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Come è noto, fra due illustri ed eminenti studiosi del diritto del lavoro (Pietro Ichino e Stefano Giubboni) si è sviluppato recentemente un acceso confronto in merito alle tesi sviluppate dal secondo nel volume “Anni difficili” ed al commento-recensione del primo in forma di lettera aperta, cui è seguita una replica dell’autore.
Ci sembra naturale non entrare assolutamente nella disputa, ma raccogliere alcuni spunti del dibattito emerso per offrire sull’argomento licenziamento un punto di vista che nasce dalla nostra esperienza professionale, cosa che faremo esponendo per punti per maggiore facilità di lettura.

1) Riportare ordine nella disciplina
Riteniamo sia imprescindibile pervenire ad una disciplina univoca in tema di licenziamenti, salvo le osservazioni che seguiranno in tema di dimensione aziendale, senza le distinzioni oggi esistenti e che pongono non pochi dilemmi interpretativi.
A tale proposito non è possibile non considerare che chi lamenta l’attuale stratificazione normativa dovrebbe al contempo indagare sui motivi di tale stratificazione e diversificazione. In particolare, ci sembra che l’approccio di modifica graduale abbia la sua principale causa nella natura “totemica” assunta nel tempo dalle norme sul licenziamento. Senza voler indagare sulla stretta correlazione freudiana fra totem e tabù, è evidente che i tabù posti a leggi simbolo del diritto del lavoro rischiano di generare un dibattito sul tema privo di obiettività e, per corollario, tentativi di modifica graduale e differenziata, cercando di non mettere in discussione presunti diritti acquisiti. Non sappiamo se questo sia un errore, un “trucco” o semplicemente il frutto di un tentativo di mediazione politico-sociale, ma ci sembra evidente che la causa di ciò sta proprio nell’esacerbazione ideologica sul tema. In altre parole, i tabù, e i totem che proteggono, generano percorsi tortuosi e minano qualsiasi obiettività di affronto del problema.
Parliamo ovviamente di qualsiasi totem, sia quello di un diritto del lavoro posto assurdamente quasi quale “undicesimo comandamento”, sia quello di leggi economiche che per quanto dotate di una loro (relativa) oggettività, non possono non confortarsi con i temi dell’opportunità e della sostenibilità sociale, dipendendo in buona sostanza da questi ultimi – e non viceversa.
Indipendentemente dal punto di vista, occorre portare a sistema una normativa che rischia di creare più danni che benefici. Illustrare agli investitori stranieri la normativa italiana sui licenziamenti (individuali e collettivi) e i rimedi ad un licenziamento giudicato illegittimo è davvero cosa assai complicata; fargliela capire, poi, è ancora peggio. Non nascondiamo che nelle valutazioni di geolocalizzazioni delle imprese questa normativa ha il suo peso. Va ricordato inoltre che il Italia il 97 per cento delle imprese ha meno di 10 dipendenti e occupano oltre la metà dei lavoratori subordinati e che oltre ai lavoratori subordinati si sono i anche i lavoratori parasubordinati, quindi non è solo una questione di insider e outsider ma anche di giustizia sociale che deve essere trasversale. Non possiamo quindi parametrarci soltanto sulle realtà alle quali si applica la ex tutela reale; nel riordino della normativa vanno tenute presenti tutte le realtà e tutte devono avere pari dignità.

