TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. La teorica simmetria tra ius variandi e repêchage.
Sino ad oggi la Corte di Cassazione ha escluso che il datore di lavoro, tenuto ad accertare la possibilità di repêchage del lavoratore il cui posto di lavoro sia stato soppresso, debba altresì farsi carico della formazione professionale necessaria per svolgere mansioni di altra natura, anche se disponibili nella struttura aziendale . Il repêchage è quindi limitato alle mansioni per le quali il lavoratore possiede già la professionalità richiesta: Il repêchage è doveroso nella misura in cui è possibile, senza costi aggiuntivi.
Questo approdo giurisprudenziale è di solito inteso come un portato del principio costituzionale della libertà dell’iniziativa economica privata, da cui segue che il datore di lavoro non è tenuto a sopportare costi che non siano da lui decisi in funzione dell’interesse dell’impresa.
Questo limite al repêchage si armonizzava con l’estensione dello ius variandi secondo l’art. 2103 c.c., nella versione introdotta dallo statuto dei lavoratori, perché l’equivalenza delle mansioni cui il lavoratore poteva essere addetto si dava solo a professionalità invariata .
Vi era dunque una simmetria tra ius variandi, ex art. 2103 c.c. e obbligo di repêchage nel licenziamento per motivo oggettivo: la misura del primo, quale potere datoriale in una situazione di svolgimento fisiologico dell’impresa, segnava la misura del secondo. La possibilità giuridica e di fatto, nell’organizzazione aziendale data, di una diversa mansione si traduceva in una opportunità, se il datore di lavoro perseguiva un proprio interesse, o in un obbligo, se l’interesse considerato era quello del lavoratore. Così si poteva dire che l’art. 2103 c.c. integrava il contratto individuale, nel senso che il lavoratore si obbligava non solo per le mansioni indicate in contratto, ma anche per tutte quelle che potevano considerarsi equipollenti.
E tuttavia questa correlazione si era da tempo incrinata; e precisamente si era incrinata nel momento in cui l’obbligo di repêchage era stato esteso anche a mansioni di rango inferiore. Non si è trattato solo del c.d. patto di demansionamento, che pure mal si concilia con l’espressa previsione nell’art. 2103 della nullità dei patti che comportino una simile conseguenza; che evoca un effetto novativo e che a me pare si giustifichi come un limite alla rilevazione delle nullità di protezione, quando l’atto nullo corrisponda all’interesse ed incontri l’adesione della parte a favore della quale è stata prevista la nullità. Si è andati oltre, affermando un vero e proprio obbligo di offrire al lavoratore, il cui posto di lavoro è stato soppresso, una possibilità di salvataggio. Ora, un simile obbligo, che già si rinviene in una famosa pronuncia della SS.UU. del 1998 , aveva portato a ritenere legittimo un demansionamento coerente con un accordo sindacale che aveva previsto un tale esito, allo scopo di consentire un rientro anticipato dalla cassa integrazione; dove l’accordo sindacale non era inteso – lo dice la Cassazione - come la fonte del patto in deroga, ma svolgeva, se posso esprimermi in questo modo, una funzione di certificazione dello scopo perseguito, mentre, quanto alla fonte del demansionamento, la si rinveniva pur sempre in un incontro delle volontà, dove era ritenuta sufficiente, per ritenere l’adesione del lavoratore, la sua mancata immediata reazione .
Questa rottura della corrispondenza tra ius variandi e repêchage si è tradotta anche in disposizioni di legge specifiche, tutte ispirate dall’idea del licenziamento come extrema ratio: l’art. 4 c. 11 l. 223/91, che prevede, nell’ambito delle procedure di mobilità, la possibilità di accordi sindacali per il riassorbimento di lavoratori ritenuti eccedenti, con implicita possibilità di riduzione della retribuzione; l’art. 7 c. 5 d.lgs. 151/01, relativo alle lavoratrici in stato di gravidanza e alle lavoratrici madri, con salvaguardia della retribuzione; l’art. 4 c. 4, l. 68/99, che prevede la possibilità dell’assegnazione a mansioni inferiori, anche questa volta con salvaguardia della retribuzione, per il caso di lavoratori che abbiano subito una riduzione della capacità lavorativa inferiore al 60% (e che perciò non possono essere computati nella quota di riserva) ovvero che siano divenuti inabili a causa dell’inadempimento datoriale all’adozione di misure di sicurezza; poi l’art. 42 d.lgs. 81/08, che prevede, in tutti i casi di inidoneità ad una mansione specifica, la adibizione a mansioni inferiori, ancora con salvezza della retribuzione.

