testo integrale con note e bibliografia
A chi scrive, nell’affrontare l’argomento, sovviene in prima battuta lo splendido dipinto della “Scuola di Atene” di Raffaello Sanzio, al cui centro sono posti Platone (con un dito rivolto verso l’altro) e Aristotele (con una mano ferma, sospesa fra terra e cielo). Spesso la raffigurazione aristotelica venne interpretata come una contrapposizione cielo/terra (mondo ideale contro concretezza), studi più recenti notano che la mano di Aristotele non punta verso il basso, come hanno insegnato per decenni nei licei gli storici dell’arte, rappresentando non una contrapposizione ma una felice sintesi in cui la forma e la sostanza concorrono a formare un tutto unico e razionale.
Abbandonando velocemente questa suggestione, che ci porterebbe a navigare su altre ben ardite sponde (e su cui la filosofia del diritto avrebbe molto da raccontare), la Cassazione, con la sentenza n.9286/2025 torna a riaffermare a distanza di circa un anno (Cass., n. 10065/2024) un concetto che fino a poco fa appariva di poco interesse. La validità o meno di una conciliazione sindacale fino ad allora si era piuttosto attestata, giustamente, su un aspetto che chi scrive riteneva, e ritiene tuttora, fondamentale, ovverosia la necessità, ai fini dell’efficacia di una conciliazione in materia di lavoro sottoscritta ai sensi dell’art. 411, co. 3 c.p.c. (in sede sindacale), dell’effettiva assistenza sindacale (ex multis Cass., n. 25796/2023) sia per quanto riguarda la consapevolezza da parte del lavoratore delle rinunce ivi espresse che le concessioni reciproche con cui viene a realizzarsi una transazione. Lo sfondo, è bene ricordarlo sinteticamente, è quello dell’art. 2113 c.c. che rende impugnabili (entro 6 mesi) le rinunce e transazioni espresse da un lavoratore rispetto a diritti derivanti da disposizioni di legge o contratto collettivo: un’elementare forma di garanzia, quasi una “clausola di ripensamento”, con cui già il legislatore di quasi un secolo fa aveva inteso difendere il lavoratore rispetto alla conclusione di accordi particolarmente sfavorevoli (o ingannevoli), prevedendo che, a ciò evitare, gli accordi e le rinunce in tema lavoristico acquisissero una forma di irrevocabilità solo ove conclusi in ambiti, previsti appunto dalla norma, in cui si ritiene che al lavoratore venga fornita adeguata garanzia ed informazione.
Nella pratica quotidiana, la conciliazione in sede sindacale può assumere diverse forme:
a) il semplice incontro avanti un sindacalista con la redazione o la sottoscrizione di un accordo in cui la presenza del sindacalista ha una funzione quasi “notarile” (l’accertamento dell’identità delle parti e la constatazione dell’assenza di condizionamenti o vizi di volontà delle parti);
b) un accordo sottoscritto alla presenza di un conciliatore sindacale il cui sindacato ha partecipato attivamente alle trattative che hanno portato all’accordo, frutto di reciproche e spesso laboriose concessioni;
c) la sottoscrizione di un accordo ai sensi dell’art. 412/ter c.p.c. ovverosia “presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative”.