2) Il tema ideologico e la centralità o meno del licenziamento nel mondo del lavoro.
Partendo dalle riflessioni precedenti, ci piacerebbe che qualsiasi osservazione sul tema non partisse da presupposti fortemente ideologizzati, sia dichiarati sia inespressi, perché in tal modo non si genererebbe un confronto costruttivo ma una sterile contrapposizione.
Non siamo così ingenui da non sapere che qualsiasi idea in merito ha un proprio background, un retroterra culturale. Tuttavia nessun tema deve considerarsi sacro ed intoccabile, perchè altrimenti il dibattito sposterebbe il suo focus da un piano scientifico ad uno propriamente politico: nulla di male, e ben possibile, ma è un piano che ci interessa meno e che non sta alla base delle nostre riflessioni.
C’è anche chi considera il dibattito sul licenziamento, in particolare il bivio fra tutela reale (il “vecchio” art. 18) e tutela indennitaria, come non centrale nell’odierno mondo del lavoro, in forza di due considerazioni: la sempre più scarsa applicazione di fatto della tutela reale, anche qualora applicata, in favore della scelta economica sostitutiva e l’evoluzione del sistema lavoro, ove nuovi contratti e nuove professionalità (orientate verso gradi sempre maggiori di autonomia o di una “diversa” subordinazione) di fatto superano gran parte del problema.
È invece nostra opinione che il dibattito sul licenziamento sia un tema centrale ed ineludibile, a condizione che lo stesso sia contestualizzato entro politiche del lavoro e sociali e, in buona sostanza, in un’ottica socio-economica sostenibile. Già questa prospettiva, ci rendiamo conto, sposta il focus da un aspetto di carattere puramente giuridico e dottrinale verso una visione interdisciplinare.
Tale visione non può non confrontarsi con lo spirito sostanzialmente difensivistico con cui è nato e si è sviluppato il diritto del lavoro e in cui trova una delle ragioni della sua esistenza, ma al tempo stesso deve osservare le derive che nel tempo attuale portano squilibri di segno opposto che al lavoro fanno obiettivamente male.
Invocare ad esempio l’applicazione dei principi del pubblico impiego al privato dovrebbe confrontarsi su quanto questi principi abbiano nuociuto, certamente non da soli ma insieme ad una miriade di altri fattori, all’attuale degrado della qualità del lavoro e della professionalità nel settore pubblico, pur con le lodevoli eccezioni del caso.
Vi è infatti da chiedersi quanto le decisioni in tema di diritto del lavoro, e quindi anche di licenziamento, incidano su una cultura del lavoro e, per converso, dell’impresa. A tal proposito bisognerebbe anche chiedersi quanto certe iper-rigidità in tema giuslavoristico abbiano inciso su fenomeni fortemente negativi quali delocalizzazione, esternalizzazioni fittizie, contratti precari, dumping contrattuali, discriminazioni di genere. Con un’azione repressiva e deterrente spesso puntata su fenomeni di piccolo cabotaggio (più facili da perseguire) che non su degenerazioni massive. Non dobbiamo spiegare ai lettori di questa prestigiosa rivista quanti danni sta creando il dumping contrattuale. I contratti collettivi nazionali in alcuni settori sono più che triplicati negli ultimi 10 anni giungendo a circa 900 contratti depositati al CNEL. Molti definiti dallo stesso CNEL “contratti pirata”. Ma aggiungiamo che lo stesso secondo livello di contrattazione viene oggi usato per fare dumping contrattuale legalizzato. Sono diverse le imprese che hanno sottoscritto contratti aziendali con rappresentanze maggiormente comparativamente più rappresentative, con previsioni al ribasso rispetto al CCNL ponendosi sul mercato a costi decisamente inferiori rispetto alla concorrenza. E tutti sappiamo che il costo del lavoro è se non il, uno dei maggiori costi per le imprese e parliamo di costi prevalentemente fissi. Pensavamo di aver risolto tutti i nostri problemi istituzionalizzando le società di somministrazione, ma il fenomeno del body rental non è affatto scomparso, anzi. Ma tornado ai licenziamenti, siamo propensi a credere che rafforzare uno spirito di cooperazione – l’impresa come “avventura comune” - sia la forza migliore oggi per affrontare le sfide economiche e sociali poste al mondo del lavoro. E sotto questo profilo, quando qualcosa in questo meccanismo si logora, ci chiediamo quanto sia opportuna una continuazione forzata, quasi come una convivenza divenuta impossibile.
Questo sposta inevitabilmente la nostra preferenza sulla soluzione indennitaria.