2. Ius variandi e obbligo formativo. La mobilità orizzontale.
Quella corrispondenza oggi a me pare ulteriormente in crisi a fronte della nuova formulazione dell’art. 2103 c.c., che, da un lato, estende la possibilità di mutamento di mansioni sia in senso orizzontale che verticale, infrangendo il limite della coerenza professionale con quelle prima svolte; d’altro lato enuncia, in via generale, un onere formativo che, per quanto la legge nulla dica, dobbiamo ragionevolmente ritenere sia a carico del datore di lavoro (spettando al lavoratore di partecipare alla formazione con diligenza); e che, collocato nel terzo comma, a metà strada tra lo ius variandi di emanazione datoriale e quello di fonte contrattuale, dobbiamo altrettanto ragionevolmente ritenere si applichi quantomeno alle fattispecie previste dai primi due commi.
La suggestione che ci proviene da alcune sentenze di merito è che l’art. 2103 c.c., in ossequio a quella simmetria originaria, estenda anche l’obbligo del repêchage e arricchisca quest’ultimo di un ulteriore obbligo formativo , quando ciò sia necessario per consentire l’assegnazione a mansioni che non corrispondono alla professionalità posseduta dal lavoratore. Si compirebbe in tal modo una sorta di eterogenesi dei fini della norma, che, nata per estendere i poteri datoriali di incidere sulla posizione lavorativa del dipendente, compenserebbe tale potere con una pari estensione della tutela (solo indennitaria) dal licenziamento per motivo oggettivo : estensione del debito contrattuale da un lato, a manifestare la natura imperfetta del contratto di lavoro ; pari estensione, d’altro lato, del costo imposto per la conservazione del contratto.
Però bisogna dire subito che la simmetria che si vorrebbe conservare è improponibile nei termini originari, perché l’obbligo formativo non può non avere estensioni diverse. Anche chi lo ammette come addendum del repêchage, ne definisce i confini entro i limiti della non eccessiva onerosità, in sostanza degli accomodamenti ragionevoli ; limite che non esiste nella fattispecie dell’art. 2103 c.c., e a ragione, perché, se il cambio di professionalità è voluto dall’imprenditore nel suo interesse, ritenendo egli che il lavoratore sarà più produttivo nel nuovo ruolo, è l’imprenditore che deve sostenere i costi dell’operazione, quali che siano.
Ma se non può esserci simmetria, allora la fonte dell’obbligo formativo non può essere l’art. 2103 c.c.
Sappiamo che il primo comma dell’art. 2103 disciplina lo ius variandi c.d. orizzontale; all’accertamento della professionalità implicata nel lavoro concreto si sostituisce la inclusione delle diverse mansioni in un medesimo livello contrattuale; alla primazia dell’accertamento giudiziale quella della contrattazione collettiva.
Il modello di riferimento sembra essere quello dell’impiego pubblico (art. 52, c. 1°, d.lg.s 165/01) . Benché nulla nella lettera della legge autorizzi una simile interpretazione, è lecito domandarsi se non residui pur sempre la necessità di una verifica concreta di equivalenza, sulla base di test che potrebbero essere quelli di pari dignità delle mansioni esercitate, quanto a grado di responsabilità e autonomia, a grado di competenze implicate, a grado di tutela dell’immagine del lavoratore verso l’esterno. Una simile possibilità, da qualcuno sollecitata, da altri censurata , potrebbe corrispondere ad una esigenza di interpretazione costituzionalmente orientata, che superi lo schema rigidamente sillogistico che sembra imposto dalla lettera .
Vi è a dire poi che l’auspicata evoluzione delle declaratorie contrattuali verso una maggiore specificità e descrittività delle mansioni incluse nei vari livelli deve fare in ogni caso i conti col fatto che, in presenza di contratti collettivi di diritto comune, il datore di lavoro non è tenuto ad applicare il contratto corrispondente all’ambito merceologico in cui opera; pertanto quell’operazione sillogistica, già in linea di principio, potrebbe risultare di difficile praticabilità e richiedere un aggiustamento valutativo.
