Testo Integrale con note e bibliografia

 

In un precedente articolo , chi scrive ha già avuto modo di sottolineare come, tra le tante bizzarrie presenti nella cd. Riforma Gelmini delle università (come ampiamente noto, si tratta della l. 30 dicembre 2010, n. 240, recante <>), sia compresa anche una riforma del procedimento disciplinare dei docenti universitari che ha inserito nel sistema una vera e propria ipotesi di “immunità nascosta” riferita alla posizione dei rettori delle università.
Andiamo con ordine.
Per un lungo periodo di tempo, il procedimento disciplinare dei docenti universitari è stato disciplinato dall’art. 12 della l. 18 marzo 1958, n. 311 (norme sullo stato giuridico ed economico dei professori universitari) che operava un sostanziale rinvio alle disposizioni degli artt. 87, 88, 89, 90 e 91 del testo unico delle leggi sull'istruzione superiore, approvato con r.d. 31 agosto 1933, n. 1592 (primo comma) e, in quanto applicabili e non contrastanti con le disposizioni del testo unico sull’istruzione superiore (secondo comma), degli artt. 85, 91, 96, 97 e 98 del d.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3 (t.u. delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato).
Il semplice esame della normativa in questione evidenzia, con immediata efficacia, come si trattasse di un regime disciplinare applicabile all’intero personale docente universitario e, quindi, anche ai soggetti eventualmente chiamati a svolgere le funzioni di rettore di università; del resto, una simile conclusione era agevolmente desumibile, in via indiretta, dall’attribuzione al Ministro della competenza ad instaurare il procedimento e procedere all’irrogazione della sanzione (profilo centrale della problematica, per quanto dopo si dirà) ed in via diretta, da una serie di disposizioni tese a regolamentare espressamente l’esercizio del potere disciplinare nei confronti dei rettori (come, ad es., l’art. 88, 3° comma r.d. 31 agosto 1933, n. 1592 che attribuiva al Ministro la competenza ad irrogare a rettori e direttori la sanzione disciplinare della censura).
Le più recenti riforme hanno però intrapreso un diverso percorso ricostruttivo che ha sostanzialmente escluso dalla materia disciplinare i rettori delle università.
In particolare, il riferimento è alla “miniriforma” del regime disciplinare dei docenti universitari operata dall’art. 3 della l. 16 gennaio 2006, n. 18 (riordino del Consiglio universitario nazionale) ed al più recente art. 10 della cd. riforma Gelmini dell’università (l. 30 dicembre 2010 n. 240) che ha ridisegnato il procedimento disciplinare dei docenti universitari, contestualmente abrogando il già citato art. 3 della l. 16 gennaio 2006, n. 18.
Per quello che riguarda la problematica che ci occupa, le due ultime riforme del sistema disciplinare dei docenti universitari sono caratterizzate da una sostanziale continuità che viene a disegnare una costante di fondo tra i due sistemi normativi.
In particolare, l’art. 3, 2° comma l. 16 gennaio 2006, n. 18 disegnava un sistema in cui l’iniziativa del procedimento disciplinare era attribuita esclusivamente al<>, come pure al rettore dell’università interessata (o ad un suo delegato) erano attribuite le funzioni di relatore avanti al Collegio di disciplina istituito presso il C.U.N. e la competenza finale ad applicare la sanzione <>; in sostanziale continuità, il più recente art. 10 della l. 30 dicembre 2010 n. 240 prevede un sistema che attribuisce esclusivamente al rettore l’esercizio dell’azione disciplinare (secondo comma) e la possibilità di comparire (eventualmente a mezzo di un delegato) ed essere udito dal collegio di disciplina, unitamente all’incolpato; unico temperamento ai poteri del rettore è poi l’attribuzione al <> (e non più al rettore, come previsto dall’art. 3, 2° comma l. 16 gennaio 2006, n. 18) del potere di infliggere <> (quarto comma).
In buona sostanza, le più recenti riforme hanno pertanto disegnato un procedimento disciplinare che attribuisce in via esclusiva al rettore dell’università interessata il potere di disporre l’instaurazione del potere disciplinare, senza prevedere alcun possibile potere di intervento di altri organi (magari del ministro), neppure nell’ipotesi in cui il soggetto potenzialmente destinatario dell’azione disciplinare sia proprio il rettore/esclusivo titolare dell’azione disciplinare; in buona sostanza, siamo pertanto in presenza di un sistema in cui l’attribuzione in via esclusiva al solo rettore del potere di instaurare il procedimento disciplinare produce come “sottoprodotto” la pratica e sostanziale immunità dello stesso dalla responsabilità disciplinare, non essendo certo facile immaginare un soggetto che instaura e prosegue un procedimento disciplinare nei propri confronti.