Osserviamo, senza nessun intento malizioso e con disincantato realismo, che molto spesso la situazione della lettera a) che precede, peraltro pratica parecchio diffusa, ha un costo per chi sottoscrive la conciliazione che va a sostenere economicamente le organizzazioni sindacali. Con ciò non si vuol sostenere che tale pratica, nella maggior parte dei casi, dia la stura ad abusi e violazioni di diritti dei lavoratori: certo, un conciliatore sindacale onesto ed esperto rifuggirebbe prontamente da accordi che all’evidenza appaiono improponibili o smaccatamente sfavorevoli. Tuttavia è chiaro che, comparsa in un film la cui trama si è svolta sostanzialmente altrove, il conciliatore così intervenuto spesso può non essere pienamente consapevole (né pertanto trasferire tale consapevolezza al lavoratore) delle vicende che han condotto le parti a quell’accordo e quindi della portata ed equità dello stesso. Conseguentemente ogni operatore lavoristico deve (o dovrebbe) essere pienamente conscio della scarsa, anzi nulla, tenuta di tali accordi, specialmente se realizzati in costanza di rapporto di lavoro (e quindi con un’eventuale impugnabilità differita – ai sensi del 2113 c.c. – a sei mesi ma non già decorrenti dalla data di stipula dell’accordo bensì dalla data di cessazione del rapporto, con effetti antecedenti anche di notevole portata). Beninteso, la sede “topografica” in cui si svolgesse tale conciliazione, in assenza di reale assistenza, non avrebbe decisivo rilievo, essendo già mancata la funzione principale.
Sia concesso qui di osservare che anche nella situazione di cui alla lettera c) può esser dubbia l’assistenza riservata al lavoratore, specie quando essa avviene sì in una sede (quale ad esempio quella di un’associazione datoriale) precisamente individuata dalla contrattazione collettiva e rispettandole le modalità formali, e alla presenza di un sindacalista dei lavoratori, il quale, tuttavia, alla pari del precedente, spesso è del tutto estraneo al processo di assistenza ed alla formazione dell’accordo, svolgendo di fatto la medesima funzione meramente “notarile” di cui alla fattispecie precedente (né potendosi supporre, sarebbe paradossale, che tale garanzia sia rafforzata dalla presenza della parte datoriale).
Avendo quindi sgombrato il campo da ipotesi che sarebbero di per sé assorbenti (senza una reale assistenza sindacale, la conciliazione in sede sindacale non acquisisce quelle caratteristiche di inoppugnabilità ai sensi dell’art. 2113, comma 4 c.c.), non ci resta che considerare l’ipotesi b), cioè quella in cui si sia effettivamente verificata l’assistenza sindacale.
In quel caso, infatti, l’ipotesi prospettata dalla sentenza in commento (che aveva avuto un precedente in quella già citata del 2024) è che il dettato dell’art 411, comma 3, c.p.c. con il termine di “sede sindacale” abbia inteso riferirsi ad una sede fisico-topografica, identificata appunto in quella del sindacato che abbia assistito il lavoratore.
Il ragionamento – non convincente – della Suprema Corte del 2025, non si spinge a tanto, in realtà, limitandosi ad affermare che la sede fisica di sottoscrizione non assume un mero requisito formale, bensì sostanziale, anzi “funzionale”, avendo voluto in tal modo il legislatore individuare un luogo in cui la volontà del lavoratore venga “espressa in modo genuino e non coartata”, sicchè in caso di effettiva assistenza sindacale “la stipula in una sede diversa non produce di per sé effetto invalidante sulla transazione”. Ciò malgrado, ed è qui a parere di chi scrive che Cassazione entra in un cortocircuito logico, se la conciliazione viene conclusa in sede aziendale, tale sede sarebbe “priva di quel carattere di neutralità indispensabile a garantire, unitamente all’assistenza prestata dal rappresentate sindacale, la libera determinazione della volontà del lavoratore”.
Non è però in alcun modo motivata tale affermazione apodittica, che invero in realtà potrebbe essere ribaltata dall’esperienza concreta, soprattutto se si pensa che in sede di legittimità, nel caso oggetto di esame della Suprema Corte, era stata accertata un’assistenza effettiva e concreta del lavoratore.
