ci si rende conto che quel sistema è l’unico che, pur con tutte le possibili criticità, può garantire accettabili giudizi selettivi per l’ingresso nella comunità scientifica istituzionale, posto che un giudizio scientifico affidabile (ancorché suscettibile di discussione) può provenire solo da quella comunità. E mi azzardo ad aggiungere che quelle criticità, e le tensioni che ciclicamente ne sono derivate, possono, nella nostra materia, aver talora ritardato quell’ingresso, ma, salvo eccezioni che però non mi vengono in mente, non mi pare che lo abbiano impedito.  

Come ti ho più volte detto manifestandoti la mia stima, credo che il tuo percorso scientifico e accademico sia assolutamente ineccepibile, e così anche la tua correttezza e gentilezza. Hai qualche rimpianto o ritieni di aver lasciato qualcosa di incompiuto, fermo restando che sono convinto che ci darai ancora importanti contributi? 

Ti ringrazio. Quanto ai rimpianti, ho l’impressione che tutti, alla conclusione del proprio percorso di lavoro (dico di quello ufficiale e formale), qualche rimpianto ce l’abbiano: non tutto può riuscire come si vorrebbe. Ma quel che conta è che ciò che si è fatto lo si sia fatto con convinzione, onestà intellettuale e, se possibile, con equilibrio, verso gli altri e verso sé stessi. Equilibrio che trova il suo banco di prova anche (per chi la pratica) nell’attività professionale (della quale finora non ho parlato), che a mio parere è di grandissima utilità nella comprensione di una materia che si invera prepotentemente nella realtà sociale, ma che va – quell’attività – calibrata con attenzione. Personalmente ho avuto la fortuna di lavorare in uno studio che mi ha consentito di esercitare la libera professione più, come dire, “da professore”, cioè privilegiando la stesura degli atti processuali e le discussioni davanti ai giudici rispetto ai faticosi rapporti con la clientela; e alla fine si è trattato per me di un’esperienza largamente positiva.

Quanto a possibili incompiuti, vale più o meno la stessa risposta. Potrei parlarti degli ambiti di ricerca che ho trascurato, dei rapporti poco coltivati, degli allievi ancora non giunti al riconoscimento più ambìto, e altro. Ma non credo servirebbe, e penso che valgano di più le cose compiute. Quanto, poi, ai futuri contributi che auspichi, spero di non deluderti e di continuare ancora a riflettere e a scrivere della nostra amata materia. Magari rallentando e con qualche nota bibliografica in meno, ma con immutato coinvolgimento.

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