 

3) Indennità o deterrente ?
Anche in questo caso, cioè nell’ambito risarcitorio o della c.d. tutela obbligatoria, il confronto è acceso fra chi prospetta una natura semplicemente indennitaria, il ristoro di un danno da licenziamento quantificabile sulla base di determinati parametri, o una natura deterrente verso il risarcimento ingiustificato.
Nel primo caso si tratterebbe, per assurdo, di dare comunque un onere in capo al datore recedente (è ad esempio quel che succede oggi con il c.d. “ticket di licenziamento”, da corrispondersi anche in caso di evidentissima ed inoppugnabile giusta causa di licenziamento) quale costo sociale collegato al recesso ed ai suoi effetti.
La tesi ci trova solo parzialmente d’accordo ed in ogni caso solamente per i licenziamento di tipo c.d. “economico”.
Alcuni fautori della tutela reale si dichiarano, ma solo come tesi-limite, favorevoli ad una tutela solo indennitaria, purchè la quantificazione della stessa assuma una funzione di deterrente contro il licenziamento ingiustificato (economico o disciplinare che sia).
Anche questa tesi incontra solo parzialmente il nostro favore, in quanto andrebbe riservata solo ad un licenziamento manifestamente ingiustificato o pretestuoso.
In ogni caso, osserviamo che mentre l’indennità porrebbe riguardo prevalentemente ad aspetti tipicamente soggettivi del lavoratore (la sua situazione personale, famigliare, professionale, geografica) la deterrenza assume un aspetto diverso e pare più riguardare la dimensione dell’impresa.
Se non in tema della soglia dei 15 dipendenti, non abbiamo mai visto affrontato il tema della adeguatezza delle misure in corrispondenza della dimensione aziendale.
Ad esempio, la normativa europea individua quattro fasce (micro, piccola, media e grande impresa) sulla base della combinazione di tre fattori interdipendenti:
• il numero di dipendenti,
• il fatturato annuo;
• il totale attivo di bilancio.
Sembrerebbe pertanto equo ipotizzare che la deterrenza tenga in considerazione questi aspetti.
Oggi hanno lo stesso “deterrente” un’azienda di 20 dipendenti e una di 2.000, un’azienda che fattura e guadagna miliardi e una che è in pareggio. Vi è un obiettivo squilibrio.
Sembra comunque equo individuare per legge alcuni criteri e fissare dei limiti minimi e massimi obiettivamente sostenibili alle indennità.
In ogni caso il tema riguarda anche una questione di principio: cioè se si ritiene che la reazione verso un licenziamento sia quella di “fare giustizia” (nel senso più giustizialista del termine) o quello di spostare l’attenzione sugli effetti socio-economici del licenziamento. E’ abbastanza scontato che più attribuiamo al lavoro un valore sociale e personale più la tentazione istintiva sarebbe quella di spostarsi verso la prima impostazione: bisogna tuttavia chiedersi pragmaticamente se tale impostazione non abbia nei suoi effetti pratici una ricaduta di fatto illusoria o meramente simbolica, appunto totemica.
La spia più evidente di questa impostazione ultra ideologizzata si ha comunque nella considerazione degli effetti che dovrebbe avere un licenziamento con vizi formali, ovvero un licenziamento assolutamente giustificato ma in cui sono difettati solo alcuni aspetti meramente procedurali, peraltro in qualche caso resi molto complessi da norme ed adempimenti di cui talvolta sembra non volersi dare appositamente definitiva chiarezza. Per quale motivo, ci chiediamo, anche in questo caso, il lavoratore avrebbe diritto ad un risarcimento (che potrebbe anche risolversi un una sanzione amministrativa, da destinarsi a politiche sociali) ,e soprattutto, perché questo risarcimento o sanzione non dovrebbe cristallizzarsi in un importo fisso e dovrebbe anch’esso essere calibrato su parametri di nessun interesse e di valutazione del giudice?