Nell’Italia del conflitto di interessi, il legislatore ha pertanto abbandonato gli ordinari criteri di buona redazione dei testi normativi (si veda, al proposito, la maggiore accuratezza di redazione del r.d. 31 agosto 1933, n. 1592), dando vita, per mera trascuratezza o per scelta consapevole, ad un sistema che attribuisce allo stesso soggetto potenzialmente destinatario del potere disciplinare poteri centrali ed esclusivi in materia di instaurazione e gestione del sistema disciplinare; appare pertanto evidente l’emersione di un’area di potenziale immunità dall’azione disciplinare che investe proprio il soggetto incaricato di un ruolo centrale nell’attuale governance delle università (si veda, al proposito, l’art. 2 della l. 30 dicembre 2010 n. 240) e che non appare facilmente giustificabile, alla luce dei principi generali e della stessa filosofia di base della riforma.
È possibile evitare in qualche modo che l’immunità disciplinare costituisca uno dei benefit derivanti dall’elezione a rettore, magari risolvendo in via interpretativa il vero e proprio “buco normativo” che si è creato all’interno del sistema disciplinare dei nostri docenti universitari e che esclude praticamente dall’azione disciplinare i rettori?
A questo proposito, appare difficilmente praticabile il ricorso a disposizioni che continuano ad essere in vigore e che letteralmente continuano ad attribuire poteri di intervento in materia disciplinare al Ministro (come il già citato l’art. 88, 3° comma r.d. 31 agosto 1933, n. 1592, ancora in vigore per effetto del rinvio previsto dall’art. 10, 2° comma della l. 30 dicembre 2010 n. 240); per effetto della previsione di rinvio di cui all’art. 10, 2° comma della l. 30 dicembre 2010 n. 240, l’attuale operatività delle previsioni del r.d. 31 agosto 1933, n. 1592 appare, infatti, chiaramente limitata alla sola disciplina sostanziale delle sanzioni disciplinari e non investe gli aspetti che sono, al contrario, autonomamente e diversamente regolamentati dall’autonoma disciplina prevista dai commi già citati dell’art. 10 della legge Gelmini, che disegnano una sistematica complessiva che prevede, al proprio centro, una qualche forma di pratica e sostanziale immunità dei rettori.
Rimane pertanto al centro del sistema disciplinare del personale docente universitario una zona di immunità riservata ai rettori che appare insuperabile in via interpretativa, che potrebbe facilmente assurgere ai clamori della stampa e che si presenta in sicuro contrasto con le previsioni degli artt. 3, 54, 2° comma, 97 e 98 della Costituzione.
A questo proposito, chi scrive ha già evidenziato la propria poca fiducia nella possibilità concreta di sottoporre alla Corte costituzionale la questione di costituzionalità della previsione (art. 10 l. 30 dicembre 2010 n. 240) che regolamenta il procedimento disciplinare dei docenti universitari, nella parte in cui non prevede l’attribuzione ad altro organo del potere di instaurare il procedimento disciplinare nei confronti del rettore; la possibilità di sollevare la questione di costituzionalità dovrebbe, infatti, necessariamente passare o attraverso l’instaurazione contra legem di un procedimento disciplinare da parte del ministro (che dovrebbe necessariamente “forzare” il sistema, instaurando un procedimento disciplinare illegittimo, ma più che altro finalizzato a sollecitare una decisione della Corte costituzionale sull’immunità in questione) o (forse) attraverso la revisione dell’orientamento giurisprudenziale che ha negato la legittimazione del soggetto che abbia denunciato l’illecito disciplinare a proporre il ricorso in materia di silenzio della p.a. o ad impugnare in sede giurisdizionale provvedimenti di archiviazione disciplinare .
Del tutto inopinatamente (lo scritto citato è, infatti, del 2011 e non risulta aver suscitato particolare interesse nella dottrina e nella giurisprudenza), la problematica è tornata all’attenzione della stampa e probabilmente tornerà all’attenzione della dottrina a seguito dell’emanazione e dell’invio a università ed enti di ricerca da parte del M.I.U.R. del nuovo Atto di indirizzo su anticorruzione e trasparenza , emanato a seguito dell’aggiornamento del Piano Nazionale Anticorruzione intervenuto nel novembre dello scorso anno e di un serrato (e forse proficuo) lavoro con l’A.N.A.C. su alcuni temi specifici alle università ed agli enti di ricerca.