Ora, la statuizione di un onere formativo è coerente con questa estensione dello ius variandi (tanto più necessario quanto più è variegato lo spettro delle mansioni contemplate nella declaratoria di livello); ma è coerente solo fino a quando si tratta dell’esercizio libero di un potere datoriale; costituisce, da un lato, il prezzo di quel potere che sarà unilateralmente esercitato solo fino a quando resti vantaggioso nonostante l’inerenza di un costo o di un tempo di formazione. Costituisce, d’altro lato, una necessità organizzativa, salvo il caso che quelle nuove professionalità siano già possedute, perché per il datore di lavoro l’assegnazione di mansioni diverse è un investimento sul lavoratore. Costituisce anche espansione di quell’obbligo formativo che in qualche pronuncia si trova enunciato con riferimento alle mansioni di prima assegnazione . Ma la coerenza viene meno quando l’assegnazione a mansioni diverse sia espressione non più di un onere, ma di un obbligo e risponda ad un interesse esclusivo del lavoratore, concentrandosi l’interesse datoriale solo nella soppressione del posto di lavoro precedentemente occupato.
Il divorzio tra le due fattispecie può essere descritto anche così: lo ius variandi regolato dall’art. 2103 primo comma c.c. è un potere unilaterale, è una assegnazione di mansioni; il repêchage è una offerta di mansioni, a cui deve seguire una adesione del lavoratore.
E’ nell’interesse dal datore di lavoro differenziare le due situazioni, allegando l’effettivo motivo oggettivo a giustificazione del licenziamento, limitando così l’ambito del repêchage esigibile; ed è interesse del lavoratore che le due situazioni siano differenziate e che il datore di lavoro non possa utilizzare lo ius variandi in mancanza di obbligo formativo, come strumento per liberarsi di un lavoratore, sottraendosi alla verifica dell’esistenza di un giustificato motivo.
Solo nel caso dello ius variandi datoriale, la mancata formazione, essendo inadempimento, può giustificare un’eccezione di inadempimento del lavoratore; né la inidoneità alla mansione, se conseguenza della mancata formazione, potrà costituire motivo di licenziamento (né in tal caso si potrà imputare al lavoratore di non avere adoprato la diligenza connessa alla natura della prestazione, ex art. 2104 c.c.). Resta a vedere quali debbano essere le conseguenze di un esito negativo della formazione, che non sia dovuto a colpa del lavoratore: qui siamo fuori dal motivo soggettivo, perché al lavoratore può chiedersi di partecipare diligentemente alla formazione, ma non può imputarsi il risultato insoddisfacente; ma siamo anche fuori dal motivo oggettivo perché dobbiamo supporre che continui ad esistere, nell’organizzazione dell’impresa, il posto originario . Se poi un datore di lavoro tetragono insistesse nell’assegnazione disposta, il lavoratore improduttivo o inerte potrebbe dolersi della dispersione delle proprie competenze e della lesione della propria immagine.
Nel caso invece del licenziamento per motivo oggettivo, l’inidoneità alle mansioni disponibili, per difetto di adeguata professionalità, eventualmente irrimediabile ad opera del lavoratore stesso, giustificherà il licenziamento, senza necessità di ulteriori offerte. E a questo punto può insinuarsi uno spazio più ristretto - fondato su regole generali del diritto dei contratti, quali l’esecuzione secondo buona fede e il dovere del creditore di compiere quanto è necessario affinché il debitore possa adempiere la prestazione -, quando il lavoratore sia in grado di auto formarsi, o quando la formazione possa essere impartita con costi sostanzialmente irrilevanti.
Può essere questo il caso del recupero di professionalità già possedute e poi abbandonate, ma facilmente recuperabili.
Siamo però fuori da quella relazione di simmetria che dovrebbe giustificare l’estensione dell’obbligo formativo ex art. 2103 c.c.

3. Ius variandi e obbligo formativo. La mobilità verticale
Questa conclusione, di separazione tra estensione dello ius variandi ed estensione del repêchage, sembra incrinarsi quando si passi alle fattispecie di demansionamento lecito, di ius variandi verticale, e in particolare a quel potere ancora unilaterale di demansionamento che è previsto dal secondo comma, cui è sicuramente collegato l’obbligo formativo.
Potere unilaterale, ma non libero, perché vincolato ad una situazione tipizzata dalla legge, descritta come “modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore”.
Le ipotesi successive hanno poi una base contrattuale, collettiva o individuale.