4. Gli oneri del licenziamento
Il problema indennitario (ma anche in caso di tutela reale) pone comunque un problema in termini di costo, del licenziamento e delle sue conseguenze, e sociale in genere.
Oggi il tutto ruota sulla contrapposizione impresa-lavoratore e quindi, salvo le politiche sociali passive in tema di ammortizzatori, su una funzione di ammortizzatore data alle tutele in tema di licenziamento. Sarebbe abbastanza facile osservare ciò nel contesto attuale dell’emergenza pandemica e nel divieto di licenziamento imperversante per un periodo che ad oggi si estende su oltre un anno e mezzo.
Affrontare il problema del costo sociale del licenziamento, e talvolta anche del recesso dal rapporto di lavoro senza nemmeno il licenziamento, in tutti gli aspetti in cui esso è collegato, è importante.
Trovare soluzioni equilibrate permetterebbe di evitare acceso contenzioso e le strategie che, da ciascuna parte, sono messe in atto per spostare il costo (o il valore, o il lucro) del contenzioso.
Ad esempio, salutiamo con favore, anzi ne amplieremmo confini economici e spazi temporali rispetto agli attuali, la possibilità di accedere a forme di agevolazione fiscale per cifre (con una predeterminazione dei limiti di esenzione e quindi non indiscriminatamente) poste a chiusura del contenzioso sul licenziamento.
Il tema del costo, e l’obiettivo della c.d. “flessicurezza”, sposta tuttavia inevitabilmente l’attenzione sulla carenza di serie ed efficaci politiche attive e di strategia industriale del nostro Paese. E’ ovvio che in questa prospettiva il tema del licenziamento diventa un dentro-fuori, o vita-morte, dai contorni a volte drammatici. E il contenzioso e le tutele come risorse, tuttavia a ben vedere improprie.
Anche il concetto di licenziamento quale ultimissima ratio, quale emerge da gran parte della dottrina e dell’orientamento giurisprudenziale, deriva dall’avere caricato di oneri e significati impropri un fatto tutto sommato prevedibile in qualsiasi contesto umano, ovvero quello della fine di un rapporto, per una serie di motivi economici, disciplinari o a volte anche di semplice incompatibilità o divergenza.

5. Le soluzioni alternative al licenziamento o di confronto
Poco esplorate rimangono, in una visione ideologico pro-contro il licenziamento, quelle che potrebbero essere le soluzioni messe in campo - con l’aiuto di professionisti qualificati, delle parti sociali o dell’intervento pubblico, o di tutte queste forze in modalità concorrente - per la prevenzione del licenziamento o per l’attenuazione dei suoi effetti.
Già nell’ambito della proposta di riforma degli ammortizzatori sociali abbiamo proposto, come Centro Studi e ricerche dei Consulenti del Lavoro di Milano, in un periodo molto antecedente a qualsiasi frattura del rapporto, l’intervento di una figura (il “tutor di crisi”) in grado di indirizzare politiche e scelte economiche e organizzative dell’impresa volte ad eliminare o attenuare gli effetti di una flessione economica.
Ma anche sotto il profilo del confronto in tema disciplinare-soggettivo, rafforzare con relazioni industriali serie o con l’ausilio di professionisti qualificati o commissioni ad hoc, il tema del conflitto, ben prima che esso esiti nella fine del rapporto, potrebbe rappresentare un utile strumento.
Ad esempio, stabilire tavoli obbligatori di confronto con la contrattazione - la maggior parte già lo prevede ma lo mette poco in pratica – oppure individuare pratiche obbligatorie di conciliazione al nascere del conflitto e nella sua gestione e soluzione auspicabilmente positiva.
Peraltro, tali pratiche conciliative, serie e proceduralizzate, dovrebbero poi assumere un ruolo fondamentale e fornire opportune valutazioni anche nel successivo esito del licenziamento, rispetto al ruolo mantenuto da ciascuna parte nel conflitto e alle reciproche responsabilità.

In conclusione, non ci sfugge certamente che il licenziamento, qualche che ne sia la ragione, è un fatto con conseguenze pesanti e spesso drammatiche per il lavoratore. Talvolta osserviamo che non poche determinazioni lo rendono pesante e drammatico anche per l’azienda. Ci chiediamo se attenuare tali conseguenze sia oggi un compito da lasciare alla contrapposizione delle parti, affiancata da tutele rigide o lasche a seconda dell’impostazione concettuale, ovvero se non si possano trovare soluzioni sociali che in un sistema di contrappesi e, perché no, di prevenzione, possano affrontare i temi connessi al licenziamento con un maggiore equilibrio e senza veti ideologici.

 

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