Per quello che riguarda la materia del procedimento disciplinare nei confronti del personale docente universitario, l’atto di indirizzo 14 maggio 2018 prot. n. 39 prevede, oltre alla rilevazione di altro importante nucleo problematico (quello relativo alla composizione del consiglio di disciplina), la chiara evidenziazione dell’estrema problematicità, condivisa dal tavolo tecnico istituito con l’A.N.A.C.,, dell’attuale disciplina procedimentale che non prevede <>; una possibile soluzione dell’evidente lacuna normativa è poi individuata, oltre che in una possibile ed improbabile modificazione normativa (che il Ministro si è riservato di proporre eventualmente al Governo), nella possibile attribuzione <>; ed in questo senso, l’Atto di indirizzo raccomanda espressamente <>.
Si tratta di una soluzione in via “amministrativa” della lacuna normativa praticabile o di un rimedio che può dare vita ad altre problematicità?
In termini generali, un primo nucleo problematico attiene alla stessa possibilità di delegare/attribuire l’esercizio dell’azione disciplinare ad altri soggetti; in questa prospettiva, chi scrive ha già rilevato la possibile problematicità di una simile soluzione (come della soluzione sostanzialmente analoga che attribuisce allo stesso rettore destinatario di una notitia criminis disciplinare l’obbligo di nominare un delegato o un commissario ad acta per l’instaurazione del procedimento disciplinare e per lo svolgimento delle funzioni accusatorie avanti al collegio di disciplina) che appare in sostanziale contrasto con la sistematica normativa ed in particolare, con il terzo comma dell’art. 10 della l. 30 dicembre 2010 n. 240 che prevede la possibilità di delegare le funzioni di rappresentanza avanti al Collegio di disciplina e non l’esercizio dell’azione disciplinare, riservato implicitamente al solo rettore in via esclusiva dal precedente secondo comma.
Un secondo nucleo problematico attiene poi, con tutta evidenza, alla stessa uniformità della soluzione; trattandosi, infatti, di soluzione rimessa ai singoli statuti (e, quindi, in buona sostanza, alla “buona volontà” delle singole università), appare di tutta evidenza come si tratti di soluzione che rischia di dare vita ad una sistematica “a pelle di leopardo” e divisa tra università in linea con l’Atto di indirizzo ministeriale (quindi, caratterizzate da statuti prevedenti l’attribuzione dell’esercizio dell’azione disciplinare nei confronti del rettore al decano o ad altro soggetto) e università recalcitranti ed intenzionate a mantenere l’”immunità nascosta” sopra rilevata.
Un terzo nucleo problematico attiene poi alla sostanziale inidoneità della soluzione in questione a neutralizzare il rischio di condizionamenti che, per la verità, derivano più dalla scelta normativa più generale per la trattazione in sede locale e non centrale dei procedimenti disciplinari dei docenti universitari che dalla problematica specifica che ci occupa; in questa prospettiva, il vero e proprio correttivo della lacuna normativa deve, infatti, essere individuato più nell’attribuzione dell’esercizio dell’azione disciplinare al ministro (e nella trattazione a livello centrale del procedimento) che nell’attribuzione dell’azione disciplinare ad un docente della stessa università.
Quello che è certo è però che l’intervento dell’Atto di indirizzo 14 maggio 2018, prot. n. 39 appare destinato a rivitalizzare un dibattito che si era sostanzialmente adagiato su una soluzione normativa (forse sarebbe meglio dire, una lacuna normativa) per molti versi insostenibile e ad aprire un processo di revisione degli statuti che potrebbe risultare interessante e rendere possibili proprio quelle vicende contenziose che, in altra sede ed in mancanza del “correttivo” statutario sopra richiamato, erano state considerate sommamente improbabili (se non impossibili).
In questa prospettiva, appare evidente come un’ipotetica vicenda contenziosa originata dalla soluzione prospettata dall’Atto di indirizzo 14 maggio 2018, prot. n. 39 (meglio, dall’esercizio dell’azione disciplinare nei confronti di un rettore da parte di un decano, a ciò legittimato dalla statuto dell’università) finirebbe con il polarizzarsi sulla problematica della delegabilità/attribuibilità ad altri soggetti dell’esercizio dell’azione disciplinare, al di là della ristretta formulazione dell’art. 10, 3° comma della l. 30 dicembre 2010 n. 240, puttosto che sul quadro ricostruttivo evidenziato nel precedente scritto; ed a questo proposito la giurisprudenza amministrativa ed eventualmente la Corte costituzionale (ove dovesse concludersi per la lettura più restrittiva della disposizione) potrebbero dire certamente qualcosa di utile ed interessante in ordine alla delegabilità dell’esercizio dell’azione disciplinare nei confronti del rettore ed alla natura facoltativa o obbligatoria di tale delega/attribuzione ad altro soggetto.

 

 

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