Dovrà allora domandarsi in cosa consista in primo luogo la fattispecie descritta dal secondo comma, perché, se essa non differisse da quella del motivo oggettivo di licenziamento , la tesi dell’incompatibilità tra repêchage e obbligo formativo risulterebbe falsificata.
Sullo sfondo è restata, pressoché ignorata, la formula utilizzata dalla legge delega, che più esplicitamente evocava situazioni legittimanti licenziamenti collettivi o individuali .
Ma anche la formula utilizzata nell’art. 2103 c.c. lascia dubbiosi sulla diversità qualitativa tra incisione e soppressione del posto di lavoratore; tra giustificato motivo di licenziamento e giustificato motivo di demansionamento .
Ora, a far propendere per l’assimilazione o quanto meno per l’avvicinamento, tra le due fattispecie, stanno alcune considerazioni.
In primo luogo, stante la relazione di causalità che la norma istituisce tra la modifica degli assetti organizzativi e l’effetto sulla posizione lavorativa (una relazione che richiama alla mente uno degli elementi costitutivi del g.m.o. ), è difficile pensare a vicende concrete in cui il posto di lavoro coinvolto in una modifica degli assetti organizzativi non venga posto in discussione e forse non possa dirsi soppresso, per come esso era.
Una tale esito interpretativo è rafforzato anche dalla notoria estensione dell’ambito del g.m.o., che ha ripudiato il presupposto della crisi o della difficoltà economica di una qualche consistenza dell’impresa, per accogliere una nozione, se così si può dire, avalutativa del g.m.o . Non si può dire allora che la soppressione del posto di lavoro rilevante ai fini del g.m.o. si differenzi dall’incisione rilevante ai fini del 2103 c.c., con l’argomento che solo nel secondo caso si prescinde dallo stato economico dell’impresa, rendendo equivalente che si vogliano ridurre le perdite o incrementare i profitti, mentre il potere di licenziare richiede una situazione di perdita di bilancio consistente e presumibilmente irrimediabile. Dunque, anche il licenziamento e non solo il demansionamento può provenire da un’impresa redditizia ed entrambi i giudizi hanno ad oggetto un quid novum riscontrabile nell’organizzazione dell’azienda. Lo spazio per un’incisione che non sia anche soppressione si restringe.
Ma soprattutto viene qui in considerazione un problema di bilanciamento tra valori di rango costituzionale; perché l’esercizio dello ius variandi non solo modifica unilateralmente il contratto, ma incide anche sul patrimonio professionale del lavoratore, che certamente è un valore costituzionalmente protetto (art. 4 e 35 Cost) .
Sul punto si è soliti citare la sentenza della Corte costituzionale 113/04 che dichiarò l'illegittimità costituzionale dell'art. 2751-bis c.c., numero 1, nella parte in cui non munisce del privilegio generale sui mobili il credito del lavoratore subordinato per danni da demansionamento. Ma si può anche rinviare a un’altra sentenza della Consulta, che può essere qui valorizzata a contrario. Si tratta della sentenza della Corte costituzionale che ha preso in esame la fattispecie della retrocessione, quindi di un demansionamento, quale sanzione disciplinare potenzialmente definitiva prevista per gli autoferrotranvieri dal r.d. 148/31; norma sospetta di incostituzionalità con riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 36 Cost. La Corte ha rigettato l’eccezione, ma rilevando che la retrocessione è prevista sia come sanzione autonoma, sia come sanzione sostitutiva del licenziamento per giusta causa (definito dal regio decreto col termine di destituzione). E proprio il fatto che nel caso sottoposto al giudice del merito venisse in considerazione una retrocessione sostitutiva della destituzione ha portato la Corte a istituire una analogia con il demansionamento nel licenziamento per g.m.o. Quindi, par di capire, il trattamento di disfavore per il lavoratore autoferrotranviere viene salvato solo perché il disfavore è apparente, essendo la misura diretta a salvare il rapporto di lavoro; solo un interesse di rango costituzionale pari o superiore può giustificare un demansionamento.
Punti fermi nell’interpretazione della fattispecie dello ius variandi verticale sono che l’esercizio di tale potere (e la relazione di causalità che lo giustifica ) deve essere oggettivamente verificabile, e quindi giudizialmente sindacabile e che, in relazione ad un tale potere, si pone un problema di bilanciamento di interessi .