Rispetto alla sede aziendale, ben conosciuta dal lavoratore ed oggetto di frequentazione, spesso risulta incutere più soggezione una sede formale e di primo forte impatto, anche emozionale. Pensiamo, rimandando alla fattispecie b) sopra considerata, il lavoratore convocato presso una sede di qualche famosa associazione datoriale, ove più volte mi è capitato di aver visto la necessità, da parte del conciliatore sindacale, di preliminarmente tranquillizzare e mettere a suo agio il lavoratore. Senza contare l’eventuale scomodità del lavoratore, anch’essa carica di un portato psicologico non indifferente, a raggiungere sedi diverse dal luogo abituale in cui si è magari per anni recato (oppure, pensiamo ad un lavoratore in smart working, magari in modalità quasi full-remote).
Tali aspetti possono essere ben chiari al conciliatore, che così, proprio nel solo interesse del lavoratore, potrebbe essere portato ad individuare una sede (ad esempio, quella aziendale) in cui senta di poter rendere al lavoratore la maggior tranquillità e serenità possibili, necessarie alla sottoscrizione consapevole dell’accordo realizzato. Perchè altrimenti è proprio la figura del conciliatore che viene ad essere svalutata, un conciliatore che si considera, da un lato, capace di assistere il lavoratore in una trattativa, magari complessa, ma poi paradossalmente incapace di decidere quale sia la sede fisica adatta (nell’interesse del lavoratore) alla sottoscrizione della stessa. Perchè è in quella scelta della sede (quale essa sia, per mille motivazioni plausibili) che si esprime la “funzionalità” invocata dalla Cassazione.
Si potrebbe anche aprire il tema dell’opportunità della sede aziendale nel caso di accordi intervenuti su una molteplicità di lavoratori, oppure allorchè potrebbe essere più facile reperire qualche documentazione resasi necessaria all’ultimo momento per verificare un aspetto della conciliazione fino ad allora non con considerato. Sono tutti aspetti che nell’esperienza concreta chi scrive ha visto molteplici volte realizzarsi.
Ultimo, ma non ultimo, sarebbe da sottolineare anche l’aspetto “politico” della presenza del sindacato in azienda, presenza spesso non gradita al datore anche solo in sede di conciliazione; sindacato che nella difesa e nell’assistenza del lavoratore potrebbe voler dimostrare di essere sul campo e nel luogo più vicino alla genesi del problema: addirittura si ribalterebbe in questa prospettiva la presunta neutralità, sede aziendale come sede non neutrale nel senso di rendere appieno il significato del presidio del sindacato.
Vi sono quindi molteplici aspetti sostanziali che rendono, a parere di chi scrive, il sapore di pura ed inutile formalità nella disquisizione di Cassazione sulla sede. Semmai quello della sede prescelta per la conciliazione potrebbe essere un elemento aggiuntivo, ma mai di per sé decisivo, ai fini della valutazione dell’effettiva assistenza fruita dal lavoratore; come accade altre volte, nella pratica giurisprudenziale lavoristica, si ha più l’impressione di un elemento invocato, senza una particolare consecuzione logica, per accompagnare una decisione già presa sotto altri aspetti, quasi sempre in funzione protettiva della c.d. “parte debole”.
E’ anche per prevenire questi squilibri in materia, forse, che, giudicando la tendenza eccessivamente formalistica, il legislatore del 2024 (art. 20 della L. n. 203/2024) ha indotto, opportunamente, disposizioni relativamente alle conciliazioni in materia di lavoro svolte in modalità telematica che, soprattutto a causa del Covid-19, hanno preso largamente piede anche nelle conciliazioni sindacali.
D’altronde, è l’esperienza concreta e quotidiana che ci rappresenta come l’eccessivo formalismo colmi quasi sempre un vuoto di sostanzialità, creando situazioni di squilibrio. Ma è il mondo del lavoro, anche riguardo agli aspetti giuridici più propri, che ha bisogno di concentrarsi non solamente su aspetti formali, ed anzi di bypassarli per la realizzazione di un diritto approssimativamente il più vicino possibile alla giustizia vera.
Se la forma è necessaria modellazione della sostanza, volta a darne concretezza ed efficacia, senza sostanza la forma diventa un puro simulacro, dannoso sia nei suoi effetti pratici che in quelli culturali.