Come già detto, se queste considerazioni portassero ad assimilare i presupposti del demansionamento per esercizio unilaterale dello ius variandi e del licenziamento per motivo oggettivo, se ne dovrebbe desumere l’estensione dell’obbligo di repêchage anche alle situazioni segnate dalla necessità di una nuova formazione.
Però vi sono anche aspetti di disciplina che differenziano le due fattispecie. Il potere di demansionare ex art. 2103 c.c. si presenta al contempo meno esteso e più vincolato rispetto a quello che si accompagna al repêchage. Meno esteso, perché esso è limitato al livello di inquadramento inferiore e alla medesima categoria legale . Questi limiti non sono mai stati espressi dalla giurisprudenza sul repêchage, che anzi, intendendo il licenziamento come extrema ratio, sembra consentire qualunque altra opzione che salvi il rapporto di lavoro ; più vincolato, perché il lavoratore conserva l’originario inquadramento e la retribuzione ad esso corrispondente, con una alterazione del sinallagma contrattuale a svantaggio del datore di lavoro.
A me pare che colga nel segno chi rileva che proprio la previsione del mantenimento non solo del livello retributivo, ma anche del livello di inquadramento, configuri questo potere come giustificato da situazioni contingenti; dal che deriverebbe anche il diritto del lavoratore a vedersi riassegnato all’originario posto di lavoro una volta che la situazione sia cessata .
Si può pensare a un demansionamento temporaneo, necessario per apprendere nuove tecniche produttive ; si può pensare ad una momentanea assenza di lavoro in determinati ambiti produttivi, alla necessità di sostituire lavoratori assenti per ferie .
Qualche ulteriore suggestione, nella ricerca di ipotesi eccezionali di demansionamento giustificato, potrebbe trarsi da una pronuncia che può considerarsi anticipatrice e che riguardava un caso di lavoratore arrestato, che occupava una posizione lavorativa ritenuta indispensabile dall’impresa, cosa che aveva portato all’assunzione di un altro lavoratore. Dovendosi esprimere sulla conformità a buona fede dell’eccezione di inadempimento, la Corte esprime un giudizio di affievolimento del diritto del lavoratore all’assegnazione di mansioni di stretta attinenza alla propria fascia professionale (nel caso le mansioni assegnate erano di pertinenza di un livello inferiore).

4. Ius variandi e contrattazione collettiva.
Resta il fatto che al di là dello sforzo di identificare un ambito di demansionamento lecito, non lesivo dei diritti costituzionalmente garantiti del lavoratore e che al contempo si affianchi a quello reso necessario dalla prospettiva del licenziamento, i demansionamenti unilaterali non possono costituire una forma di flessibilità virtuosa nell’impiego della forza lavoro. Il demansionamento si colloca agli antipodi della valorizzazione professionale del lavoro, l’esercizio unilaterale di questo potere nega il confronto con un contropotere sindacale; se ci si innalza oltre la vicenda del singolo rapporto di lavoro, il panorama che si intravvede è quello di filiere di lavoro sempre più povere, e di un profitto che è cercato nella pauperizzazione del lavoro.
Chi ha tessuto le lodi del nuovo art. 2103 c.c., leggendovi il superamento di vincoli sclerotici all’organizzazione del lavoro e auspicando un effetto positivo sulla stabilizzazione dei rapporti di lavoro, dovrebbe rivolgere lo sguardo al ruolo della contrattazione collettiva – quella espressa dai sindacati maggiormente rappresentativi ex art. 51 d.lgs. 81/15 - soprattutto a livello aziendale.
Una flessibilità virtuosa deve essere sorretta da una programmazione degli investimenti; deve saper prevedere ed anticipare le innovazioni tecnologiche e l’evoluzione dei mercati; deve consistere in un arricchimento di professionalità, intesa anche come possibilità di passare da una funzione all’altra ; deve accettare sfide ma anche dare garanzie. Il luogo di questo ius variandi deve essere rinvenuto negli accordi collettivi di cui ci parla il quarto comma dell’art. 2103 c.c. , in ciò forse anticipato dall’art. 8 d.l. 138/11 (che potrebbe ritenersi implicitamente abrogato quanto alla lett. b) del secondo comma). E in questo caso saranno, ragionevolmente, gli accordi collettivi a stabilire anche il contenuto dell’aggiornamento professionale, che per l’impresa sarà a questo punto un investimento nel capitale umano e in corrette relazioni sindacali .

 

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.